Zombi - Dawn Of The Dead
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Regia: | Romero George A. |
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Cast e credits: |
Soggetto: George A. Romero; sceneggiatura: George A. Romero; fotografia: Michael Gornick; musiche: Goblin; montaggio: George A. Romero; scenografia: Barbara Lifsher; costumi: Josie Caruso; effetti: Don Barry, Gary Zeller; interpreti: David Emge (Stephen Andrews), Ken Foree (Peter Washington), Scott H. Reiniger (Roger De Marco), Gaylen Ross (Francine Parker), David Crawford (Dr. Foster), Daniel Dietrich (Givens), Tom Savini (motociclicsta), Richard France (Dr. Milliard Rausch); produzione: Claudio e Dario Argento, Alfred Cuomo, Richard P.Rubinstein per Laurel Group/Dawn Associates; distribuzione: Dis Film; origine: Usa, 1978; durata: 120'.
Vietato 14 |
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Trama: | Gli "zombi", i morti viventi, hanno invaso gli Stati Uniti. Il terrore dilaga. Quattro ardimentosi - due soldati, uno bianco e uno di colore, un uomo e una donna, funzionari di una rete televisiva - cercano scampo in elicottero. La scarsità di carburante, pero', li costringe ad atterrare sul tetto di un enorme supermercato, già occupato dagli "zombi". Mentre i morti viventi, che si cibano di carne umana, tentano di sopraffarli, i quattro riescono - dopo avere eretto una sicura barriera tra loro e gli assedianti - a costruirsi nel supermercato un rifugio, nel quale attendere tempi migliori. Purtroppo una banda di teppisti motorizzati scopre la loro presenza: dietro di loro arrivano anche gli zombi. Dalla carneficina finale si salvano soltanto il soldato di colore e la donna, che è incinta. |
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Critica (1): | “Solo dopo La notte dei morti viventi, capii come quella degli zombi potesse essere una metafora potente, e importante. Se non li si considera mostri, ma una rappresentazione di quel che noi uomini siamo diventati, ecco allora che il genere dei morti viventi acquista un’altra dimensione (...) Zombi nasce nel clima psicologico e sociale successivo a uno dei più bui e turpi periodi della storia americana, dopo l’escalation di sangue e morte della guerra del Vietnam”.
George A. Romero, repubblica.it, 2/9/2016 |
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Critica (2): | Prima dello sbudellamento di gruppo di Zombi (1978), il gore d’autore non esisteva. Herschell Gordon Lewis militò due lustri prima in una carovana di illusionisti girovaghi da Grand-Guignol, Alien (1979) sarebbe arrivato pochissimo dopo e Non aprite quella porta (1974), motosega e ganci da macellaio permettendo, al confronto fu un amuse-bouche. Non è casuale che l’immagine del giovane non-morto col machete piantato nel cranio sia diventata per il film un simbolo iconico, e per il genere un giro di boa. Se La notte dei morti viventi (1968) diede uno scossone, fu Zombi a cambiare l’horror alla sua radice. Perché – fra le altre cose – dimostrò che lo svelamento del raccapriccio, con la sua umidità puzzolente e un imprevedibile rossore bagnato, non era un facile espediente dei tempi ma la giusta condivisione di un orrore ormai trasformato in merce.
Per Romero, il gore esibito, esposto, vantato, non prese mai la forma di una messa in crisi del corpo: fu piuttosto la rappresentazione di un pensiero marxista sullo stato delle cose e sul futuro del mondo. Perfino negli anni Ottanta, perfino in Il giorno degli zombi (1985) e in pieno new horror, il gore romeriano interpretò un’idea sociale, prima che dell’uomo quale singolo individuo: in epoca di perturbazione dell’identità e di piegatura della persona davanti a sé stessa, Romero preferì insistere sulla narrazione di una rovina collettiva; e anche quando sembrò limitarsi a un rapporto a due poco ortodosso, come in Monkey Shines - Esperimento nel terrore (1988), si trattò sempre di uno specchio deforme sul quale far riflettere una comunità intera.
Furono film pubblici, quelli di George A. Romero. Film destinati alla pluralità in quanto gruppo eterogeneo fondato sull’educazione alla civiltà. Raccontarono della lotta delle specie, in un loop apocalittico che si ripeté senza fine. E giunsero a una conclusione devastante: non c’è evoluzione, Darwin è sconfitto. La legge del più forte finisce a gambe all’aria, di certo non sono i morti viventi i più adeguati, perché la loro è un’invasione innaturale e ottusa, e neppure gli umani si ritrovano adatti a calpestare ancora queste lande desolate, sono soltanto fragili simulacri.
Il gore allora servì a Romero per commentare una deriva, non per crearla. Con buona pace delle anime sensibili, si rivelò un progetto geniale: attraverso la centrifuga dei vivi e dei morti, il cinema romeriano fece terra bruciata del prima, senza peraltro ipotecare nessun dopo. La manifestazione del ribrezzo fu per lui una prospettiva politica, un modo di guardare, il modo migliore, il più pertinente proprio perché il più ripugnante.
