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Non c’è pace tra gli ulivi


Regia:De Santis Giuseppe

Cast e credits:
Soggetto
: Giuseppe De Santis, Gianni Puccini; sceneggiatura: Libero de Libero, Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini; fotografia: Piero Portalupi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; montaggio: Gabriele Varriale; musica: Goffredo Petrassi; interpreti: Raf Vallone (Francesco Dominici), Lucia Bosè (Lucia Silvestri), Folco Lulli (Agostino Bonfiglio), Maria Grazia Francia (Maria Grazia Dominici), Dante Maggio (Salvatore Capuano), Michele Riccardini (maresciallo), Vincenzo Talarico (difensore di Dominici), Piero Tordi (don Gaetano Bertarelli), Attilio Torelli, Giacomo Sticca, Maddalena di Trocchio, Giuseppina Corona, Angelina Chiusano (madre di Bonfiglio), Tommaso di Gregorio, Giovanni Paparella, Vincenzo Jannone, Vincenzo Vaticone e i pastori della contrada “Quercie” di Fondi; produzione: Lux; origine: Italia, 1950; durata: 100’.

Trama:Un soldato, tornato dalla guerra, scopre di essere stato derubato delle sue greggi da un contadino che si è arricchito con l'usura e che vorrebbe portargli via anche la fidanzata. Quando cerca di riprendersi il maltolto viene arrestato, ma riuscirà ad evadere per farsi giusitizia

Critica (1):Non c’è pace tra gli ulivi è un’opera particolarmente raffinata, di grande compattezza; stilisticamente esprime, sin dal principio, alcune idee portanti concretate con estremo rigore lungo l’intero arco del film. Il cinema di De Santis comincia già a popolarsi di presenze ricorrenti. Il ruolo del “cattivo” di turno – il pastore Bonfiglio – è interpretato dal fiorentino Folco Lulli, che era stato uno dei due fattori che commissionaro­no la rapina ai danni della cooperativa di Caccia tragica. Il perugino Michele Riccardini, prete in Ossessione e maresciallo in Caccia tragica, riveste l’uniforme per Non c’è pace tra gli ulivi. Dal cast del suo secondo e fortunato lungometraggio, invece, De Santis estrae la bellezza eterea e un po’ sofferente di Maria Grazia Francia – al suo quinto film – e quel Raf Vallone che prima di essere il sergente Marco, anti-eroe positivo di Riso amaro, aveva avuto uno strano passato di giocatore di calcio (nelle fila del Torino) e aveva lavorato alla redazione torinese de “L’Unità”. Dicevo di un estremo rigore stilistico. Non c’è pace tra gli ulivi è un film che si distingue subito per la cultura visiva che esprime. De Santis, d’intesa con il direttore della fotografia Piero Portalupi – senza dubbio il meglio attrezzato scientificamente tra gli operatori italiani di quel periodo – decide di sfruttare in questo film le potenzialità narrative legate alla tecnica della profondità di campo. Il “panfocus” tiene a fuoco sia il personaggio in primo piano che quello sullo sfondo, riuscendo soprattutto a fornire una straordinaria definizione all’immagine, i cui contorni appaiono insolitamente netti: è una nitidezza che il cinema italiano (e non solo italiano) di quegli anni non conosce. Applicata in Non c’è pace tra gli ulivi, essa rende quasi astratta la realtà di queste ultime alture abbastanza aride – il film venne girato a pochi chilometri da Fondi, dove De Santis era nato 33 anni prima – sulle quali pochi ulivi solitari spiccano tra le molte rocce e i bassi cespugli, in un panorama così selvatico e inospitale. Il bianco e nero di Portalupi, tanto inciso e definito, fa pensare più al disegno che alla fotografia. E questa scelta figurativa – analizzata in una prospettiva che abbracci il corpus delle opere desantisiane – potrebbe esser letta come un velato richiamo alla tavola a fumetti, al suo universo figurativo soprattutto.
Del resto, De Santis utilizza nel migliore dei modi questa tecnica e dirige i suoi attori con l’evidente intenzione di sottolineare l’astrattezza di una particolarissima messa in scena: li lascia in pose statuarie, li fa guardare quasi in macchina, un po’ più in alto dell’obiettivo, fa abbassare la macchina da presa in modo che l’inquadratura ci mostri i personaggi dal basso verso l’alto. Così facendo, e soprattutto grazie all’uso del “panfocus”, dietro i personaggi noi possiamo vedere, ben leggibile sullo sfondo, quel paesaggio al quale il regista tiene tanto. Non possiamo fare a meno di ripensare a De Santis critico cinematografico che – diversi anni prima – sulle pagine di “Cinema” scriveva: “L’importanza di un paesaggio e la scelta di esso come elemento fondamentale dentro cui i personaggi dovrebbero vivere recando, quasi, i segni dei suoi riflessi, così come intesero i nostri grandi pittori quando vollero sottolineare maggiormente ora il sentimento di un ritratto, ora la drammaticità di una composizione, sono aspetti di un problema quasi sempre risolto nel cinema degli altri paesi, mai nel nostro”. In quello stesso articolo - divenuto in breve famosissimo, quasi il simbolo di un atteggiamento nuovo - De Santis citava alcuni film nei quali vedeva ben realizzato il concetto espresso: Tempeste sull’Asia, Tabù, Ombre bianche, Lampi sul Messico. Proprio quest’ultimo pare costituire, dal punto di vista figurativo, un interessante termine di confronto con Non c’è pace tra gli ulivi. Come già aveva fatto Ejzenstejn nel suo film messicano, anche De Santis mira a sottolineare l’appartenenza dei contadini e dei pastori alla propria terra, e viceversa. Un rapporto violento e sanguigno tra terra e uomini. Ejzenstejn lo concretava in maniera ineccepibile nella scena dell’uccisione dei peones ribelli, i quali venivano sepolti fino alle spalle nella terra e poi calpestati dagli zoccoli dei cavalli in corsa. Era un discorso visualmente molto pregnante: i corpi vi apparivano fisicamente affondati “dentro” la terra, come arbusti, e morendo si preparavano ad entrarvi del tutto, a ricongiungersi in una sensuale unità con la natura. De Santis lavora nella stessa direzione, ma il suo discorso trova altri stimoli e suggestioni, forme diverse del discorso, com’è naturale che fosse per un regista che aveva già sviluppato uno stile personale. Del resto il ciociaro De Santis conosce le alture della Ciociaria meglio di quanto Ejzenstejn conoscesse il Messico. Di conseguenza, si sente molto più coinvolto nella narrazione. E, inoltre, la temperatura emotiva del narrare desantisiano è assai più alta di quella del razionalissimo regista sovietico.
Stefano Masi, De Santis Il Castoro cinema 1981

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Giuseppe De Santis
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