Età dell’innocenza (L’) - Age of Innocence (The)
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Regia: | Scorsese Martin |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo omonimo di Edith Wharthon; sceneggiatura: Jay Cocks e Martin Scorsese; fotografia: Michael Ballhaus; musica: Elmer Bernstein; orchestrazione: Emilie A. Bernstein; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Gabriella Pescucci; montaggio: Thelma Schoonmaker; suono: Tod Maitland; interpreti: Daniel Day-Lewis (Newland Archer), Michelle Pfeiffer (Ellen Olenska), Wynona Ryder (May Welland), Richard E. Grant (Larry Lefferts), Alec McCowen (Sillerton Jackson), Geraldine Chaplin (signora Welland), Mary Beth Hurt (Regina Beaufort); produzione: Barbara De Fina per Columbia Pictures; origine: Usa 1993; durata: 138'. |
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Trama: | Newland Archer è un giovane legale che non ha mai messo in discussione né il mondo in cui vive, né la donna a cui è legato, fino al momento in cui incontra Ellen Olenska. La contessa Olenska, donna intelligente e colta, che ispira una sensazione di esotismo e allo stesso tempo di spontaneità, è una lontana parente di May Welland, la fidanzata di Archer, cresciuta dalla madre, dalle zie e dalla nonna per divenire la donna ideale secondo la società in cui vive, di cui rappresenta l’assoluta perfezione. Newland dapprima diventa difensore di Ellen, considerata una donna discutibile a causa della separazione dal marito, poi fra i due nasce un forte sentimento. Ma nonostante il forte legame, Ellen rifiuta l’idea di essere la causa della rottura del fidanzamento fra Newland e May, mentre Newland è diviso fra il rompere le rigide regole sociali per seguire le sue passioni e il perdere le sue sicurezze ed il prestigio. |
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Critica (1): | Dopo il Dracula di Coppola e Lezioni di piano di Jane Campion, terzo esemplare romantico dell’annata cinematografica: L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, freddo e disperato dove gli altri erano appassionati, e all’apparenza molto lontano dai temi e dalle ambientazioni abituali del suo autore. L’alta borghesia newyorkese della seconda metà dell’Ottocento, merletti, lussi e grandi occasioni sociali come sfondo di una storia d’amore impossibile. Già sulla carta era un’operazione che aveva suscitato perplessità: cosa c’entra un romanzo di Edith Wharton con la durezza narrativa e i furori metropolitani di Scorsese? Tutti lo aspettavano al varco, con il nome di Ivory già pronto in punta di penna, e quasi tutti sono stati coerentemente scontenti, non tanto sulla base di difetti oggettivi, quanto su quella di paragoni e rimandi offerti su un piatto d’argento dallo stesso Scorsese, un autore che non ha mai nascosto la propria passione e il proprio debito per il cinema classico, in particolare per quello di grande virtuosismo spettacolare e d’irresistibile presa emotiva. Un ballo che offre il pretesto per due piano-sequenza che indagano la struttura sociale e gerarchica sfiorando oggetti, volti, quadri, particolari dell’abbigliamento e del comportamento, come nel Gattopardo di Visconti. Un mazzo di rose gialle che dissolve nel giallo totale e abbagliante dello schermo, che poi passa al bianco e dissolve su un mazzo di mughetti, in un procedimento che ricorda quella rosa che prende e perde colore in primissimo piano in Scala al paradiso di Powell e Pressburger. Una trappola impercettibile ma infallibile, tessuta dalla famiglia e dal gruppo sociale, i cui sguardi, silenzi e impeccabile educazione rimandano (come l’insistenza a isolare le sensazioni di Newland) all’Ereditiera di Wyler. E ancora, la “verginità” ipocrita della borghesia americana del secolo scorso e la consapevolezza malinconica di una vita vissuta solo in parte come nell’Orgoglio degli Amberson di Welles, le passioni raffreddate e il barocco