Tempi moderni - Modern Times
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Regia: | Chaplin Charlie |
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Cast e credits: |
Soggetto: Charlie Chaplin; sceneggiatura: Charlie Chaplin; fotografia: Ira H. Morgan, Roland Totheroh; musiche: Charlie Chaplin; scenografia: Charles D. Hall, Russell Spencer; interpreti: Charlie Chaplin (operaio), Paulette Goddard, Henry Bergman (proprietario del Café), Tiny Sandford (Big Bill/operaio), Chester Conklin (meccanico), Hank Mann (Scassinatore), Lloyd Ingraham (commensale in collera), Allan Garcia (Presidente dell'Electro Steel Corp.); produzione: Charlie Chaplin per United Artists; distribuzione: mk2; origine: Usa, 1936; durata: 85'. |
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Trama: | Charlot, operaio in un grande complesso industriale, estenuato dal ritmo frenetico di lavoro, perde la ragione. Ricoverato in una casa di cura, viene dimesso qualche tempo dopo per finire però quasi subito in prigione, a causa di una manifestazione di operai nella quale si ritrova casualmente coinvolto. Durante la detenzione, egli concorre, inconsapevole, a sventare una rivolta di detenuti; ciò gli frutta l'immediata scarcerzione. Una volta libero, riprende la sua dura lotta per sopravvivere: gli è di conforto l'amicizia di una giovane orfana, con cui divide fraternamente la propria casetta e quel po' di cibo che riesce a procurarsi. Quando la ragazza trova lavoro in un cabaret e riesce a far assumere anche Charlot, ai due derelitti sembra schiudersi la prospettiva di un futuro migliore. La polizia, venuta a cercare la ragazza per ricondurla all'orfanotrofio, li costringe però a fuggire dalla città per cercare altrove un po' di tranquillità. |
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Critica (1): | È inevitabile, lungo questa via, il passaggio alla violenza polemica di Modern Times. Qui Chaplin parte da una evidente ipotesi fantascientifica, che serve a spiegare il presente. Dopo le immagini d'apertura, di chiara impronta simbolica (entrata degli operai in fabbrica, contrapposta al gregge di pecore), troviamo la sequenza della macchina per mangiare: uno stravagante strumento, fatto per risparmiare tempo sui pasti degli operai, che, impazzendo al primo collaudo, imprigiona Charlot in una morsa assurda, subito destinata a rivelare (grazie alla espressività dello stesso Chaplin) il proprio fondo tragico. Questa sequenza introduce il segno della follia, che caratterizzerà la seguente (sequenza della f ollía di Charlot in fabbrica). La catena di montaggio non è che il, prolungamento della stessa macchina per mangiare, con i suoi ritmi convulsamente accelerati in nome dello stesso risparmio di tempo: non lascia scampo - e quando Charlot si lascia sfuggire un disco su cui deve avvitare due bulloni, è lui il primo a preoccuparsene, a inseguire il disco con un tuffo. Ormai egli stesso è diventato parte della macchina, le sue mani si muovono da sole, non piú coordinate dal cervello. Ma la macchina non ragiona e qualunque cosa assomigli a bulloni (persino i bottoni d'una pettoruta signora), Charlot vuole avvitarla. La sequenza porta irrimediabilmente ad uno scompiglio generale nella fabbrica, che si riequilibra solo nella struttura centripeta del linguaggio chapliniano: Charlot guida una folle danza alla quale piega la fabbrica intera. E lo fa rovesciando il ruolo tradizionale degli oggetti, alienandone la funzione (le leve, i comandi delle dinamo, gli spruzzatori d'olio, le stesse chiavi inglesi divenute sue appendici, come un paio d'antenne). Le stesse leve che comandano la vita dell'uomo, determinandone gesti e movimenti e tempi, sono usate da Charlot per rovesciare anarchicamente il rapporto uomo/macchina. Egli arriva persino a giocare beffardamente con la vita dei suoi simili, quando continua ad azionare la catena di montaggio inchiodandovi gli operai che vorrebbero inseguirlo, ma che non possono resistere al comando della catena stessa. Da tutto ciò si giunge alla deflagrazione finale, al trionfo dell'uomo sulla macchina: in fondo anche la follia è una forma di liberazione.
La logica strutturale della sequenza è quella tradizionale del personaggio comico che rivela in una data situazione la sua incongruità con essa. Chaplin non esce dalle dimensioni mitiche del suo personaggio, di cui non sappiamo, all'inizio del film, ancora nulla; ma è la connotazione dell'altro (la fabbrica, nel suo insieme) ad assumere il ruolo di donatore di senso storico all'intera sequenza. Charlot è la maschera mitica di sempre, ma la sua inadeguatezza esce dai limiti del mito grazie alla significazione messa in atto dalla raffigurazione dell'altro. Il processo tecnologico viene rivelato da Chaplin come una faccia mostruosa, aberrante ma perfettamente coerente, del Capitale. E cosí anche il segno Charlot, apparentemente privo di connotazioni storicamente determinate, diventa l'uomo del Capitale.
