Occhi di serpente - Snake eyes
| | | | | | |
Regia: | Ferrara Abel |
|
Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Abel Ferrara, NichoValsaSt. John; fotografia: Ken Kelsch; montaggio: Anthony Redman; musica: Joe Delia; scenografia: Alex Tavoularis; costumi: Marlene Stewart; interpreti: Harvey Keitel (Eddie Israel), Madonna (Sarah Jennings), James Russo (Francis Bums), Nancy Ferrara (Madlyn Israel); produzione: Mary Kane per Maverick/Eye Films Inc.; distribuzione: Penta; origine: USA, 1993; durata: 106'. |
|
Trama: | Il regista Eddie Israel vuole realizzare un film sul drammatico fallimento del rapporto fra due giovani sposi divisi a causa delle aspirazioni mistiche della moglie, che intende rinnegare la vita dissoluta condotta a lungo insieme al marito. Mentre come protagonista maschile Eddie sceglie il suo amico Francis Burns, dedito agli eccessi alcoolici e all’abuso di cocaina, per interpretare la moglie viene scritturata dalla produzione una giovane star televisiva di grande successo, Sarah Jennings. Sul set le relazioni fra i tre si fanno subito difficili e vengono complicate ulteriormente dagli incontri erotici avviati da Sarah prima con Francis e quindi, in modo più impegnativo, con Eddie. Le parti interpretate dai due attori per lo schermo, sotto la guida del regista, giungono man mano a confondersi con i ruoli assunti nella realtà, e vengono condizionati dalle rispettive ossessioni maniacali e dalla rivalità reciproca. Il controllo della situazione tende così a sfuggire di mano a Eddie, che è costretto a interrompere momentaneamente la lavorazione e che quindi viene raggiunto inaspettatamente sul set dalla moglie e dal figlio. Si evidenzia la crisi del rapporto coniugale del regista, finché questi non rivela alla moglie di averla sempre tradita, dall’inizio della loro relazione, con innumerevoli donne. La frattura fra i due è totale e Eddie, diviso fra sensi di colpa, passioni estreme e emozioni più incontrollabili e tormentato dai profondi turbamenti che aveva ideato per i personaggi del suo film, precipita in una feroce crisi esistenziale, fino a perdere il senso delle proprie azioni. La lavorazione del film si avvia intanto a conclusione, e la vicenda narrata viene risolta tragicamente. |
|
Critica (1): | Con Occhi di serpente Abel Ferrara, accompagnato qui di nuovo soltanto dal suo sceneggiatore di fiducia Nicholas St. John, sceglie di distaccarsi dai codici convenzionali dei generi finora frequentati (dall’exploitation movie al thriller, dal poliziesco alla fantascienza) e di privilegiare un’attenzione sofferta implacabile per le passioni intime e gli imprevedibili comportamenti umani, scandagliati qui in tutti i loro reconditi aspetti (fino a limiti sconcertanti) attraverso la messa in scena di un film nel film, confermando da un lato il suo originale registro di realismo ebbro e deformato che già avevamo potuto riscontrare ne Il cattivo tenente, e complicando dall’altro la struttura dell’opera mediante lo svolgimento di quattro percorsi narrativi distinti e variamente intrecciati. Abbiamo innanzitutto la vita del protagonista e i suoi rapporti con gli altri personaggi (che d’ora in poi definiremo percorso A). Compare quindi un secondo livello (B) da alle immagini video del monitor usato durante le prove del film che il protagonista sta tentando di realizzare: sono soprattutto primissimi piani sgranati di Harvey Keitel (Eddie, il regista) che riflette sui suoi intenti e sullo sviluppo del suo lavoro, producendosi talvolta in considerazioni amare e autoconfessioni. Anche Madonna (la diva hollywoodiana Sarah Jennings) appare saltuariamente in B, sempre in inquadrature selezionate in primissimo piano e in funzione dialogico-riflessiva. La vita del set (C) è resa con la macchina a mano in movimento utilizzata in lunghi piani-sequenza spesso instabili, sporchi, frenetici, sottoesposti: la lavorazione del film nel film procede coinvolgendo tutta la troupe, i tecnici, le attrezzature utilizzate di volta in volta, gli impianti e gli spazi per le riprese attraversati dalla figura ingombrante di Eddie (non a caso, come