esibito della macchina da presa come in Lettera a una sconosciuta e Lola Montès di Ophüls, l’impudicizia del colore e la sovrabbondanza dell’inquadratura come in Madame Bovary di Minnelli e in tutto il mélo classico. Tutti rimandi (tranne quello a Michael Powell) citati uno per uno dallo stesso Scorsese: alcuni lampanti (come la pignoleria documentativa di Visconti, nei pranzi, nei dipinti, nelle suppellettili), alcuni obbligati (come l’intrigo a freddo degli Amberson e dell’Ereditiera, che d’altra parte è un riferimento letterario, dato il debito della Wharton con James), alcuni istintivi (come quella mobilità avvolgente della macchina da presa, che richiama Ophüls ma anche Goodfellas). In pratica, Scorsese ha spianato la strada ai suoi critici, citando e ricordando. Ma non per questo ha fatto un film meno personale, sentito o crudele dei precedenti. L’età dell’innocenza non è un film “alimentare”, né furbo, né minore. È un film del versante romantico di Scorsese, come New York New York, L’ultimo valzer, Toro scatenato. Solo che, per una volta, il regista si è divertito ad ambientarlo nel pieno dell’epoca romantica, senza alibi, durezze postmoderne, ritmi metropolitani. E ha fatto un film molto più estremo e disperato dei tre citati. Non c’è malinconia, autorelazione, ricordo passato che tenga, nell’Età dell’innocenza. C’è solo quel «Una cosa sapeva di aver perso: il fiore della vita», che è la frase più tremenda del libro della Wharton, arriva a poche pagine dalla fine, e non appare (almeno nell’edizione italiana) nel film.
Non è certamente casuale che i due maggiori cineasti americani di oggi e l’autrice più originale e inventiva emersa di recente siano ritornati quasi contemporaneamente al cinema di forte impatto spettacolare ed emotivo; quasi che, mentre il cinema si avvia al centenario della propria nascita, Coppola, Jane Campion e Scorsese ribadiscano il puro piacere del racconto e dello sguardo. Il riferimento al centenario non è gratuito. Coppola in Dracula si riaggancia esplicitamente alla nascita del cinema durante il corteggiamento del conte, legando la nuova meraviglia tecnica (oltre alla fotografia e al telegrafo citati nel romanzo di Stoker) alla follia amorosa capace di riprodursi attraverso i secoli. Scorsese riassume in un colpo le dieci pagine imbarazzate e tristissime che la Wharton dedica al matrimonio di Newland e May: da May in campo lungo su uno sfondo di rose che recita un po’ petulante il telegramma con cui annuncia a Newland il “sospirato” anticipo della data delle loro nozze passa al primissimo del volto di Newland atterrito, e da questo all’immagine capovolta di May in abito da sposa, inquadrata nell’obiettivo del fotografo di nozze (proprio Scorsese, con baffoni a manubrio), e ai particolari dei regali ricevuti dalla coppia, ennesima dichiarazione di identità e potenza di una casta ferrea. Una fotografia che non può non far venire in mente quell’altra sposa, inzuppata e scorbutica, che «visto che non ha avuto una cerimonia, almeno avrà una foto»: la Ada di Jane Campion, con l’abito di merletto vittoriano cacciato alla meglio sulla sua tenuta scura, di fianco a Stewart tutto intento a riavviarsi i capelli sotto il cilindro. Una foto da poveri, quanto quella di May e Newland è da ricchi. Come l’altra, una foto che non corrisponde a dei sentimenti, ma solo a un cerimoniale obbligato. La tecnica della riproduzione incontra il romanticismo: in Coppola il cinema dei primordi fa esplodere la sensualità, in Scorsese e nella Campion la fotografia fissa la falsità delle apparenze. In ogni caso, il cinema viene ricondotto alle proprie origini romantiche; da cui, la sovrabbondanza di particolari lussureggianti, trucchi, colori, immagini di estrema ricercatezza, le lacrime tramutate in diamanti da Dracula, l’inabissarsi preraffaellita di Ada nelle acque dell’oceano, i grandi dolly di Scorsese sui balli e i riti newyorkesi.