Modern Times si divide in cinque parti nettamente distinte. La prima, composta dalle sequenze qui ricordate, si chiude con la reclusione di Charlot in ospedale, cioè con l'emarginazione dell'irrecuperabile, di colui che non è in grado di sopportare l'alienazione necessaria a sopravvivere entro e con il Capitale. La seconda parte si apre con Charlot che esce dall'ospedale e si ritrova in un clima generale di tensione, senza casa e senza lavoro; si chiude con la sequenza della bandiera rossa e con il suo nuovo arresto. La terza parte comincia con il tentativo d'evasione sventato da Charlot drogato; prosegue con il suo rilascio e con l'incontro con Paulette Goddard, fino a che i due fuggono insieme nella capanna sul fiume. Nella quarta parte Charlot trova lavoro come guardiano notturno in un grande magazzino; segue la sequenza dello schettinaggio a occhi bendati (il riaffiorare d'un incubo che i due protagonisti hanno creduto, per un momento, lontano e dimenticato); vengono quindi i ladri e Charlot è nuovamente arrestato. Nella quinta parte Charlot, uscito di carcere, trova lavoro grazie alla "monella", come cameriere-cantante; lei però è ricercata come orfanella e i due devono nuovamente fuggire.
Queste cinque parti si presentano come cinque variazioni su un unico tema. Non esiste una specifica progressione: se la conclusione della prima parte è la follia, ad essa fanno seguito i reiterati tentativi di Charlot di reinserirsi nel mondo del lavoro. Un elemento costante è quello della reclusione, che chiude la prima, la seconda e la quarta parte; solo la terza e la quinta sono nel segno della libertà (la capanna ai margini della città; la lunga strada all'alba). Charlot ha trovato una compagna, che gli dà la forza di reagire e di lottare. Il loro primo incontro è ironico: quando Charlot si accusa del furto del pane, salvando in questo modo lei, lo fa solo perché vuole tornare in prigione, dove si trovava bene. Solo quando lei gli fa cenno di seguirla, egli con una decisione improvvisa accetta. Ma chi è la "monella" se non il doppio di Charlot, come in The Kid? La fuga-liberazione del finale ribadisce cosí la solitudine del personaggio e la sua emarginazione: quella strada su cui i due si incamminano non porta da nessuna parte.
La solitudine del personaggio, sia pure nella sua forma sdoppiata, è confermata marginalmente dal giudizio che Chaplin dà degli altri oppres-
si: l'accostamento iniziale degli operai alle pecore; gli operai schiavi della catena di montaggio nella sequenza sopra descritta; quando ha ripreso il lavoro (sequenza con Chester Conklin) e viene nuovamente proclamato lo sciopero, egli non è certo soddisfatto. Anche i suoi moti di ribellione sono ambigui; alla chiusura della fabbrica e alla prepotenza dei poliziotti, Charlot di fatto non reagisce, ma provoca incidentalmente il lancio di un mattone che colpisce un poliziotto; e si pensi soprattuttoalla sequenza della bandiera rossa:
"Charlot raccoglie la bandierina caduta e corre dietro al camion che l'ha perduta, sventolandola. In quel momento, dietro a lui, che non la vede, svolta
l'angolo una manifestazione di lavoratori, capeggiata da operai dall'espressione, tra l'altro, talmente energica e decisa da non lasciare il minimo dubbio sul loro esser consci o meno di quel che stanno facendo. Non è la manifestazione che si organizza e accoda a Charlot, è Charlot che, a propria insaputa, si trova alla testa di una manifestazione che era già in corso" (Viazzi).
Baldelli accusa il film di " forzatura nichilista ", per la quale Chaplin " non odia questa o quest'altra società, ma la Società: e il fatto che abbia creato il personaggio del vagabondo è significativo: il vagabondo, non il contadino o l'operaio ". Per Bazin, "Charlot non possiede alcuna coscienza di classe e se egli è con il protelariato, ciò è dovuto al fatto che anche lui è una vittima della società come è, e della polizia" (giudizio condiviso anche da Baldelli e da Barthes). Il discorso non è cosí semplice: quanto detto prima è valido per il Chaplin precedente a City Lights, ma a partire da questo bisogna almeno riconoscergli il tentativo di uscire dallo schematismo manicheista.
"Chaplin è riuscito a dare un'espressione umoristica, ampia, totalmente valida al senso di smarrimento dell'uomo medio di fronte all'ingranaggio e all'apparato del capitalismo moderno" (Lukàcs). Quest'uomo medio (per quanto tale definizione sia difficilmente accettabile nella sua genericità) non è un "tipo" nell'accezione realistica del termine, ma piuttosto un simbolo, una maschera dalle ampie possibilità di riconoscimento.
