Incendio visto da lontano (Un) - Et la lumière fut
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Regia: | Iosseliani Otar |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Otar Iosseliani; collaborazione artistica: Dimitri Eristavi, Leila Naskidachvili; fotografia: Robert Alazraki; montaggio: Otar Iosseliani, Ursula West, Marie-Agnès Blum; scenografia: Yves Brover Suono: Alix Comte Musica: Nicolas Zurabisvili; costumi: Charlotte David; interpreti: Sigalon Sagna (Badinia), Saly Badji (Okonoro), Binta Cisse (Mzézvé), Marie-Christine Dieme (Lazra), Fatou Seydi (Kotoko), Alpha Sane (Yéré), Abdou Sane (Bouloudé), Souleimane Sagna (Soutoura), Marie-Solange Badiane (Djou), Moussa Sagna (Ladé), Ousmane Vieux Sagna (Gagou), Salif Kambo Sagna (Noukoumé), Fatou Mounko Sagna, Oswaldo Olivera, Bouba Sagna; produzione: Alain Quefféléan, Les Films du Triangle - La Sept - Direkt Film - RAI; distribuzione: Academy; origine: Francia - Germania - Italia, 1989; durata: 100'. |
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Trama: | In un villaggio africano nel sud del Senegal la vita si svolge nel rispetto delle leggi ambientali e dei riti tribali. Sembra imperare con forza il matriarcato. La disintegrazione arriva con i primi camion dei bianchi, guidati dai neri, poiché non lontano si abbattono alberi per aprire strade. Si fanno sentire gli effetti nocivi del progresso... |
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Critica (1): | Non è propriamente un'infatuazione per l'etnografia quella che ha spinto Iosseliani a filmare l'alba rosa africana e l'inedia quotidiana degli abitanti di un immaginario villaggio del Senegal. Né il presuntuoso terzomondismo di chi ha deciso che il globo ormai si divide in nord e sud, il nord delle civiltà e il sud dei rimpianti. Nel suo cerchio di capanne dove spadroneggia un gruppetto di donne e gli uomini si arrendono alle loro decisioni, soprattutto in materia di matrimoni e di ripudi, c'è tutta l'ironia di uno sguardo trasversale che inventa mitologie ed abitudini e miscela l'evento soprannaturale con la pesca nel fiume e i messaggi al tam tam. In loro compagnia per un paio d'ore si impara a conoscerle le tiranne, ad amare soprattutto Okonoro, volubile schiava di un amore che la porta da un matrimonio all'altro con i figli in dote. E si segue il marito Yere che la va a cercare fra mille peripezie e il beneplacito della comunità. Se la sciamana riesce a restituire la vita a un decollato, e una donna infuriata scaccia le vicine creando una tempesta con un soffio della bocca, allora siamo alla presenza di un soprannaturale che non può stupire, e si concilia con uno stile di vita perduto nella memoria che Iosseliani immagina da qualche parte ancora esistente. Un mondo linguisticamente impenetrabile (si parla un dialetto africano, e solo qualche raro cartello come nel muto interviene a indicare la presenza di un nuovo episodio narrativo) e purissimo, dove si ama, si piange, si ride, e anche vita e morte si compendiano: la bambina che sta per nascere si chiamerà Imana e la vecchia che porta il suo nome dovrà lasciarle il posto.. Allontanata dal villaggio compirà a cavallo il suo viaggio verso la morte, per permettere che la nuova Imana porti scritto nel nome il coraggio delle altre che l'hanno preceduta. Mentre le immagini scorrono, nella serena letizia di fatti che sono sempre gli stessi, i camion che passano gettando riviste e caramelle costituiscono l'inevitabile ingresso dell'elemento perturbatore, il dolente contrappunto annunciato in sordina: verrà il giorno che i baobab cadranno sotto il peso delle seghe elettriche, verrà quello in cui gli abitanti saranno costretti a fuggire abbandonando il villaggio alle fiamme, mentre un gruppo di turisti di passaggio (riconosciamo fra questi Iosseliani) si limiterà a constatare l'esistenza di un incendio di lontano. L'asciuttezza dell'epilogo, con la