Tre storie agli antipodi (vecchia Europa, Nuova Zelanda, America), tessute degli stessi umori e delle stesse matrici letterarie e cinematografiche, anche se i risultati narrativi sono molto diversi: la definitiva dannazione romantica in Dracula, la possibilità di una nuova realizzazione sessuale ed emotiva per la Campion, la malinconia inguaribile dell’impossibilità amorosa per Scorsese. L’amour fou domina l’andamento dei tre racconti; l’amour fou ha forgiato la sensibilità romantica ottocentesca e quella di generazioni di spettatori cinematografici. I finali dei tre film offrono le tre risposte possibili alla follia amorosa: la morte, la fuga della coppia (attuata dalla Campion attraverso un calcolato innesco di modernità e romanticismo), la separazione degli amanti. Cosicché il vecchio continente e quello nuovissimo diventano alla loro maniera più appaganti di quello “intermedio”, quell’America che «sarebbe sciocco aver scoperto solo per farne la copia di un altro paese», e che si rivela invece nel corso del libro, del film e di un paio di secoli di storia più puritano e formalista delle varie madrepatria che l’hanno originato, nonostante le fantastiche libertà suggerite dalla frontiera a ovest. Più esangue dei vittoriani ammazzavampiri che sono comunque costretti ad insanguinarsi fisicamente le mani, a confrontarsi con le sensazioni violente del resto d’Europa e della loro storia passata; più serrata in se stessa del microcosmo di veri inglesi che sono andati a colonizzare l’emisfero australe, forzati a vivere gomito a gomito con i selvaggi, che la colonizzazione americana ha ormai allontanato a ovest. Il massimo dell’ardire per la buona società east coast della seconda metà del secolo scorso è avere oscure radici e frequentare salotti di dubbio gusto come Beaufort oppure costruirsi molto a nord sulla Quinta Strada, «in una zona selvaggia e inaccessibile dalle parti del Central Park, un grande palazzo in pietra molto chiara, quando costruire in pietra diversa dall’arenaria bruna era altrettanto inconcepibile quanto indossare, di pomeriggio, un vestito che non fosse la redingote», come la vecchia Caterina Mingott.
Una società che è agli antipodi di quel senso gotico che informa le immagini dei film di Coppola e di Jane Campion, dal quale Scorsese si tiene coerentemente distante. La sua perciò diventa una narrazione di ambiguità e di fini suggestioni psicologiche, mentre le altre due sono intessute di passione e dannazione, una storia di repressione piuttosto che di espressione ed esplosione. Il che non elimina l’intensità visionaria delle immagini, non trasforma un film di Scorsese in un film di Ivory, anche se evidentemente il gelo di Casa Howard nasce dagli stessi ghiacciai sociali di quello dell’Età dell’innocenza. Eppure Casa Howard (che probabilmente è l’esemplare migliore del ciclo forster-jamesiano di Ivory) conserva un calore e un affetto di sguardo per certi personaggi, certi ambienti e certi piccoli riti quotidiani che L’età dell’innocenza ha totalmente abolito. Mentre per Ivory il rito sociale rappresenta la cifra stilistica dominante, il tessuto compositivo che, nel bene e nel male, dà vita ai personaggi (passibile perciò di strappi, fughe, liberazioni, per Scorsese è comunque una gabbia, che impone comportamenti che finiranno per mangiare l’anima degli individui (e non importa se la società in questione è quella marginale ma ferrea della mafia Little Italy di Goodfellas, quella tutta maschile dei gruppi di pari di Chi sta bussando alla mia porta e Mean Streets, quella all’apparenza anticonformista e libera degli abitanti del Village di Fuori Orario). In questo senso, Scorsese è il più estremo e «dannato» dei cineasti romantici, un autore