vedremo, sul ciak inquadrato più volte compare il nome di Abel Ferrara). C’è poi il film girato da Eddie, La madre degli specchi (D): immagini dense, movimenti di macchina calibrati, illuminazione espressiva, montaggio lineare, soluzioni a effetto impiegate per rendere il dramma devastante del conflitto di coppia. I quattro diversi livelli narrativi vengono esplicitati in successione nei primi minuti di Occhi di serpente affinché l’esposizione dei dati strutturali di partenza renda più evidente il gioco fatto di ambiguità complesse e terribili nel quale l’autore si appresta a condurre lo spettatore. Abel Ferrara, autore anti-hollywoodiano per eccellenza, sceglie così di passare dai generi al metacinema, categoria abbastanza abusata, per confrontarsi con la quale è necessaria quindi una decisa carica innovativa, esercitata qui attraverso una inedita e insieme lacerante configurazione del rapporto realtà-rappresentazione (resa sovrapponendo e coniugando drammaticamente i quattro percorsi narrativi) e una libertà espressiva degna del modello-Cassavetes, continuamente evocato e col quale Ferrara sembra voler gareggiare, sedici anni dopo La sera detta prima. L’altro modello fondamentale, questa volta esplicitamente citato in un’intervista televisiva sul set di Fitzcarraldo, è Herzog, di cui Ferrara sembra condividere qui pienamente in modo forse ancora più inquieto l’idea (e la pratica) del cinema come esperienza limite, come messa in gioco estrema, totale non solo dei materiali possibili della messinscena ma della stessa esistenza dell’autore. Abel Ferrara opera una riflessione sul cinema, ma rivolge soprattutto la sua attenzione (attraverso il meccanismo del film nel film e il confondersi dei quattro percorsi narrativi) alla tragica complessità dei rapporti umani. Il diretto coinvolgimento reciproco del regista Eddie Israel e dei due attori Sarah Jehnings e Francis Burns nelle atmosfere della vicenda rappresentata (che ha molto a che fare con le esperienze reali di frattura traumatica nel rapporto amoroso, tanto da evocare l’aforisma nietzschiano da cui siamo partiti) scuote l’ordinarietà dell’esistenza di tutti i personaggi, provocando effetti dirompenti e producendo un profondo smarrimento del senso. L’incipit del film offre un quadro idilliaco di vita familiare. Eddie in posizione mediana nell’inquadratura frontale perfettamente simmetrica e illuminata in modo morbido, uniforme, scherza piacevolmente con la moglie (posta alla sua destra) e il figlio (a sinistra) di fronte alla tavola imbandita, infondendo in tutti fiducia e sicurezza. L’atmosfera tranquilla viene sottolineata dall’accompagnamento musicale rilassante e il clima di affetto e protezione è accentuato dalla neve alle finestre e dalla scena dell’amplesso silenzioso tra i due coniugi. Il distacco dalla famiglia viene preceduto dall’invocazione al figlio: "Non mi dimenticare, bambino mio, sono il tuo papà". L’ellissi narrativa che segue sottintende un viaggio da New York a Hollywood, cioè dalla città "reale" e concreta, dove si svolge ogni giorno la vita ordinaria, quotidiana della famiglia, con tutti i suoi riti consolatori, al mondo "irreale" della finzione cinematografica, alla fabbrica illusoria dei sogni, al luogo ove si svolgerà una gara spietata, dagli esiti necessariamente incerti, che avrà per posta ben più della riuscita realizzazione di un film. Il tono delle immagini varia qui bruscamente e, col passaggio repentino dal percorso narrativo da A a B e quindi a C, s’evidenzia il disequilibrio strutturale che caratterizzerà d’ora in poi lo svolgimento di tutta la vicenda: una disarmonia formale nervosa, incalzante, che risulta del tutto coerente col discorso sull’insondabilità del carattere umano, sulla tragica complessità dei rapporti interpersonali e sul cinema inteso insieme come gioco al massacro e come specchio deformato dell’esistenza portato avanti qui da Ferrara, che infatti – come a ribadire esplicitamente il suo diretto coinvolgimento nella materia – sostituisce il suo nome a quello di Eddie Israel sul ciak e quindi afferma l’univocità del punto di vista prescelto.
