Dodes’ka-den - Dô desu ka den
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Regia: | Kurosawa Akira |
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Cast e credits: |
Storia originale: Shugoro Yamamoto; sceneggiatura: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto; fotografia: Takao Saito, Yasumichi Fukuzawa; musica: Toru Takemitsu; interpreti: Yoshitaka Zushi, Akemi Negishi, Shinsuke Minami, Junzaburo Ban, Kiyoko Tange, Jitsuko Yoshimura, Hiroshi Akutagawa, Tomoko Naraoka; produttori esecutivi: Akira Kurosawa, Yoichi Matsue; produzione: Yonki-No-Kai, Toho; distribuzione italiana: Cineteca Griffith; origine: Giappone, 1970; durata: 140’. |
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Trama: | L’azione si svolge in una bidonville, ai margini della grande città. I protagonisti abitano in un agglomerato di lamiere e di fogli di carta incatramati, accatastati insieme sul suolo, gli uni vicino agli altri. Una via in terra battuta lo taglia come un coltello: è il luogo degli incontri, della povera bottega, dell’unica fontana. La percorre fin dall’inizio Roku-Scian, un giovane debole e malato, che trascorre le sue ore disegnando tram e sognando egli stesso di condurne uno. “Dodes’ka-den”: ripete incessantemente con voce onomatopeica al rumore delle ferraglie immaginarie. Sua madre intanto rivolge una preghiera a Buddha, consapevole ma impotente di fronte alla follia del ragazzo.
Tra gli ospiti della bidonville c’è un barbone che vive con il suo bambino nella carcassa di un’automobile. Sogna di possedere una villa con piscina e fa partecipare il figlio a questo sogno, ma poi lo invia in città per una raccolta di cibo nelle cucine dei ristoranti. Il bimbo muore per un’imprudenza del padre, che, dopo avergli fatto ingerire un cibo non cotto, non si accorge delle gravità dei dolori che accusa. Il barbone resterà solo a sognare l’impossibile villa. Poco distante vive una giovane donna, la più bella del villaggio, che ha procurato al grasso e più anziano marito, un fabbricante di spazzole, chiaramente impotente, una nidiata di bambini scegliendosi occasionali amanti. I figli dubitano dell’identità del lort padre, ma l’uomo bonariamente li rassicura: “il vero padre è colui che voi amate come tale”.
Un’altra donna, questa volta adolescente, lavora giorno e notte per confezionare fiori finti, e mantiene uno zio fannullone e una zia sofferente. Una sera, assopitasi dopo la fatica del lungo lavoro, lo zio la violenta. Rimasta incinta, tenta di uccidere un ragazzo della sua età, il solo uomo che sia stato gentile con lei. Fallisce nel tentativo e poi spiega le ragioni del suo proposito: ucciderlo e quindi suicidarsi perchè vuole vivere con lui nell’al di là.
Tra gli abitanti della bidonville figurano anche un impiegato a basso salario, soggetto a frequenti crisi spastiche e afflitto da una moglie autoritaria e isterica; un ex-uomo d’affari che aggiunge alla rabbia d’aver fallito professionalmente l’impossibilità di perdonare un adulterio della moglie; un paio di lavoratori a giornata, e le loro mogli, che vivono porta a porta: di notte, ubriachi, si scambiano le donne. Completa il quadro un artigiano, l’uomo più vecchio e saggio della comunità: rifiuta di denunciare il furto anche quando il ladro ha ammesso la sua colpa, fornisce un falso veleno ad un vecchio che vuole uccidersi. È l’unico uomo che sembra capace di vivere altrove, ma non abbandona mai le baracche, tra le quali spende la sua vita come missione. |
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Critica (1): | Anche nel felicissimo Giappone, che, in pochi decenni di insuperata perseveranza, ha saputo sostituire l’olegrafica immagine di un paese intento a praticare l’origami e l’ikebana con quella di una nazione fornitrice di gadgets e di transistor in tutto il mondo, restano le sacche di povertà. Nel quartiere di Horie-cho, il più insano e malfamato di Tokio, Kurosawa ne ha ritratta una. Dodes’ka-den è una cronaca del sottosviluppo, un affresco sugli esclusi dal “miracolo giapponese”, ai margini della metropoli dell’impero. Viene in mente un altro titolo della filmografia di Kurosawa, I bassifondi (1957), riduzione cinematografica dell’opera di Gorkji, ma la chiave stilistica è assai differente. Ieri il realismo, oggi l’astrazione. In effetti Kurosawa, scoperto il realismo nel dopoguerra, quando l’occupazione americana portò una ventata di relativa libertà tra le macerie dell’impero, se ne discostò ben presto. Per cultura e temperamento, poi anche per l’età, era portato a una visione del mondo romantica e populistica. L’approdo sarà Dersu Uzala. La prova più ambiziosa e sperimentale è Dodes’ka-den.
