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Raggio verde (Il) - Rayon vert (Le)


Regia:Rohmer Eric

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Eric Rohmer; collaborazione ai dialoghi: Marie Rivière; fotografia (colore): Sophie Maintigneux; montaggio: Maria-Luisa Garcia; musica: Jean-Louis Valero; interpreti: Marie Rivière (Delphine) e, a Parigi: Rosette, Béatrice Romand, Amira Chemakhi, Sylvie Richez, Lisa Heredia, Basile Gervaise, Virginie Gervaise, René Hernandez; a Cherbourg: Eric Hamm, Gérard Quéré, Julie Quéré, Brigitte Poulain; a La Piagne Michel Labourre, Paulo; a Biarritz: lsa Bonnet, Maria Couto Patos, Yve Doyhamboure, Dr. Friedrich Gunther Christlein, Carita; e Vincent Gauthier; produzione: Margaret Menegoz per Les Films du Losange; distribuzione: Academy Film; origine: Francia, 1985; durata: 98’.

Trama:Delphine, una ragazza parigina, vorrebbe organizzare bene le sue vacanze dopo un’annata di lavoro. Ma è irresoluta. Il rapporto con il suo compagno, ora lontano, si è spento. Un’amica le offre di andare presso una famiglia di Cherbourg, ma Delphine non si trova a suo agio, il soggiorno si rivela tedioso e lei se ne torna a casa. Tenta allora la montagna ma, irrequieta e scontrosa com’è, si fa prendere dalla malinconia e fa subito le valigie. Una compagna la induce allora ad andarsene a Biarritz, ma Delphine è, e si sente, isolata su quella spiaggia di gente allegra e disinibita. Né a lei può bastare la occasionale compagnia di una allegra bionda svedese, in vacanza anche lei, che le consiglia di prendere il mondo come viene. Sempre ispida e insoddisfatta e proprio mentre, quasi alla fine delle vacanze ormai sciupate, sta per prendere il treno per Parigi, la donna incontra alla stazione uno sconosciuto, un giovane simpatico e discreto che le sorride e le parla amichevolmente. Delphine risponde e viene sollecitata a passare i due o tre giorni che le restano in un paesino di pescatori a pochi chilometri. Delphine improvvisamente sorride, si apre al dialogo inatteso ed acconsente. Da alcuni anziani villeggianti sente parlare del fenomeno solare del raggio verde, rarissimo e splendido: si racconta che colui che ha la fortuna di vederlo, leggerà anche nel cuore e nei reali sentimenti di chi gli è vicino. Aggrappandosi a quest’ultima possibilità, Delphine, con accanto lo sconosciuto, riesce a cogliere al tramonto il lampo del raggio insolito. E trova finalmente la tranquillità e la gioia a cui anelava.

Critica (1):"Come viveva questa gente moderna?/E con chi?"
(P. Handke, Storia con bambina)

