Marcia su Roma (La)
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Regia: | Risi Dino |
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Cast e credits: |
Soggetto, sceneggiatura: Ghigo De Chiara, Alessandro Continenza, Age [Agenore Incrocci], Furio Scarpelli, Ettore Scola, Ruggero Maccan; fotografia: Alfio Contini; montaggio: Alberto Gallitti; scenografia: Ugo Pericoli; musica: Marcello Giombini; interpreti: Vittorio Gassman (Domenico Rocchetti), Ugo Tognazzi (Umberto Gavazza), Roger Hanin (il capitano Paolinelli), Mario Brega (Marcacci detto "Mitraglia"), Antonio Cannas (Zafreghin), Angela Luce (la contadina), Nino Di Napoli ("Mezzacartuccia"), Gerard Landy (il capitano Milziade Bellinzoni), Antonio Vargas (l'Eccellenza), Alberto Vecchietti (Molinella), Edda Ferronao (l'ostessa), Claudio Perone (uno squadrista), Nando Angelini (il capo manipolo), Antonio Acqua (il direttore del carcere), Alberto Kechler (il latifondista), Giampiero Albertini (Cristoforo), Howard Rubiens, Daniele Vargas, Carlo Keller; produzione: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma) Orsay Film (Parigi); distribuzione: Dino De Laurentiis Cinematografica Distnibuzione; origine: Italia/Francia, 1962; durata: 94'. Titolo di comproduzione: "La marche sur Rome". |
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Trama: | In Emilia, negli anni del primo dopo guerra, un reduce, Domenico Rocchetti, vive di espedienti spillando denaro a persone che finge di riconoscere come suoi superiori durante la guerra. Un giorno incontra il capitano Paolinelli – conosciuto verametne al fronte – che, offrendogli un pranzo, lo convince ad aderire al movimento fascista di recente costituzione. Rocchetti comincia così a darsi da fare e durante un tafferuglio in occasione di un comizi ritrova Umberto Gavazza, suo commilitone. Insieme partecipano a varie spedizioni punitive: contro un giornale socialista e anche contro il presidente del tribunale che li ha condannati per aggressione a seguito di uno sciopero di spazzini. Una sera, a Mantova, si sbronzano e al risveglio Domenico e Umberto si ritrovano soli, i compagni sono partiti per la "marcia su Roma". Dopo aver attraversato vane peripezie alle prese con cittadini che vogliono picchiarli, riescono a requisire un'automobile e a raggiungere i camerati. Ma col capitano Paolinelli trovano il furente proprietario dell'auto requisita, un marchese sostenitore del fascismo, il quale esige la punizione dei due incauti. Alle porte di Roma, i due amici riescono però a tagliare la corda e a scomparire. Il fascismo va al potere. Qualche tempo dopo per le strade di Roma si aggirano mendicando Domenico e Umberto. Riconosciuti e arrestati, da una commissione di gerarchi vengono a sapere di essere stati dichiarati martiri della rivoluzione: in tutta Italia si stanno dedicando loro monumenti e strade. Divenuti quindi molto scomodi per il partito, finiscono relegati in una sperduta isola in mezzo all'oceano. |
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Critica (1): | Reduce dalla guerra 1914-18 incontra in Emilia un commilitone, senza lavoro come lui, e con lui si aggrega agli squadristi in camicia nera, ma nell'ottobre del '22 la loro marcia su Roma è piuttosto anomala. Commedia al vetriolo che canzona con spirito mordace e aguzzi risvolti satirici il fascismo squadrista delle origini. Il duetto tra finto-spaccone e finto-tonto Gassman-Tognazzi fa faville.
Fonte critica Il Morandini - Dizionario del cinema, Zanichelli |
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Critica (2): | Mai autoindulgente, anzi molto forse troppo e sempre pronto all'autocritica, Risi dice del film che non è riuscito. «Non era cotto bene». Anche perché, ricorda, lo si fece in fretta e in furia, con un copione un po' abborracciato, e con Gassman impaziente e «facilone». La brutalità, anche la miseria della cucina cinematografica, l'ansia di sfruttare una moda e un vento favorevole, non si traduce qui nella magia di un risultato giusto e armonioso come invece in altri casi (I mostri). La satira dell'opportunismo italiano fu pesantemente tacciata di qualunquismo, parola chiave della critica di orientamento marxista nei confronti della commedia. Il ritratto di due lazzaroncelli travolti dal fiume della storia vista, e non del tutto a torto anche se lo stesso tormentone veniva ripetuto con tale sistematicità da svuotarlo di senso, come manifestazione di a-problematico, semplicistico, superficiale «bozzettismo».
Insomma non piacque troppo (diversamente da quanto era accaduto con La grande guerra, che pure fu un risultato contrastato: ma il massiccio consenso di pubblico e dell'opinione meno convenzionale ebbe la meglio su detrattori anche molto accreditati) che un tema così importante venisse ridotto, come si diceva, «a barzelletta». Il progetto nasceva sull'onda di una formula provata, da La grande guerra a Il federale. E la coppia comicoeroica, qui molto poco eroica, del primo muta assortimento, via Sordi dentro Tognazzi che era stato protagonista del secondo, e la stessa sarà riconfermata in I mostri. Il film è dello stesso anno di Il sorpasso ed esce quasi contemporaneamente, cosa che lo oscura decisamente. E sollecita confronti che lo penalizzano.
