Bella di giorno - Belle de jour
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Regia: | Buñuel Luis |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carriere; fotografia: Sacha Vierny; montaggio: Louisette Hautecoeur, Louisette Taverna; interpreti: Francis Blanche (Adolphe), Adelaide Blasquez, Luis Buñuel, Michel Charrel, Marcel Charvey, Pierre Clementi (Marcel), Dominique Dandrieux (Catherine), D. De Roseville, Catherine Deneuve (Severine), Marc Eyraud, Françoise Fabian (Charlotte), Bernard Fresson, Iska Khan, Maria Latour (Mathilde), François Maistre (professore), Pierre Marcay, Georges Marchal (il Duca), Macha Meril (Renée), Muni (Pallas), Bernard Musson (maggiordomo), Geneviève Page (Anaïs), Brigitte Parmentier (Severine bambina), Antonio Passalia, Michel Piccoli (Husson), Francisco Rabal (Hyppolite), Jean Sorel (Pierre); produzione: Robert e Raymond Hakim - Paris Film Prod. (Parigi) - Fivefilm (Roma); distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Francia, 1966; durata: 101'.
Vietato: 14 |
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Trama: | Pierre e Sevérine formano una giovane coppia apparentemente felice. Pierre è un chirurgo e passa molte ore all'ospedale, mentre Sevérine, abbandonata a se stessa e insoddisfatta della sua vita coniugale, si lascia andare a strane fantasticherie sadomasochistiche. Spinta da una irrefrenabile necessità di avvilirsi, la giovane entra in contatto con la tenutaria di una casa di appuntamenti, Madame Anaïs, e, dopo qualche esitazione iniziale, comincia a frequentare assiduamente la casa. In breve tempo la sua doppia vita si organizza: da una parte il focolare calmo, l'amore del marito, dall'altra le soddisfazioni violente che trova presso i clienti di Madame Anaïs. Un giorno, però, uno di essi, un giovane delinquente di nome Marcel, si innamora di lei e pretende che ella vada a vivere con lui. Sevérine rifiuta e per sfuggire alle minacce del giovane decide di lasciare per sempre la casa di appuntamenti. Marcel la rintraccia e comprendendo che la donna non lascerà mai il marito e gli agi della sua casa per seguirlo, tende un agguato a Pierre e gli spara contro alcuni colpi di rivoltella, soccombendo però subito dopo in uno scontro con la polizia. Pierre, rimasto paralizzato e semicieco, apprenderà da un amico la verità su sua moglie. |
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Critica (1): | Belle de jour non è il primo film francese di Buñuel ma è il primo film parigino. Non solo per l'eleganza degli interpreti e la classicità dello stile ma perché presuppone un pubblico metropolitano esperto, che sappia orizzontarsi nel percorso labirintico e senza istruzioni tra fantasie e realtà. Questo doppio registro non c'era nel romanzo di Kessel ma è ciò che consente a Buñuel di salvare e rendere interessante un soggetto non particolarmente stimolante se guardato solo nei suoi aspetti psicologici o sociali. Il dispositivo formale che egli adotta per il film è appunto l'alternanza non marcata, o meglio sempre più indecifrabile, fra sequenze oniriche o fantastiche e altre che paiono invece appartenere all'ordine del reale.
Il primo "sogno" si rivela facilmente tale a posteriori, per il brusco passaggio da comportamenti strani e poi decisamente assurdi a una situazione familiare più quotidiana e realistica, ma anche grazie a un artificio di regia che certamente agisce sulla percezione dello spettatore: lo stacco dal sogno dalla realtà è segnalato dalla frase di Pierre "A cosa stai pensando?" che si sente fuori campo già alla fine della fantasia sadomasochistica di Séverine e poi si risente (l'estetica della ripetizione usata questa volta a fini funzionali) all'inizio della scena reale. Ma questo primo sogno introduce anche un codice ambiguo (il parco, la carrozza, le sonagliere, l'atmosfera d'altri tempi) che se da un lato aiuterà a riconoscere quelli successivi, dall'altro introdurrà sempre anche elementi di ambivalenza. Il secondo sogno ad esempio è ancora annunciato da sonagli ma questi invece di provenire dal landò si rivelano presto come i campanacci della mandria di bestiame della Camargue che Pierre e Husson, inopinatamente vestiti da bovari, stanno curando. Due tori della mandria si chiamano surrealisticamente, ma ancora comprensibilmente, Rimorso ed Espiazione. Ma qui il momento più bizzarro e surreale si ha quando i due signori, lasciata la loro zuppa campagnola, si fermano per recitare l'Angelus in un tableau vivant che ricalca il popolare quadro di Millet, rievocando la particolare predilezione di Dalí e di tutti i surrealisti per quest'opera già richiamata in Viridiana.