Kurosawa non registra, inventa. Non ritrae, evoca. Non testimonia, riflette. Di questo approccio è persettamente consapevole. Dice: “Volevo fare un film diverso, che non avesse niente a che fare col realismo, e nemmeno con i colori di tutti i giorni. In questo senso, Dodes’ka-den è il mio film più sperimentale, sia per la struttura sia per l’uso antinaturalistico del colore. In un certo senso, Dodes’ka-den è un lungo incubo. Perciò vi prevalgono le tinte stridenti, allucinanti. Alcuni episodi sono a dominante gialla, in altri prevalgono tonalità tra il verde e il marrone. Nel tentativo di esprimere tutto col colore, ho dipinto anche il terreno”. Sfuggendo per la tangente alle insidie del naturalismo, Kurosawa si trova ad eludere due problemi che lo inquietavano e che inevitabilmente gli si riproporranno nel successivo, Dersu Uzala ove peraltro saranno risolti in bellezza: quello delle riprese in esterni e quello dell’impiego del colore, in Dodes’ka-den usato per la prima volta. A proposito del primo problema così spiegava nel 1966: “Girare in esterni è interessante, ma spesso fonte di problemi. In studio si è più tranquilli. Inoltre un ambiente naturale non fornisce sempre un’immagine naturale, un senso d’autenticità. Per arrivarci occorre un certo artificio. Per esempio, ciò che è sporco non è sporco per la macchina da presa. Giro in studio per ritrovare il naturalismo”. Anche se visionario, Dodes‘ka-den è stato girato in esterni, ma questi esterni sono stati letteralmente inventati, sottraendo ad essi ogni dimensione naturale.
Problema numero due: il colore. Così confessava Kurosawa, sempre nel 1966: “Non sono ancora giunto a trovare il colore che mi lasci soddisfatto. Mi sarebbero necessarie delle esperienze. La porta dell’inferno di Kinugasa, che ha ottenuto il premio per i colori a Cannes, non offre un’immagine del “colore giapponese”. È un po’ troppo translucido. Non è questo il “colore giapponese” che dovrebbe essere carico e opaco. Inoltre, nei film, per mettere a fuoco i minimi dettagli, bisogna chiudere al massimo l’apertura del diaframma. Altrimenti, nella profondità di campo, l’immagine diventa evanescente. Le pellicole a colori però hanno una debole sensibilità”. Dodes’ka-den non risolve questi problemi. Li ignora. Il regista ridipinge quanto sottopone al suo obbiettivo: dai fondali alle baracche, dagli oggetti domestici ai cumuli delle immondizie.
L’antinaturalismo ricercato e raggiunto da Kurosawa (e curiosamente espresso perfino nel titolo: “dodes’ka-den” è un suono onomatopeico che esprimerebbe lo sferragliare del tram immaginario condotto dal ragazzo minorato) propone il tema dei rapporti tra questo autore, e quest’opera in particolare, e il teatro drammatico giapponese, stilizzato nelle sue principali espressioni. Il riferimento al Kabuki è stato avanzato da più critici. Ha scritto, ad esempio, Francesco Bolzoni: “Come gli autori e gli interpreti del teatro kabuki, Kurosawa non intende denunciare una situazione determinata da fattori storici. Vuole cogliere il fluire della vita. Riassume fatti, rappresenta comportamenti, indugia sui sentimenti con quella fiducia totale nella “verità” di quanto viene mostrando che, da noi, era propria dei romanzieri naturalisti e, in Giappone, degli autori del teatro kabuki”.
Ci sembra difficile avallare un simile paragone. Non fosse altro per le manipolazioni dell’edizione italiana del film, che ai tagli (...) aggiunge pure il doppiaggio, con ciò che ne consegue sul piano della riconoscibilità letteraria e interpretativa. Di certo non lo avallerebbe Kurosawa, che dichiarava: “Non amo il kabuki. Il kabuki, almeno per quello che è oggi, è qualcosa di volgare, corrotto e inefficace dal quale non può nascere niente di nuovo. È come un fiore che non dà frutti. L’arte del nô è fatta di purezza e il suo stile è ricco. II nô mi ha influenzato; non il kabuki. Se prendo in prestito qualcosa dal kabuki è per parodia o scherzo. Non credo vi sia alcunchè di serio nel kabuki”. II problema delle parentele tra Dodes’ka-den e il teatro nipponico ci lascia perplessi. Starà a cuore a Kurosawa, che si premurò, anni fa, di inviare una comunicazione ad un convegno shakesperiano a Stratford-on-Avon per sottolineare le strette affinità tra il nô e la sua riduzione del Macbeth (Il trono di sangue, 1956), ma risulta pressochè incomprensibile per uno spettatore europeo estraneo alla cultura nipponica. Di certo l’ambiente sociale ritratto da Dodes’ka-den, il suo populismo, l’intenzione lirica ci sembrano distanti dal kabuki, ma non affini al classicismo del nô. Per la cronaca, e per concludere, un critico ha sottolineato l’affinità tra le parentesi offerte nel film dalle donne che lavano le stoviglie presso la fontanella al centro della bidonville e il kyogen, altra forma del teatro nipponico. È un paragone colto e divertente.
