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Signora ammazzatutti (La) - Serial Mom


Regia:Waters John

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: John Waters; fotografia: Robert Ste­vens; musica: Basil Poledouris; montaggio: Janice Hampton, Erica Huggins; scenografia: Vincent Peranio; costumi: Van Smith; suono: Rick Angelella; interpreti: Kathleen Turner (Beverly Sutphin), Sam Waterston (Eugene Sutphin), Ricki Lake (Misty Sutphin), Mary Jo Catlett (Rosemary Ackerman), Justin Whalin, Patricia dunnock (Birdie), Mink Stole (Dottie Hinkle), Lonnie Horsey (Carl), Suzanne Somers (se stessa); produzione: John Fiedler e Mark Tarlov, per Polar Entertainment prod.; distribuzione: Cecchi Gori Group; origine: USA, 1994; durata: 93'.

Trama:A Baltimora, Beverly Stuphin, irreprensibile madre di famiglia, casalinga perfetta, rivela una personalità chiaramente disturbata. Si fa mandare cassette con la registrazione della voce del famoso serial killer Ted Bundy e tormenta con telefonate oscene Dottie Hinkle, rea di averle inflitto uno sgarbo al supermarket. Ossessionata dalla perfezione inizia ad eliminare, sistematicamente, coloro che si frappongono alla realizzazione della sua felicità familiare.

Critica (1):John Waters, così dolce così perverso. Tutti lo vogliono così. A partire dagli anni Ottanta, dopo Polyester, parata laido-mélo-demenziale in odorama, a ogni uscita di un suo film sembra d’ob­bligo il rammarico per l’ammorbidimento, inteso come commercializzazione, cedimento sentimentale, del suo mondo trash. Sempre pungente, si dice, però... Hairspray, col trasgressivo coprofago Divine che fa “solo” il verso alle soap opera e si de-traveste per interpretare anche un ruolo maschile, o Cry Baby, pieno di ammirazione square per i piccoli delinquenti del rock’n’roll. Serial Mom è la vendetta. Della mostruosità che, propagatasi senza più ostacoli nel sistema circolatorio dell’essere umano come della società che lo genera e lo accoglie, può finalmente albergare in corpi di giuste proporzioni, sotto abiti convenzio­nali. Non deve più nascondersi, slealmente, dietro la deformità, o semplice dismisura, delle apparenze. Grande risultato, che premia una carriera venticinquennale coraggiosa, tutta all’inse­gna di “schifoso è bello”. Quella di un regista che non si è mai impegnato a costruire storie intelligenti e nemmeno dissennate, che non sta ai patti coi generi o con le ideologie; con grande modestia e coerenza, Waters si è limitato ad accumulare e raggruppare in sistemi semplici monodirezionali esempi variopinti e atipici di rivolta, contro tutto il cinema umano e civile, vale a dire contro l’umanità e la civiltà. Serial Mom non vive di rendita. Parla esattamente di ciò che promette, a partire dal titolo, intraducibile alla lettera, che suona come garanzia (si gioca in casa Waters) e segnale di allar­me: le mamme sembrano tutte uguali, tutte belle fuori e dentro, ma non è esattamente così. In aggiunta: ben venga una serie completa di mamme come questa. per concludere: il serial killer, incubo e delizia degli anni Novanta, è vicino a te, è la tua mamma. La versione italiana del titolo (mi consolo avendo letto quella francese, Serial Mother, ancora più inspiegabile), non toca la famiglia, e con una strizzatina d’occhio raccomanda (è Natale, no?) di non prendere questa storia troppo sul serio. In più, mente. Perché, sia chiaro, la signora non ammazza tutti, ma solo quelli che la infastidiscono, cioè gli stupidi. E non è colpa sua se sono tanti. Il film si apre con la pretesa finto seriosa di ispirarsi a fatti di cronaca, a veri atti processuali. Siamo in una famiglia della middle class di Baltimora. Lei, mom, una Kathleen Turner un po’ suonata, come se fosse reduce da una malattia, da una degenza in ospedale, da un lungo sonno, è una casalinga (personaggio-paradigma del cinema di Waters) perfetta, anche se non resiste alla tentazione di spiaccicare una mosca proprio durante la colazione. Poi, a un tratto, una strana ferocia le balena nel sorriso. È il momento di agire. Il tempo del film è tutto ritmato sugli alti e bassi imprevedibili, per così dire fisiologici, di questo impulso a passare dalla stasi all’azione, a rompere la calma piatta delle regole del gesto spontaneo di uccidere. Tuttavia Beverly Sutphin non è assetata di sangue più di quanto non sia “necessario”. In lei non c’è traccia di tormento o di senso di colpa per la doppia natura che abita il suo corpo; anzi, è decisamente più a suo agio come Jekyll che come Hyde: la trasgressione dà fiato ai suoi polmoni (nel doppiaggio italiano, cambia voce quando al telefono passa agli insulti, e la stessa mutazione colpisce la sua vittima – possibile replicante? – quando testimonia al processo), il delitto la rianima, la morte la fa bella. Come sempre, Baltimora non è che un fondale, un universo privo di valori che si compatta intorno alla sua presentabilità. E questa volta John Waters sta al gioco. Beverly non aspira certo al titolo di zozzona n. 1: la sua casa è linda e ordinata, lei non ha mai un capello fuori posto (ma gli occhi, il sorriso sì), uccide con la borsetta a tracolla. Il marito e i ragazzi (Ricki Lake nel ruolo della figlia Misty, è dimagrita, quasi a rinnegar­si come ex figlia/possibile erede di Divine) la adorano, e adora­no chiamarla “mamma killer”: la mdp coglie tra loro una, una sola, occhiata perplessa, dopo l’assoluzione. E non sanno ancora che mom ha appena eliminato, prima di uscire dal tribunale, una giurata che si ostinava a portare le scarpe bianche “dopo settem­bre”. Se l’opera di John Waters così “ripulita” perde in tenerez­za (quella che nel profondo suscitano sempre i “mostri”) acquista punti in moderna ambiguità. Adeguandosi ai tempi, tecnologici e non, il regista ha scelto di demistificare l’oltraggio ai sensi, allo sguardo in particolare, riducendolo al quotidiano e di portare lo shock al livello della percezione dei significati. Chi è, alla fine, Beverly Sutphin? Pazza schizoide? Giustiziera anarchica? Borghese annoiata? Mi accorgo che nessuna di queste, e altre simili, “interpretazioni” può avere a che fare con il cinema di John Waters. Beverly Sut­phin è un’assassina “fai da te”: l’omicidio le si affaccia alla mente all’improvviso, come pensiero luminoso, soluzione al pro­blema pratico del momento. Il movente, punctum dolens per tanti scrittori di polizieschi, non è un problema per lei, che se lo trova tra i piedi come una qualsiasi banale seccatura. Anche sul piano dell’indagine e del processo, occasioni classiche di coinvolgimento emotivo dello spettatore, il film è privo di ribaltamenti e di suspence: irride al colpo di scena, al valore dei testimoni, all’imparzialità dei giurati, alla mitologia di Perry Mason e a quella del killer maledetto.[...]
Adelina Preziosi, Segno Cinema, gen-feb 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
John Waters
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