Procedendo l'ambiguità diventa la regola. Il landò dei sogni riappare in un episodio, quello dell'aristocratico necrofilo, che tutti gli altri elementi sembrano tuttavia segnalare come "reale", anche se avviene fuori dal tempo e anche dallo spazio, tra il primo incontro nella terrazza molto "belle époque" del Bois de Boulogne (dove a un tavolino è seduto lo stesso Buñuel, come a voler sorvegliare o dare il la alla delicata sequenza) e il seguito in un antico castello di campagna. E qui è lo scortese e inatteso licenziamento finale di Séverine che sembra volerla riportare bruscamente alla realtà. Il successivo sogno del duello è connotato come tale solo dall'anacronismo del rito e dei costumi. E, come Buñuel voleva, il grado di realtà dell'ultima sequenza - peraltro introdotta da una lunga, innaturale sovrimpressione con gli stessi alberi dei parchi dei sogni - resta indecidibile. Quando Pierre, l'unico storpio e cieco gentile di tutto il cinema di Buñuel, si alza improvvisamente dalla sua carrozzella tutto sembra reale, tutto tranne la cosa in sé. Tanto più che la sua battuta è la stessa dell'inizio: "A cosa stai pensando?" e suggerisce la possibilità di una terza ripetizione della medesima frase e dunque l'ipotesi che tutto quel che nel frattempo si è visto appartenga a una realtà fantasticata. Oppure il sogno ricomincia, o continua, poiché Séverine, che aveva affermato di non sognare più, guardando fuori vede il parco sotto le sue finestre in una soggettiva impossibile, come se tutta la casa fosse stata trasportata all'interno del sogno. E intanto miagola un gatto, animale che nel film è associato a situazioni fantastiche (Husson e Pierre nel sogno della mandria parlano anche di nomi di gatti e il maggiordomo chiede assurdamente al conte: "Devo liberare i gatti?"), in opposizione alla animalità cruda e realistica che nel cinema di Buñuel portano sempre i cani.
Altre immagini mentali, assai più brevi, appartengono invece a un codice più consueto: i brevi flash mnemonici di Séverine che ricorda, a motivare la sua frigidità, l'operaio che da bambina le accarezzava le gambe. E quel senso del peccato che l'aveva portata, il giorno della Prima Comunione, a rifiutare l'ostia al sacerdote (l'episodio, collocato appena prima che Séverine suoni il campanello della casa, fu tagliato nella trasmissione Rai del film e nelle successive versioni video in italiano). Dello stesso tipo dovevano essere le scene che Buñuel accettò di eliminare per compiacere i suoi produttori e la censura francese. Appartenevano alla sequenza del conte necrofilo, classico topos buñueliano non solo per la figura del gentiluomo dai gusti strani ma per la prestazione della donna, che ancora una volta, come Lavinia e Viridiana e Célestine, accetta di travestirsi e diventare manichino e feticcio di una sessualità deviata. Nella versione originaria essa, prima di entrare nella bara per soddisfare i desideri del suo aristocratico cliente, partecipava con lui a ma messa nella cappella privata del castello: il prete, come nel Diario, era Carrière, (ormai stabile complice di giochi privati oltre che di sceneggiature), e si vedeva un altro di quegli scandalosi Cristi buñueliani presi in effetti dalla storia della pittura, quello "realistico e terribile" di Mathis Grunewald già caro a Huysmans e a Lorca. Altri tagli nello stesso episodio riducono notevolmente la scena in cui il maggiordomo spoglia Séverine e la fa entrare nella bara.
Nonostante il tentativo di truccarlo o sparigliarlo, il gioco fra realtà e immagini mentali resterebbe tuttavia un po' rigido e meccanico se il suo scopo fosse solo quello di affermare, come diceva la motivazione della giuria veneziana per il Leone d'oro, "che la realtà sembra sogno e il sogno realtà". Al contrario i sogni di Belle de jour sono interessanti non per il loro rapporto più o meno mascherato con il reale ma per quanto hanno di reale in sé, e soprattutto per il loro stile tutt'altro che banalmente "onirico", che non ricorre a dissolvenze, flou o altre codificate deformazioni delle immagini supposte come mentali. A Buñuel non interessa capovolgere la differenza ma affermare l'identità e la compenetrazione tra sogno e realtà. Così i veri misteri, e le vere surrealtà, li troviamo appunto nelle situazioni "sicuramente" reali.