L’interesse di definire i valori scenografici e recitativi del film, anche al di là delle loro eventuali parentele teatrali, non è tuttavia puro esercizio retorico. In Dodes’ka-den, infatti, Kurosawa, fedele alla sua poetica di affrontare il “sociale” solo come momento del dramma interno o esterno di un uomo, e di fare il ritratto dell’uomo attraverso questo dramma, svolge un discorso morale. E la moralità in lui, come nella tradizione artistica giapponese, è stile. L’apparente divagare della cinepresa attraverso i vicoli della bidonville segue un preciso ritmo narrativo, inteso a far risaltare il mondo interiore dei personaggi, la loro visione delle cose, la loro sensibilità. Alla fine anche l’attenzione dello spettatore si sofferma su ciò che il regista qualifica come elemento più importante: l’animo umano. I bassifondi della città, fuori dal tempo e dal mondo, quasi un pianeta privo di una sua orbita, i tuguri e le strade dai colori artificiosi, il firmamento naïf con un sole dipinto in maniera provocatoria si presentano come pure convenzioni e quasi si elidono reciprocamente, lasciando filtrare il discorso morale applicato all’uomo in quanto tale, e non più al diseredato e all’escluso che, in quelle case e sotto quel cielo, vivono. Al più, quanto di quella crudele povertà sopravvive nella presa di coscienza dello spettatore serve a esemplificare con più violenza, cioè anche materialmente, la miseria dell’uomo. In breve, non è il discorso, sociologico che interessa il regista ma quello esistenziale.
I colori smaglianti, i modelli espressionistici, le immagini visionarie, gli accenti surreali, l’intenzione lirica non compongono un effetto drammatico fantastico, verosimilmente ricercato da Kurosawa, ma definiscono un quadro pietistico estetizzante. Colpa di una materia narrativa su cui sono sospesi i rischi del melodramma e del miserabilismo, cui Kurosawa aggiunge il peso di un populismo sentimentale mai apparso così invadente nella sua opera. L’episodio del vecchio che sorprende il ladro e gli regala la refurtiva, mutuato da “I miserabili”, è rivelatore di questo populismo, ma tutta la galleria degli umili e dei matti appare assolutamente impermeabile a ogni tensione socio-politica.
L’amaro pessimismo di Kurosawa non scandaglia sui rapporti tra gli uomini e sulle relazioni tra gli uomini e le cose, permettendoci di cogliere i nessi di causalità, ma annota, registra l’immutabilità di una certa situazione morale. L’evasione è solo un inganno: è il sogno del giovane padre che occupa la baracca-automobile e progetta di costruire una villa, cui il siglio pietosamente presta fede; è il gesto disperato della ragazza violentata dallo zio che ferisce il coetaneo di cui è innamorata per farsi ricordare; è la follia dell’immaginario conduttore del tram; l’incoscienza e la spensieratezza dei due ubriaconi che si scambiano le mogli.
A differenza di Dersu Uzala, in Dodes’ka-den non ci sono le forze della natura che obbligano l’uomo alla solidarietà e all’aiuto, reciproco, mitigando l’acre pessimismo. Ce n’è forse solo un’anticipazione, retorica e negativa, nel paragone attraverso cui ritrae l’uomo che non sa perdonare l’antico adulterio della moglie: morto dentro come essicato è l’albero di fronte alla sua capanna. C’è invece la testimonianza della comprensione umana, affidata al personaggio del vecchio Tamba, che, di fronte all’ispettore di polizia, afferma di non riconoscere il ladro che l’ha derubato per non danneggiarlo. In esso si riconosce il regista. “Mi sono sempre chiesto – afferma Kurosawa – perchè gli uomini non facciano qualcosa di più per andare d’accordo tra loro. Il vecchio Tamba, che aiuta i ladri a derubarlo di quel poco che ha, è un po’ l’incarnazione della superiore saggezza di cui il mondo avrebbe bisogno”. Ma la lezione che il vecchio offre è solo quella della pietà: riconcilia con la vita il borghese caduto in rovina; tenta di soccorrere il bimbo morente; scava la fossa al bimbo morto. Egli vive volontariamente in un mondo di diseredati per infondere la consapevolezza che non compete ai diseredati cambiare il loro mondo.
Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 181, 1-2/1979 |
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| Akira Kurosawa |
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