La bella vacanza
Delphine non possiede il dono della parola; quando questa deve farsi carico di oltrepassare la soglia dello scambio superficiale di informazioni, svanisce in una progressiva afasia che rispecchia la vastità di una solitudine da cui Delphine stessa, per quanto ne sia consapevolmente responsabile, è spaventata e paralizzata. Ma, d’altra parte, quante volte non ci siamo resi conto che nel momento in cui abbiamo affidato al discorso le angosce, i desideri, le premonizioni, i sogni più profondi, essi si riducevano a banalità o a menzogne, obbligandoci a riconoscerli quali essenzialmente muti, nel rimorso per aver voluto sconsideratamente farne oggetto di comunicazione? L’amica che tenta di convincerla a parlare, a sfogare le sue paure e i suoi "magoni", spiegandole che solo così potrà superarli, è la portavoce di tutta quell’irritante credulità di massa, che quotidianamente pratica la chiacchiera quale strumento di possibile transfert e di rimozione, entrando a far parte di un gioco collettivo di cui ognuno sa di farne parte – contemporaneamente negandolo – convinto chissà perché che questa sia la sola condizione per vivere.
Delphine non fa parte di questa schiera sterminata di bugiardi; sollecitata dalle pressioni altrui, si barrica nel mutismo o nella (maldestra) invenzione, e quando al contrario tenta di aprire le porte sulla propria anima a partire dalle occasioni più quotidiane (il cibo, per esempio – e ci riferiamo ovviamente, alla sequenza comicamente estenuante del pranzo all’aperto, con le spiegazioni di Delphine circa il suo essere vegetariana), naufraga senza ritegno nel ridicolo, e in una sofferenza ancora più accentuata. Questa sua esclusione dalla convenzionale "felicità" che accomuna la gente con cui viene a contatto non può avere che uno sfogo: il pianto. Sfogo ripiegato su se stesso, a cui l’eventuale testimone non può che reagire, nel migliore dei casi, con offerte velleitariamente solidali e pratiche (l’offerta dell’amica che le propone la vacanza in Normandia), di fatto incapaci di coglierne tutta la disperazione, e di fronte al quale solo la natura sa rivestire l’unico ruolo possibile e crudele: quello di testimone impassibile (cfr. la splendida sequenza dei pianto solitario tra le piante battute dal vento sulle alture di Cap La Hague).
La mancata vacanza da cui la vicenda prende le mosse è non solo il prologo ma anche la causa agente di un’altra vacanza (etimologicamente nel significato di "assenza") che marcherà l’evolversi dell’estate di Delphine e le relazioni che vi si svilupperanno. La vacanza di Delphine è la condizione necessaria alla comprensione del suo cammino, indecifrabile e folle perfino a lei stessa, verso la salvezza: la sua assenza a se stessa è il riconoscimento oscuro dell’ineliminabilità di un vuoto che tutti gli altri, al contrario, si ingegnano a riempire con una presenzialità reciproca del tutto illusoria, fantasmatica. Delphine soffre della sua incapacità di essere come loro, "felice", e da essi accettata, ma contemporaneamente non riesce mai ad adeguare il suo comportamento: dunque, sia pure inconsapevolmente e macerandosi, accetta la propria condizione, riconoscendola come necessaria al raggiungimento di una vita nuova e più vera. Solitudine, silenzio, assenza a se stessi nell’invocazione muta di una presenza che venga a colmare questo vuoto: la predisposizione di Delphine è eminentemente mistica. Come certi personaggi di Peter Handke – anche se più "volgarmente" compromessa con il ridicolo che il suo modo di fare comporta – Delphine matura la propria salvazione e il proprio riscatto (agli occhi di se stessa e del mondo intero, incredulo) nel corso di una peregrinazione in cui esterno ed interno si confondono inestricabilmente – una "foresta di segni" in cui le cose sembrano a volte emanazione dello spirito (o almeno di uno stato d’animo), mentre l’anima assume spesso le forme di un mortificante adeguamento alle condizioni esterne dei proprio esserci.
Le rayon vert si muove, in fondo, da dove si concludeva Les nuits de la pleine lune, ma ben diverso è il personaggio che si assume il peso della solitudine raggiunta: se Louise si dibatteva con molta grazia per poter essere come tutti (e dunque la solitudine non poteva essere per lei che la conclusione della traiettoria, lo spegnimento di un’attività), Delphine lotta proprio, anche se quasi fino alla fine deprivata di speranza, per non finire assimilata alla soddisfazione insignificante che la circonda. La sua autoesclusione è perciò principio dinamico, battuta d’inizio, movimento in potenza; personaggio non gradevole, in cui troppo spesso si rispecchiano quelle fratture che, in qualche modo addomesticate, insidiano il quieto vivere di molti, quasi di tutti, Delphine conquista però per l’ostinazione infantile che non scende a patti, per la serietà con cui conduce la propria scommessa inconscia e sonnambolica, al di là di ogni "ragionevole"accomodamento.
