Schiavi di New York - Slaves of New York
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Regia: | Ivory James |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Tama Janowitz; fotografia: Tony Perce-Roberts; montaggio: Katherine Wenning; musiche: Richard Robbins; scenografia: Carol Nast, David Gropman e Karen Schul; interpreti: Bernadette Peters (Eleanor), Adam Coleman Howard (Stash) , Chris Sarandon (Victor Okrent), Mary Beth Hurt (Ginger Booth), Madeleine Potter (Daria), Steve Buscemi (Wilfredo); produzione: Merchant/Hendler; distribuzione: Columbia; origine: USA, 1988; durata: 120'. |
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Trama: | Amori, disamori, scambi di sesso e di letto, rivalità, affinità nel microcosmo artistico e bohemien della New York degli anni '80 |
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Critica (1): | New York, ancora una volta, come cuore pulsante, isterico e frenetico della postpostmodernità, e come tutto nella contemporaneità dell'elegante, sensuale, sontuoso e un po' struggente e sfuggente regista inglese James Ivory. Poco dopo il passaggio sullo schermo dell'episodio di Scorsese in New York Stories, "Lezioni di vero", questo film ne sembra la continuazione: stesso ambiente di artisti o pseudoartisti, di grandi pareti affrescate in colori primari di mode, disordine, gallerie d'arte, cattivo gusto, creatività come obbligo esistenziale; e come obbligo creativo il conformismo dell'anticonformismo, il bisogno della novità, dello shock, dello stupore, della dissacrazione, del disgusto che piace...
Tutto questo dilatato però in due ore, e non in 45 minuti come in Scorsese; due ore nel corso delle quali seguiamo le vicende, i cammini, il lavoro di un gruppo di trentenni alla ricerca del successo e insieme di un equilibrio sentimentale: ma sono pasticcioni con l'arte così come negli affetti, e il risultato è un gran girare a vuoto, sul quale affiora l'ombra del tempo che passa. Una volta di più, Ivory (Camera con vista, Maurice) si rivela in questo film raffinato illustratore più che narratore di piglio. Gli interessa più l'occhio dell'orecchio, del cervello, e dopotutto del cuore. E il suo film è così, prima di tutto, un campionario di stranezze newyorchesi, di cappellini arzigogolati e barocchi come variopinte cattedrali pericolanti e kitsch, vestiti dai colori lancinanti, borsette a forma di pattumiera, cappotti a forma di pelliccia ma completi di coda, tutto un trovarobato sospeso fra gli anni Sessanta e un futuro che sembra un passato immerso in un forno a microonde. E pensare che ancora nel '61 Audrey Hepburn passava davanti a Tiffany vestita da educanda, esile e diritta sul collo di cigno come una ballerina di biscuit. Si ha l'impressione che fosse lontana anni luce da tutto questo.
Niente a che vedere con la New York di Allen? Borghese e di mezz'età il mondo di Woody Allen, sciamannato, out e con qualche anno in meno di quello di Ivory, si tratta di due universi entrambi logorroici e fragili, su di giri e depressi, popolati da personaggi insicuri e insoddisfatti, incapaci di farsi volontariamente del male, ma anche di tirarsi fuori l'un l'altro da un pantano di ambizioni frustrate, da una vita come sala d'aspetto. Incapaci di amori solidi, ma anche (nel film di Ivory) di ascoltarsi con attenzione l'un l'altro, presi come sono dal loro sogno di riscatto individuale, dall'obbligo americano del successo. Questo è quanto produce l'esasperazione della civiltà occidentale in cui tutti siamo tuffati: anche loro, gli schiavi di New York, sono aspiranti yuppies, anche se con la barba sfatta, l'alcool, le pasticche, l'aria imbestialita o impastata e qualche volta i calzoni corti, a trent'anni, per giocare a baseball in mezzo alla città.
Con eleganza, Ivory lega le sequenze fra loro con sdoppiamenti dello schermo, mascherini a iride o quadrangolari, originali e desuete "tendine" che danno un'idea del raffinato segno grafico del film; però non approfondisce i caratteri né ci dà mai
l'impressione di aver voluto raccontare una storia, con un inizio e una fine. Le sue scenette sembrano tranches de vie casuali, che non riescono ad assumere potenza, energia, batticuore: lui sembra sempre fermarsi troppo presto, prima che il pathos si condensi, prima che la pentola dell'emozione si metta a bollire; per la fretta di passare alla scena successiva. E così si viaggia da una festa all'altra, da un opening party a una sfilata, da un night a un taxi preso di sguincio, e via andare (Wenders l'avrebbe chiamato "falso movimento"). Velleitari, nevrotici, iperattivi schiavi di New York: tutti artisti ma senza aver imparato a disegnare, stilisti senza saper cucire, amanti senza saper amare, abitanti di un mondo, di una città che è come un carrello della spesa per tutto il mese pieno solo di dolci e dessert, perché ci si è completamente dimenticati delle pietanze, dello "zoccolo duro" della vita. Il giradischi, intanto nel loft dei due amici pittori, intona Bimba dagli occhi pieni di malia: va di moda l'opera il Puccini della Butterfiy, fra i bohémiens della Grande Mela. Una bohéme su cui Ivory apre la sua camera con vista, affascinata e miope.
Giovanni Bogani, La Nazione, 5/1/89 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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