Noia (La) - Ennui (L')
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Regia: | Kahn Cédric |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Cédric Kahn e Laurence Ferreira Barbosa, dal romanzo di Alberto Moravia; fotografia: Pascal Marty; suono: Jean-Paul Mugel e Dominique Hennecquin; montaggio: Yann Dedet; scenografia: François Abelanet; costumi: Françoise Clavel; interpreti: Charles Berling (Martin), Sophie Guillemin (Cécilia), Arielle Dombasle (Sophie), Robert Kramer (Mayers), Alice Grey (la madre), Maurice Antoni (il padre), Tom Ouédraogo (Momo); produzione: Gemini Films-Ima Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, 1998; durata: 100’. |
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Trama: | Parigi Martin, professore universitario, è in preda alla depressione dopo la rottura con la moglie Sophie. Un giorno incontra Mayers, pittore stravagante, che muore poco tempo dopo mentre faceva l'amore con la sua ultima modella Cecilia. Anche Martin fa la conoscenza con la giovane e fra i due inizia una relazione all'insegna di una totalizzante morbosità. |
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Critica (1): | Il nome di Cédric Kahn circola da un po’ di tempo nel piccolo mondo di critici e cinefili: a partire dal suo primo lungometraggio, Bar des rails – presentato alla Settimana della critica di Venezia nel 1991 –, e soprattutto grazie alla sua opera seconda, Trop de bonheur, circolata un po’ nei festival e apparsa in forma ridotta (col titolo Bonheur) all’interno della famosa serie televisiva Tous les garçons et le filles de leur âge. Questo per dirvi che all’interno della distribuzione commerciale italiana il suo nome è sconosciuto. Potete rintracciarlo se volete solo come sceneggiatore de Le persone normali non hanno niente di eccezionale di Laurence Ferreira Barbosa, che d’altra parte gli rende il favore comparendo come sceneggiatrice in questo film tratto da La noia di Alberto Moravia.
La distribuzione in Italia de L’ennui (acquistato dalla Lucky Red: si spera comunque che il film non venga gettato nell’ ”indifferenza” della distribuzione di fine estate) premia quindi il talento di un regista tra i più meritevoli dell’ultima generazione della cinematografia francese. Sono infatti evidenti in Kahn doti da metteur en scène superiori per esempio a quelle della stessa Ferreira Barbosa, capaci di trascendere la tematica del rapporto tra follia e normalità, tipica della regista francese, in una riflessione tradotta in maniera più incisiva in termini per così dire “visivi”. E del resto, grazie al cielo, questo film ha qualche cosa in più dello stesso romanzo di Moravia a cui fa riferimento. Certo, la storia , ripresa in modo fedele, è abbastanza nota: l’impossibile rapporto tra un intellettuale in crisi e una ragazzina che si dice abbia provocato la morte di un pittore (interpretato da Robert Kramer) nello sfinimento di unioni sessuali reiterate, malate e ossessive. Solo che Kahn, spurgato ogni riferimento in chiave anticapitalista e antiborghese della prosa moraviana, si concentra soprattutto sul tentativo messo in atto dal protagonista di possedere una realtà sempre più ridotta ad immagine. La pazzia del protagonista è nella volontà di ripercorrere una seconda volta il rito (fallito) di presa di possesso di un corpo che nel momento stesso in cui si offre non fa altro che allontanarsi. Ma l’origine di una pienezza perduta, proprio nella ripetizione di un atto che aveva già manifestato il suo esaurimento di senso, non può che essere allontanata ancora di più e quasi paradossalmente scarnificata, proprio davanti alle fattezze di un’attrice (la ventenne Sophie Guillemin) che Kahn ci offre invece in tutta l’opulenza delle sue carni (sto solo cercando di dirvi che la protagonista – molto bella, sia chiaro – ha qualche chilo di troppo). Non è un caso. Kahn mette in scena infatti una storia in cui il sesso, inteso come rito di partecipazione di due corpi portatori di un possibile principio di piacere e di significazione, viene invece azzerato in un atto dominato dall’ossessione paranoica, nel gesto fine a se stesso di una coazione a ripetere imposta dal sadismo e dalla gelosia, epurato apparentemente di qualsiasi consistenza materiale: nella massa di amplessi rabbiosi e brevissimi, o nell’ossessione delle continue telefonate che il protagonista fa per localizzare e possedere l’oggetto di una realtà che non può che sfuggirgli.
Possiamo provare ad esprimerci anche in altri termini. Qui, diversamente dai romanzi di Moravia, il sesso non ha niente di pruriginoso o compiaciuto. Questo perché in Kahn il sesso, al pari dell’intera messa in scena, serve letteralmente per dare voce alla sostanza più inafferrabile ed inesprimibile costituita proprio da un desiderio destinato a rimanere continuamente insoddisfatto. Infatti Kahn ha realizzato un film rigoroso – ineccepibile sul piano della sceneggiatura, della fotografia e del montaggio (Yann Dedet) –, forse freddissimo nel suo raccontare una vicenda che sembra non lasciare spazio all’espressione di qualsiasi sentimento d’amore. E così facendo ha probabilmente pensato anche a una possibile riflessione sul cinema, sull’impossibilità di afferrare un corpo ridotto ad immagine. Il suo film precedente, Bonheur, era dominato da un senso di latenza provocato dai corpi dei ragazzi protagonisti (solo accarezzati, sfiorati, desiderati e rifiutati) che il regista, nella festa adolescenziale, mostrava in tutta la loro fisicità davanti agli occhi dello spettatore (e degli stessi giovani attori, quasi spaesati e continuamente sottoposti a tentazioni nello spazio della messa in scena). Qui in L’ennui, l’immagine ancora una volta si offre allo sguardo desideroso apparentemente piena, ma in realtà pronta a sottomettere chiunque vi si avvicini ad una specie di supplizio di Tantalo. Il corpo della protagonista è una sostanza fredda, “indifferente” nel senso moraviano del termine. “È un lavoro da alchimista. Talvolta, nonostante si creda che due persone si possano trovare bene insieme, l’incontro non avviene. È davvero strano, non si spiega”, aveva scritto lo stesso Kahn un po’ di tempo fa (in “Organiser le chaos”, Cahiers du cinéma n.481, p. 26). In ogni immagine c’è un nucleo caotico irraggiungibile che non può essere espresso che in termini visivi (l’impossibilità di comunicazione verbale tra i protagonisti, risulta emblematica nel mutismo grottesco del padre della ragazza, in una scena che da sola vale tutto il film). Per Cédric Kahn un film, ogni storia, è la visione di un tragitto ossessivo provocato da questa non possibilità di possesso. La capacità di rimanere fedele a questo partito preso sino in fondo è uno dei meriti che distingue questo giovane regista dalla massa di mestieranti e improvvisatori di cui è pieno il cinema europeo (prego vedere i “giovani” registi italiani passati a Venezia per credere).
Michele Fadda, Cineforum n. 377, settembre 1998 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Cédric Kahn |
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