Egli racchiude in sé le condizioni dello sfruttamento e dell'alienazione, cui di fatto non sa opporsi: è un integrato velleitario, cui vengono negate le possibilità dell'integrazione (e in questo senso ci troviamo, ancora una volta, di fronte ad un altro Charlot). Egli vuole lavorare, vuole inserirsi nel sistema; accetta i furti della ragazza, perché bisogna pur mangiare, ma la strada che preferisce è quella dell'onestà e del lavoro, la strada che conduce alla realizzazione del suo sogno piccolo-borghese (la casetta con le tende a fiori, la frutta alle finestre e la mucca che gli dà il latte fresco). Il ritratto che Chaplin ci dà del proletario nel 1936 rifiuta la facile (e falsa, negli USA) illusione della lotta di classe. È un proletario cui manca la coscienza di essere proletario; l'ideologia borghese lo ha già invaso, in modo definitivo. Nasce di qui la dimensione quasi kafkiana messa in luce da Lukàcs: la dimensione esplicitata proprio dalla struttura ripetitiva di Modern Times, vera e propria tautologia dell'iniziazione imposta e rigettata.
Se si può riconoscere al discorso chapliniano l'assenza di confini ideologicamente precisi, bisogna anche dire che proprio questa assenza gli permette di evitare, malgrado tutto, gli schematismi di quel " genericamente umano " che Marx rimprovera alla cultura borghese - perché la connotazione storica di questo Charlot è di per sé precisissima. " La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse piú efficace della rivoluzione " (Barthes). In questo senso la fuga del finale (cioè il rifiuto totale) assume il senso della sola maturazione possibile in una società in cui il proletariato, in quanto classe cosciente di se stessa, non esiste.
Con Modern Times assistiamo alla fine di Charlot (che ha già qui alcuni connotati fisionomici diversi: i capelli con la scriminatura sostituiscono ad esempio la precedente folta massa di ricci scuri). La sua fine coincide con la fine del suo silenzio. Per la prima volta udiamo sullo schermo la voce di Charlot, dopo avere udito i gorgoglii del suo stomaco (sequenza con la moglie del pastore in carcere). Canta una canzone, ma le parole che pronuncia sono senza senso: è uno sberleffo al parlato, che è una conquista del progresso tecnologico (le sole parole del film sono quelle pronunciate da una macchina). Si tratta di una dichiarazione implicita di "teoria": Chaplin dimostra che il comico (e quindi il cinema, di cui il comico è la forma linguistica per lui specifica) sta soprattutto nell'immagine. E si deve anche notare come nel suo stile si sia nel frattempo affinato l'uso della macchina da presa e dei suoi movimenti. Lo vediamo in due sequenze particolarmente significative:
1. In prigione un detenuto nasconde, durante il pranzo, la "polverina" nella saliera. Charlot è seduto a tavola accanto a lui. Dopo che questi è stato trascinato via dai poliziotti, egli assaggia la minestra; la trova insipida. Rapida panoramica verso sinistra: Charlot allunga il braccio a prendere la saliera. Rapida panoramica verso destra: Charlot cosparge di sale la minestra.
Il ritmo veloce delle due panoramiche accentua la suspense legata al fatto che noi sappiamo che cosa c'è dentro la saliera, in quanto drammatizza la banalità del gesto di Charlot.
2. Nel ristorante il padrone guida Charlot cameriere verso le cucine; la macchina da presa li segue con una lunga carrellata verso sinistra attraverso il locale deserto. Poco piú tardi, nel locale pieno di gente che balla, una rapida carrellata verticale (movimento di gru a salire) inquadra Charlot che tenta inutilmente di recapitare un'anitra arrosto al cliente che l'ha ordinata.
L'uso delle due diverse carrellate accentua la contrapposizione tra i due
momenti della stessa fase narrativa, evidenziando la diversa distribuzione dello "spazio".
Non sono invenzioni casuali. La costruzione dei gag è sempre rigorosa, cosí come la loro connessione: sequenze come quella della macchina per mangiare o quella dello schettinaggio nei grandi magazzini (due esempi assai diversi tra loro dal punto di vista strutturale) non sono momenti estranei all'azione del film, ma acquistano il loro vero significato proprio nel contesto generale dell'opera: alla prima spetta la funzione di introdurre il dualismo uomo/macchina (e lo fa inventando il senso angoscioso del comico, come in The Gold Rush); da essa discende come conseguenza logica la follia di Charlot, che assume cosí il valore di una paradossale liberazione contro la prigionia precedente (si ricordi il diverso uso che
Chaplin fa dello "spazio filmico": attorno a Charlot prigioniero della assurda macchina, lo spazio è ristretto, concentrato nella tragicità del primo piano; quando la follia di Charlot esplode, la liberazione è messa in evidenza dal predominare assoluto dei campi lunghi). La sequenza dello schettinaggio, oltre ad essere un eccezionale pezzo di bravura, sviluppa il tema dell'angoscia come presenza costante anche nelle piú semplici esplosioni liberatorie. Dalla suspense deriva un fondo continuo di significazione che ha sempre il carattere dell'incubo. Proprio nel momento in cui tutto sembra tranquillo, ecco sotto ai piedi del protagonista aprirsi un baratro - cosí come la casa sul fiume rivela, sotto la sua apparenza di povero paradiso terrestre, il proprio continuo essere in pericolo.
Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Il Castoro Cinema, 11/1977 |
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