Rocchetti Domenico e Gavazza Umberto: due sbandati all'indomani della Grande guerra, il primo millantatore e cialtrone, pronto ad andare dove il vento lo spinge, a salire sul carro di qualsiasi vincitore, il secondo ingenuo e un po' tardo ma altrettanto vile. Più o meno la spartizione dei ruoli è come quella dei due della Grande guerra, il sud e il nord, il contadino e il cittadino, due nemiciamici per forza, accomunati da un'avventura che li colloca per caso al centro di un processo molto più grande di loro. Strumenti di un'osservazione al dettaglio o al microscopio, espediente tipico della commedia italiana, di un insieme di piccoli e piccolissimi comportamenti che accostati tra di loro formano la Storia.
Agenti involontari, inconsapevoli e «comuni» di un evento eccezionale, che acquista così il sapore della casualità, anche del ridicolo (di qui il famoso qualunquismo, e poi il macchiettismo e il bozzettismo, la famigerata superficialità). È la storia vista dal basso, da una prospettiva minore ma che è considerata più vera, demistificata e svuotata di solennità ma non sempre di drammaticità. Le cui colpe, questo sì un po' semplicisticamente e qualunquisticamente, risalgono sempre e solo a chi sta in alto. L'intenzione insomma (gli sceneggiatori sono Age, Scarpelli, Scola, Maccari, Continenza e De Chiara) è «giusta» e perfino edificante.
I due lavativi in questione sono ex commilitoni che si ritrovano nel disordine di quei giorni. Rocchetti è finito in mezzo al nascente movimento degli squadristi per puro caso, tentando di imbrogliare con le sue chiacchiere da finto reduce un suo ex superiore che lo ha arruolato di forza. L'altro si trova legato a lui dopo che il cognato, antifascista, lo ha cacciato via di casa come un parassita. Eccoli dunque insieme, inseguire senza troppo accesa convinzione gli scalmanati in camicia nera, nella speranza di trarne prima o poi un utile. Il programma di San Sepolcro sembrerebbe riservare ai diseredati prospettive di riscatto sociale e, loro sperano, di vantaggio personale.
Sarà proprio questa l'idea guida e il filo conduttore del film, e anche la sua trovata più riuscita. Man mano che l'avventura procede, e che procede anche in senso geografico da nord a sud (proprio la stessa direttrice di marcia di Tutti a casa, ma lì il viaggio degli sbandati, la loro discesa della penisola, aveva il significato opposto) i nostri cancellano punto per punto quel programma che ai loro occhi utilitaristici ma anche sgombri di enfasi e retorica appare traditore e tradito dai suoi stessi propugnatori.
Gavazza e Rocchetti dunque marciano anche loro su Roma. A Milano si prestano a fare da crumiri durante uno sciopero dei netturbini ma (accadeva anche nel film di Monicelli I compagni) sono costretti a pentirsene perché le prendono di santa ragione dagli scioperanti. Finiscono in galera ma vengono liberati dai camerati. Una delle azioni punitive a loro affidate – quanto somiglia la dinamica del loro piccolo opportunismo a quella dei due della Grande guerra – è quella di costringere un vecchio professore liberale a ingollare una bottiglia di olio di ricino. La fierezza del «castigato» è tale da sottoporsi all'infame umiliazione che i due squadristi dovranno lasciare il suo appartamento da sconfitti. La lezione, quella morale, l'hanno presa loro.
La conclusione è farsesca. Scomparsi alle porte di Roma e dati già per martiri del Fascismo trionfante, Gavazza e Rocchetti verranno costretti a una specie di confino perché servono più da squadristi caduti eroicamente. L'ispirazione civile, seppur sempre in chiave satirico-grottesca, riprende il sopravvento nel finale. Immagini di repertorio, i fascisti marciano sotto il Quirinale, dal balcone li osservano re Vittorio Emanuele III con Thaon de Revel e Diaz; una voce posticcia fuori campo, quella del re, chiede «Le sembrano gente seria questi fascisti?», e aggiunge «Ma sì, proviamoli qualche mese. All'occorrenza possiamo sempre metterli alla porta...».
Sappiamo tutti come invece le cose sono andate, ed è su questa consapevolezza che la commedia appoggia il suo sicuro effetto umoristico, senza che si perda il retrogusto amaro di una riflessione, facile quanto si vuole da suggerire, ma allora, all'inizio degli anni Sessanta, non del tutto scontata.
In conclusione, La marcia su Roma appartiene a pieno titolo alla stagione rampante del cinema risiano, e si nutre di quell'anima della commedia italiana che intorno al '60 vuole dare di sé un'immagine rispettabile e «democratica» senza voler perdere le sue qualità spettacolari e senza perdere il contatto con il pubblico. Un'operazione che un po' snatura lo spirito anarchico e la più genuina brillantezza di un cinema che si esprime al meglio nell'irriverenza e fuori dalle preoccupazioni di allineamento ideologico. Ma anche una scommessa degna di essere lanciata, e globalmente riuscita, nell'assumersi anche una responsabilità pedagogica, in alternativa a programmi scolastici che sorvolano ancora la storia patria del Novecento e all'azzeramento critico, alla monotonia informativa della televisione governativa. Naturalmente il prezzo del compromesso, in altri casi più produttivo, è quello di annacquare il messaggio oltre che di spuntare la freccia avvelenata della satira. |
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Critica (3): | Paolo D’Agostini, Dino Risi, Il Castoro Cinema, 1-2/1995 |
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Critica (4): | |
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