E in ogni caso essi scivolano dall'uno all'altro registro. I sonagli onirici vengono ripresi dai campanacci del bestiame, dalla scampanellata che annuncia l'arrivo del "professore" alla casa di Madame Andis, dai sonaglietti agitati dal cliente orientale, che parla in maniera incomprensibile, come se venisse da un sogno. Tra sogno e realtà vi sono gradazioni, ripetizioni e variazioni. Gli episodi che avvengono nella casa d'appuntamenti sembrano anzi sempre ai limiti della realtà. Avvengono in una zona franca, in un luogo clandestino e che dunque esiste solo per qualcuno, in un orario inconsueto e ristretto in cui Séverine cambia identità, diventa personaggio di un'altra sua esistenza. Le scale che la conducono alla casa di appuntamenti e le porte che deve varcare sono transiti e confini non soltanto architettonici.
Ma anche quando resta nella sua realtà domestica Séverine a volte si incanta a pensare e fantasticare e tutto il suo personaggio, con la sua lontana e irreale bellezza bionda, è fatto della materia dei sogni, come quella bionda e nordica regina di Spagna delle fantasie infantili del regista. Il mistero è più mistero se sta nella realtà e se funziona per la realtà. La sedia a rotelle abbandonata che Pierre vede uscendo dal suo ospedale può essere una trovata relativamente banale se intesa solo come prefigurazione della infermità che lo colpirà, ma diventa geniale come oggetto comico-surrealista: dove è andato, e con quali gambe, colui che c'era sopra?
La vita reale è piena di episodi che appartengono a un altro mondo, o lo rivelano, come gli atti mancati di Séverine, il vaso dei fiori di Husson che le cade di mano, la boccetta di profumo che sì rompe. Quando subito dopo questi piccoli eventi, essa va a trovare Pierre non riesce a parlargli. Sono i lapsus della realtà che la introducono in quel mondo a metà fra sogno e vita reale che è la casa di Madame: finta casa di mode, dove Séverine entra truccata con occhiali neri e nome d'arte per recitare una parte come a teatro. Svestendosi e rivestendosi di continuo, di quegli abiti Yves Saint-Laurent così ammirati dalle colleghe. Ma lei, a differenza delle sue ormai annoiate compagne, recita per sé, non per gli altri. Solo una volta, con il duca, si presta alla messinscena e al ruolo di donna-manichino. In ogni caso recitare non significa fingere: Séverine o rifiuta il cliente o ne gode davvero.
D'altra parte in questa casa-teatro tutti i clienti sono "personaggi" molto caratterizzati, dal buffo ginecologo con la valigia, che ha dei baffi alla Groucho Marx e chiede le prestazioni più bizzarre, al famoso "cinese" con la scatoletta misteriosa, al cupo e arrogante Marcel di Pierre Clementi, con il suo trench di pelle nera, l'inquietante deformità fisica, il bastone e i denti di acciaio: una figura da horror gotico in un elegante film-salotto parigino.
Naturalmente Buñuel non trascura mai qualche notazione sociale o culturale. E se il rapporto fra educazione cattolica e repressione sessuale è così scontato da non meritare più di un paio di rapide annotazioni, è bello lo sguardo di compassione e affetto rivolto al personaggio di Pallas, interpretato dalla buona Muni, la serva di Madame, la proletaria rassegnata che ha accettato come normalità per sé e per la figlia di vivere in mezzo alla prostituzione, al vizio, alla violenza del denaro. Ma la sua è anche la schiettezza di rapporto che hanno nei confronti della realtà le persone semplici, come quel tassista che si intromette nei discorsi di Séverine e Renée con la sua esperienza popolare di casini. Poiché questo teatro nascosto, questo rifugio dell'inconscio che serve a liberarsi da se stessi, è pur sempre nel centro di Parigi, nel bel mezzo della realtà, e ne condivide gli aspetti drammatici e comici, delicati e paurosi. In più è una vera casa e dunque chi la abita costituisce una sorta di strana ma vera famiglia, in cui si chiacchiera e si gioca a carte in attesa dei clienti come in qualunque retrobottega.