che va sempre a cercare il finale triste o drammatico che inevitabilmente segue la parola “fine” sullo schermo, che maneggia sostanza e materiali romantici filtrandoli attraverso la sua insistita consapevolezza sociale e il suo innato pessimismo. La sua storia d’amore più appassionata, New York, New York, supera tutti i finali possibili, compresa la morte del modello ispiratore (È nata una stella, versione Cukor-Judy Garland-James Mason), per chiudersi sulla malinconia della solitudine e del rimpianto. I suoi sbandati più proverbiali, Travis Bickle di Taxi Driver e Rupert Pupkin di Re per una notte, non ci concedono neppure la catarsi della tragedia ma, in una sorta di postfazione, arrivano all’adattamento o alla celebrità che la loro marginalità esasperata negava. Di Cristo viviamo il finale alternativo, acquietato e umano; e di Newland Archer lo spegnersi lento della passione, lo scorrere della vita senza scosse (senza “fiore”) riassunto nel lento movimento circolare nella biblioteca che cambia, l’unico momento di vero affetto di Scorsese per un ambiente e i suoi oggetti; ma d’altra parte è l’unica stanza della casa che Newland ha sempre sentito esclusivamente propria, dalla quale è riuscito a bandire le imposizioni, se non di affetto, almeno di gusto di May e del suo mondo. In pratica, nel suo film all’apparenza più estetizzante e algido, Scorsese non ha solo elaborato il proprio omaggio più consapevole alla tradizione romantica, ma ha anche tratteggiato il proprio affresco sociale più crudele.
(...) Scorsese riesce a intessere una storia disperatamente intimista all’interno di un altero gioco al massacro sociale. Tutto è dal punto di vista di Newland, nei momenti successivi della maturazione della sua coscienza. La bella gente di New York è sontuosa alla prima rappresentazione del Faust e al ballo dei Beaufort, amichevole alla cena dei van der Luyden per Ellen, fastidiosamente bianca e impettita in vacanza a Newport, minacciosa e ipocrita nella cena di addio a Ellen dei giovani Archer, dove Newland vede finalmente il balletto impercettibile con il quale lui e Ellen vengono tenuti impegnati e separati nel dopo cena. Vien quasi da pensare che tutto, come la storia di Clive Candy, sia un lungo, consapevole flashback di Newland vecchio, seduto su quella panchina di Parigi.
Su tutto, la voce narrante che legge pagine e pagine di descrizioni della Wharton; una voce nella quale qualche critico ha voluto riconoscere l’incapacità di Scorsese di raccontare per sole immagini, e perciò la sua distanza psicologica dalla materia e dall’ambientazione. La voce, però, è talmente incessante e piana che diventa un complemento indispensabile dell’immagine; racconta quasi sempre la superficie, gli alberi genealogici, i tratti distintivi, gli appuntamenti fissi, le lettere di cui vediamo in primo piano solo alcune parole, le abitudini. Educata, come quello che descrive, piano piano diventa un flusso indispensabile; e piano piano la macchina da presa, insieme a Newland, comincia a contraddirla; dietro il candore di May scorge una certa inattaccabile ottusità, dietro la quiete del pranzo in famiglia Newport la noia, e dietro alla cena di addio a Ellen, finalmente, le mosse della guerra silenziosa giocata da New York contro Newland e Ellen. La voce narrante ha la forza indistruttibile e analitica della memoria; mescola il tempo, lo elide, seziona i personaggi. E diventa, in fondo, il più appariscente dei “trucchi” di cui si serve Scorsese (e di cui aveva già cominciato a servirsi in Goodfellas) per andare a scavare nella storia della solitudine tranquilla di Newland Archer.
Emanuela Martini, Cineforum n. 327, 9/1993 |
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