(…) Dice Abel Ferrara: "Io cerco solo di rappresentare la realtà, cercando di non fornire un giudizio soggettivo. Ogni individuo – e dunque ogni personaggio – ha una concezione personale di Bene e Male". E la concezione del bene e del male dei personaggi rappresentati in D, cioè in La madre degli specchi, alla ricerca disperata di motivazioni o conforto per il proprio distinto percorso esistenziale, è del tutto singolare. Ferrara, mentre pone a un primo livello (quello dato dai percorsi A e B e dalle loro interconnessioni con C e D) il problema del rapporto fra realtà e rappresentazione, non elude comunque le tematiche etiche e i riferimenti religiosi che dominano da sempre il suo cinema (e il lavoro del suo sceneggiatore Nicholas St. John) scegliendo il film nel film come luogo deputato per lo scatenamento di un conflitto insanabile fra ossessione mistica e sfrenata passione per gli eccessi edonistici che va ben oltre la contrapposizione manichea fra bene e male. L’assunto di partenza di Eddie ("Il tema del film è lo scontro fra paradiso e inferno", rivela il regista de La madre degli specchi in B) è smentito infatti dalla complessità dei punti di congiunzione e frattura ottenuti mettendo in moto le dinamiche interpersonali dei due attori e dei personaggi interpretati. Il desiderio di redenzione espresso dal personaggio interpretato da Sarah si rivela così velleitario, e il suo martirio coincide con una sconfitta. Risuona alto invece il grido disperato del suo partner ("Assorbenti e aspirine sono l’unico conforto che avrai dalla vita!"), che avverte la stessa angoscia - densa di toni di sfida e di rabbioso risentimento - di fronte alla mancanza di un dio a cui appellarsi che già tormentava il protagonista de Il cattivo tenente ("È una battaglia fra lui e Dio" – dice Eddie a Francis sul set – "Rivolgiti a Dio, digli di cosa hai bisogno, dillo a Dio!"). Ed è proprio Eddie che man mano, avvertendo l’incomparabile difficoltà di discernere le ragioni dei propri comportamenti e della propria stessa esistenza (mentre intanto procede l’integrazione fra i quattro percorsi narrativi indicati), sprofonda nel suo inferno privato, dal quale non troverà vie d’uscita fino a giungere, attraverso successive, dolorose fratture, al completo smarrimento del senso e di sé. Un percorso verso la totale perdizione già annunciato da Eddie stesso quando legge al figlio la descrizione dell’inferno propria della tradizione classica (le anime traghettate da Caronte nell’Ade) e portato al culmine nell’allucinata scena in controluce che precede il finale e nell’inquadratura del protagonista sdraiato a terra fra il vomito e il sangue. A questo punto fra realtà e rappresentazione non può esistere più alcuna barriera: il sacrificio sterile, senza scopo, ma comunque inevitabile (e quindi agghiacciante) dell’artefice di questo viaggio all’inferno da parte di una coppia (che sarebbe dovuto rimanere nei limiti della finzione) apre le porte alla terribile ambiguità dell’omicidio finale, capace di lasciarci interdetti.
Pierpaolo Loffreda, Cineforum n. 330, dicembre 1993 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Abel Ferrara |
| |
|