Ma ovviamente il soggetto principale resta il comportamento borghese, che si manifesta nella classe degli abiti di haute couture ma ancor più nel savoir faire dei personaggi, nel loro camminare vellutato, nel loro muoversi come in un acquario, nel silenzio senza musica delle situazioni. Sul duello fra Husson e Pierre la sola musica è quella delle onde del mare. E, come già aveva fatto nel Bruto e in La joven (ma forse ora lo spunto è quello reale della sua stessa sordità), Buñuel mostra anche qui un dialogo inudibile fra Madame Anaïs e Husson, che sembrano due mimi muti o forse suggeriscono attorno a sé un mondo di sordi. Discrezione ed eleganza borghese, rifiuto dello schiamazzo e dell'urlo, massima compostezza in ogni situazione. Ma anche il linguaggio cinematografico partecipa di questa precisione, con i suoi tempi e stacchi curatissimi: quando Séverine fa entrare Pierre nel suo letto e sembra che essi si bacino, forse solo due o tre fotogrammi suggeriscono quasi impercettibilmente che lei si ritrae.
Tutto ciò all'epoca ha fatto definire il film freddo e accademico, non impedendo nel contempo di considerarlo anche melodrammatico o persino feuilletonesco. Ma questo manierismo altro non è che l'eleganza e il perbenismo borghese da corrodere dall'interno. Gli abiti di sartoria saranno macchiati di fango. I rapporti sociali e mondani saranno sostituiti da quelli mercenari, con individui sempre disgustosi.
In ogni caso anche il melodramma familiare è tutt'altro che schematico o banale. Séverine, che Buñuel dichiarò essere l'unico personaggio del romanzo che gli interessava, non è solo un "caso" ben definito e patologicamente esatto, è un vero personaggio ricco di ambiguità e sfaccettature. Anche nei confronti di quel suo marito di cui è un po' sorella e figlia, con quella borsa a orsacchiotto e la paura del buio che ne rivelano il carattere ancora infantile. Pierre, che è un medico, l'ennesimo nella famiglia buñueliana, ha d'altra parte una preoccupante incapacità di diagnosi e la sua cortesia è a sua volta una forma di impotenza. Anaïs è un suo equivalente femminile, padrona di quella che diventa la seconda casa di Séverine: materna, affettuosa, a volte severa, a volte complice e confidente come un'amante. Séverine congedandosi la vorrebbe baciare sulla bocca. E un campione di ambiguità, frequentatore di entrambe le case, è anche il viscido Husson, privo di ogni moralità ma non del senso dell'amicizia: in fondo è da una sua iniziativa che si sbloccherà - se questo è davvero quel che avviene - la situazione.
Opposto alle due diverse famiglie borghesi c'è un mondo pulsionale e selvaggio da cui provengono, oltre ai sogni, alcuni personaggi-incubo: il lugubre Marcel, coi suoi denti metallici e il soprabito di pelle nera ma innamorato come solo i non borghesi sono capaci. Il suo capo Hippolyte, ruolo che Buñuel affida al vecchio complice Paco Rabal facendogli cantare un flamenco in un bar, senza motivo. Il misterioso orientale, che giunge da chissà dove con i suoi oggetti esotico-erotici. Un mondo fatto di rapine, di sparatorie, di incidenti d'auto, altra faccia dell'universo ovattato dei salotti e dei ristoranti, che spaventa e attrae nello stesso tempo: Séverine, quando da casa sente gli spari, si precipita alla finestra e vede il marito steso sul marciapiede come la donna vedeva il ciclista di Un chien andalou.
L'azione è sempre scandita dai tipici atti di passaggio o di attesa del mondo buñueliano: giocare a carte, ricamare, stare accanto al camino. Mentre si riduce il repertorio oggettuale di quel mondo: certo c'è sempre qualche attenzione particolare per le parti basse, che siano gli stivaletti e il calzino bucato di Marcel o le scarpe che si compra Séverine dopo che ha deciso di lasciare la maison. C'è la semplice, un po' ingenua malizia di quel manico fallico della racchetta da tennis che Séverine impugna al circolo, mentre ancora riflette sull'ipotesi di presentarsi in una casa d'appuntamenti.