pubblica vendita nella città civilizzata dell'idolo che faceva piovere e tornare asciutto (divinità ghignante e assorta riprodotta poi in serie per i turisti), avverte che abbiamo assistito alla recita delle miserie contemporanee condotta con sommo rigore, senza scomodare toni elegiaci o ricatti sentimentali. Lo sguardo di Iosseliani (anche quello attonito che osserva l'incendio) piace e coinvolge senza chiederlo. E la lumière fut è debitore della ricerca intrapresa dal regista georgiano con il mediometraggio Un piccolo monastero in Toscana. Una ricerca silenziosa alle radici della civiltà al declino: un amore sottaciuto per l'idea di ciò che eventualmente le sopravvive, e senza le fanfare di chi grida allo scempio di un Eden perduto. Cristina Jandelli "Vivilcinema" n. 15-16, novembre-dicembre 1989 Iosseliani si inserisce nel conflitto doloroso fra natura primitiva e storia. Meglio ancora, il cineasta filma questo confronto. Il villaggio primitivo racconta la storia contemporanea per caso, brutalmente. Il primo piano è evocativo: un tronco enorme, a terra, schiaccia tutto al suo passaggio: la storia avanza con fragore verso il povero villaggio. In più Iosseliani ha trovato un genere capace di sostenere con semplicità questa mitologia minacciata da ogni manicheismo: "la favola". Composta da un incrocio di storie familiari, come ogni storia delle origini, di immagini simboliche (gli uomini lavano la biancheria, le donne vanno a caccia), gli effetti della magia e i rituali di gruppo, la favola sviluppa tranquillamente il suo racconto lineare. Implacabilmente si opera la dimostrazione: i legami della comunità si degradano progressivamente a contatto con la storia che avanza. Il tono è rousseauiano, ma leggero, riconcilia Jean-Jacques e Voltaire. Visceralmente pessimista - l'età dell'oro è alle origini del mondo, non alla sua fine - ma smodatamente ridanciano, sempre dimostrativo, mai sentenzioso. Iosseliani ritrova deliziosamente la passione dei Lumières per le letterature e le comunicazioni primitive.
Antoine De Baecque Cahiers du cinéma n. 427, gennaio 1990 |
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Critica (2): | È il film più bizzarro e più sconcertante che vi possa capitare di vedere in questa stagione. Qui di seguito vi proponiamo alcune "istruzioni per l'uso" forniteci dal regista stesso, che dovrebbero servire soprattutto a capire che cosa non è il film e che cosa non è Otar Iosseliani. Iosseliani intanto non è un documentarista, e Un incendio visto da lontano, nonostante l'inizio che pare un reportage sulla distruzione delle foreste, non è un film etnografico. "Ho lungamente preparato il film mediante lo studio del folklore e dei miti africani. L'ho scritto in tutti i dettagli, poi sono partito per l'Africa alla ricerca del luogo giusto per girarlo. cercavo una popolazione che avesse una tradizione molto antica, per ritrovare in questa tradizione le tracce delle antiche culture del mondo. Come 'cultura' io non intendo le opere d'arte, o il pensiero metafisico. Per me la cultura è come la biologia: è l'esperienza delle generazioni, una somma di regole per vivere nel mondo, in gruppo. La vita dei monaci è una cultura, la democrazia greca era una cultura. Sembra un approccio antropologico, ma Iosseliani, proseguendo nelle nostre definizioni in negativo, non è Lévi-Strauss. Le sue idee sono più poetiche che antropologiche in senso stretto: "La cultura è vulnerabile, muore molto facilmente. Perché una cultura, giocoforza, produce beni materiali, e il desiderio del possesso dei beni è la prima cosa che la distrugge. La cultura scompare e diventa civiltà: ovvero lo sfruttamento del pensiero e del lavoro in funzione di comfort, del privilegio di pochi a danno di molti".
Alberto Crespi L'Unità 28.11.1989 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Otar Iosseliani |
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