Questa caratteristica infantile del personaggio ritorna anche nell’occasione della svolta principale dei suo tragitto. I bambini non possiedono moralità, e non è un caso che la chiave della salvezza venga semplicemente rubata da Delphine, appartata ad origliare, ad un gruppo di turisti che discutono sul "raggio verde" descritto da Jules Verne. Rinchiusa nel suo silenzio, si nutre di ciò che i discorsi altrui producono occasionalmente - lei che si rifiuta di partecipare di sé qualsiasi conversazione tendente a coinvolgerla - e conserva poi dentro di sé questo segreto di speranza, in attesa dell’occasione favorevole.Tutti gli elementi concorrono a confermare che Rohmer vede una via d’uscita dalla confusione intellettuale e dall’agitazione spirituale soltanto nella scelta decisiva di un percorso esclusivo e, tutto sommato, "egoistico", nel corso del quale ogni reperto può essere riutilizzato in funzione della riuscita conclusiva, purché si agisca con la necessaria testardaggine e senza badare ai falsi, modelli che gli altri vanno proponendo.
Lento ritorno a casa
Ai film precedenti della serie Commedie e Proverbi, che – "frizzanti" e "deliziosi" – lasciano trasparire un giudizio sconsolato sulla realtà umana che ne costituisce materia, Le rayon vert si contrappone, apparentemente cupo, film in cui il disagio si alterna – e spesso si sovrappone – al sorriso, come portavoce di una speranza sommersa e ostinatamente impegnata ad affermarsi. La rivelazione finale in cui questa speranza viene alla luce accetta, ironicamente, di essere annunciata dalle pagine di Jules Verne, ma non di meno si impone con la forza trascendente di un lampo e di un "sì" finale, a cui il sorriso dello spettatore risponde carico d’emozione e di gratitudine. L’ineffabilità di questo miracolo è però preceduta e sostenuta da un’argomentazione, da una struttura drammatica, che, nella sua semplicità, funziona esemplarmente per la forza delle scelte, delle indicazioni, delle soluzioni, che le danno corpo. Rohmer ha scelto ancora una volta di praticare un cinema basato su budget e mezzi tecnici ridottissimi, confidando nella possibilità di raccontare una storia utilizzando semplicemente l’essenziale; e ancora una volta ha dimostrato di avere avuto ragione.(...) Con sorridente ironia, Rohmer punteggia le peregrinazioni di Delphine di figure maschili – corteggiatori occasionali – che ne rispecchiano fedelmente l’evoluzione (il marinaio gentile e fascinoso in Normandia, il misterioso e minaccioso dragueur parigino), o accennano con dissimulata preveggenza ai successivi sviluppi della vicenda (il giovanotto che la, segue, quando lei scappa dalla terrazza dove viene abbordata insieme alla ragazza svedese, si rivela tutto sommato meno grezzo e volgare di quanto fosse lecito temere, e funziona in tal modo da anticipazione dell’ultimo e definitivo incontro con il bell’ebanista). Nella sua lineare semplicità il film rivela dunque la perfezione della propria tessitura drammatica, e dimostra innanzitutto come il racconto debba essere innanzitutto il risultato di una coerente combinazione dinamica interna ai propri elementi costitutivi; con trasparente intelligenza dei propri fini e dei mezzi consapevolmente adottati per raggiungerli, Rohmer ci sembra abbia approntato, con Le rayon vert, un testo, esemplare, da consigliare quale indispensabile oggetto di studio a tutti coloro che pensano al cinema prima di tutto come ad un atto narrativo, e non come a una teoria di variazioni di montaggio sui più triti stereotipi, riproposti con il fracasso degli effetti speciali e di colonne sonore e musicali dove il dolby stereo funge soltanto da arrogante imbonitore della loro futilità. In Le rayon vert è la perfetta riuscita retorica di questo atto narrativo a tenere desta per novanta minuti la coscienza che ciò che vediamo altro non è che la negazione dell’acquiescenza alla stupidità ciarliera del mondo, e a giustificare la naturale subitaneità con cui Delphine può alla fine concludere in beatitudine il suo lento ritorno a casa.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 259, novembre 1986

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Eric Rohmer
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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