C'è infine la tanto discussa scatoletta del "cinese", erede di tante boites à musique e non, di contenitori misteriosi, che tanto ha fatto lavorare la fantasia degli spettatori e divertito il regista: persone serissime, egli ricordava, si arrovellavano per sapere cosa c'era dentro. Non pensando che essa è un equivalente cinematografico di un punto di domanda e non può essere un "punto di risposta". Come tutto il cinema di Buñuel, d'altra parte: forse anzi nella scatola magica, in cui guardare divertiti e turbati, ci sono proprio tutti i suoi film.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini & Castoldi, 2000 |
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Critica (2): | (...) Ma si negherà a un autore il diritto di essere fedele a se stesso quando la sua opera manifesta la più variata e rigorosa fantasia, la più scrupolosa e vigorosa consistenza? Eppure Buñuel riesce, con Belle de Jour, a darci ancora qualcosa di più, con un mutamento – all'interno della sua opera – doppiamente importante. Egli infatti: 1) abbandona l'ambiente "arretrato" di tutta la sua opera e passa a quello europeo centrale e avanzato di una Parigi di oggi, indubitabilmente filtrata attraverso il suo particolare irrealismo schematico; 2) su questa base, che supera quella dei film francesi di Buñuel, non a caso ambientati in una provincia estrema come la Corsica di Cela s'appelle l'aurore, o gli anni Trenta campagnoli del Jurnal d'une femme de chambre, abbandona i santi per parlare dell'uomo medio, del noi quotidiano.
Séverine segue un itinerario simile e parallelo a quello di Viridiana, di Nazarín, di Simeón. Allo stesso tempo, non è una pazza, come El, né si libera delle sue ossessioni come Archibaldo de la Cruz, il personaggio cui più d'ogni altro somiglia, ma col quale non ha in comune la profondità del trauma, e quindi il più ampio margine di chances liberatorie. La molla di Séverine è meno alta di quella di Viridiana, che vuole cambiare il mondo con l'amore e col Cristo. Prigioniera della sua infanzia, della sua ambigua passività masochistico-cattolica e della sua condizione di sposa borghese, ella non vuole che confusamente adempiersi e completarsi, si spinge torpidamente alla prostituzione, come a una colpa inevitabile che vorrà esser punita, ma con un'ansia irrevocabile di liberazione. Ma è la strada giusta? Lascia alle cinque la casa d'appuntamento per rientrare nella bella casa borghese, ma è veramente uscita dalla sua contraddizione prima? Si libera dalla fantasticheria, dal sogno a occhi aperti, dalla insoddisfazione misera e abituale, ma Marcel, il giovane guappo, e Henri, il marito, non sono in fondo costrizioni parallele? ed è mai possibile una loro coesistenza? La precarietà della situazione non può che esplodere e anche il castigo (termine cristiano, interno cioè alla logica della colpa, di quanto è visto come colpa; che segreta e squillante idea, quella dei tori che si chiamano Rimorso, Espiazione... nella rêverie, più oscena e squisita che in Dalì, dell'Angelus di Millet!) arriva, temuto e voluto. Marcel rende Henri paralitico e cieco, ma viene ucciso dalla polizia. Felice (ogni masochista ha il suo risvolto sadico) della punizione fatale, sofferta ben più duramente da altri, dice Séverine: "dopo il tuo incidente, non sogno più". Ma il diavolo non perdona, e di fronte alla conoscenza della sua colpa da parte del marito, a Séverine non resta che una nuova regressione, il ritorno allo stato precedente la scelta che nulla ha risolto, alla fantasticheria, alla gabbia dell'infanzia, tranquillizzante e padrona. La liberazione che essa cercava è tutta terrena, al contrario di quella di Viridiana, ma le strade prescelte sono altrettanto sbagliate: nell'un caso, per l'ambizione al superamento e alla dimenticanza delle realtà dell'uomo e della carne; nel nostro, per la sua congeniale corrispondenza al sistema sofferto e fuggito. E non ci pare, peraltro, che i simboli, i sogni, le premonizioni, le consonanze, le correlazioni, siano affatto oscuri o sistematicamente ambigui. I misteri dei gatti, dell'inchiostro, della scatola cinese, inerenti a un rituale erotico che stimola l'immaginazione dello spettatore, ponendolo al limite in una condizione di fantasticheria simile a quella della protagonista, hanno una precisa funzionalità, coinvolgono appunto, ma anche alludono a uno stato di incompiutezza, di irrealizzabilità, di inassolutezza di quella evasione. E l'apparato delle fantasticherie è perfino troppo chiaro e banale, freudianamente; quello delle perversioni derivato da una ristretta e alquanto tradizionale casistica, che Buñuel stesso ha sfruttato, sia pure con perenne vivacità, più e più volte. Sin dalla scena d'inizio, che fora geniale lo schermo dalle pagine antiche di Justine.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Milano, Feltrinelli. |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Luis Buñuel |
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