Il gore di Romero fu così una porta spalancata, non un sepolcro; la visione fino ad allora inaudita e proibita di un sabba socialista nelle cui viscere stagnava l’olezzo del nostro nome e cognome. Vedere lì dentro, e fare in modo che gli spettatori vedessero bene, si scoprì gesto inimmaginabile, decisivo. Niente sarebbe stato più come una volta.
L’horror e il gore romeriani furono una scelta di campo, un no al conformismo della riproduzione della realtà, la decapitazione del limite oltre il quale sarebbe stato più giudizioso non andare. Romero fu un idealista del mostruoso, e non credette mai nella capacità dell’uomo di salvare sé e i propri simili. Non spiò dal buco della serratura, al contrario contemplò la magnificenza di un universo destinato all’iper-sviluppo della repulsione. Nessun progresso, solo la rigenerazione inarrestabile del disgusto quale stile di sguardo.
A tal proposito, George A. Romero fu un rivoluzionario e un’eccezione del mercato: capì più di tutti e prima di tutti che non dovevamo avere paura dell’orrore più mucoso e fradicio perché ci riguardava uno ad uno, e perché sarebbe diventato il nostro cibo quotidiano.
Pier Maria Bocchi, cineforum.it, 17/7/2017 |
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Critica (3): | La crisi finale e irreversibile è invece in Zombi già avvenuta. I morti sono risorti e stanno distruggendo la civiltà dei vivi: forse la Bibbia non intendeva proprio questo quando parlava della risurrezione della carne – sta di fatto che questi zombi sono un vero esercito (ma da dove sono spuntati i primi?), si muovono ovviamente come Frankenstein, possono essere abbattuti facilmenti ma distrutti solo facendogli saltare il cervello. La cosa peggiore è che soffrono di una insaziabile fame di carne umana; vivente, si capisce.
Gli USA sono nel caos più totale, ridotti a terra di nessuno in cui ogni individuo pensa a sè: cosa che fanno anche tre uomini e una donna che si asserragliano in un ipermercato abbandonato. Ne scacciano gli zombi e si installa-no felici in questa mecca del consumismo completamente a loro disposizione. Purtroppo saranno altri sbandati superstiti che causeranno la loro rovina.
George A. Romero non è nuovo a realizzazioni di questo genere: aveva già fatto anni fa La notte dei morti viventi, un classico del cinema dell'orrore, di cui Zombi è sostanzialmente un remake. La notte dei morti viventi era un film assai riuscito, con una sua logica non gratuita, un misurato sviluppo carico di suspense ed un finale, nei limiti del genere, geniale. Tutte cose che non si possono certe dire di Zombi, in cui la pretesa spettacolare e quella "intellettuale" mirano al bersaglio sbagliato. Zombi appare divaricato tra due intenzioni: una, essere niente di più che un film dell'orrore, carico di effetti, che non si pone altro fine che quello di in-trattenere (da notare che l'uso del colore contrapposto al bianco e nero de La notte dei morti viventi). A questo scopo congiura anche la distribuzione italiana che, per attirare il pubblico, inventa una collaborazione di Dario Argento e appende letteralmente alle scene – senza alcun criterio estetico – il commento musicale dei già noti Goblin.
Secondo principio che regola Zombi è quello di essere una trasparente metafora della società dei consumi: da questo punto di vista la trovata dell'assedio nell'ipermercato è veramente notevole. I vivi difendono da un incombente pericolo esterno (polisignificanza dello zombi...) la loro ricchezza e, pur nella situazione paradossale, ricostruiscono in micro i rapporti che vigono nel capitalismo. Questi due livelli non riescono mai a saldarsi in maniera convincente e spesso fanno a pugni tra loro; ma tra essi si apre uno spazio in cui Zombi acquista un suo fascino grandguignolesco e assurdo, principalmente grazie all'autoironia di cui Romero si dimostra ben fornito. C'è una specie di irridente e felicemente perverso divertimento nelle scene in cui gli uomini abbattono gli zombi come birilli, con un gusto che ricorda in tono minore il piacere dell'ultraviolenza in Arancia meccanica.
Zombi si basa su una sceneggiatura che semplicemente rifiuta la logica come principio organizzativo: tanto per fare un esempio, la donna, che è incinta di cinque mesi a metà del film, alla fine è perfettamente normale, senza peraltro che si sappia dove è finito il presunto neonato. Per non parlare della caratterizzazione psicologica (...) dei personaggi. I momenti migliori di Zombi stanno invece in alcune scene al limi-te del surreale: come quando i quattro vanno a "fare le spese" nel grande magazzino, come tranquilli clienti, mentre i morti li guardano invidiosi da dietro le vetrate infrangibili. Sono i momenti in cui sembra che Romero si renda conto di spararle tanto grosse che non è proprio il caso di prenderlo sul serio. Anche l'avvio, con l'assedio di una casa di portoricani che non vogliono consegnare i loro morti per ragioni religiose, è piuttosto riuscito.
Cosa significa il grande successo ottenuto da Zombi? Evidentemente la soluzione adottata da Romero (soluzione che a livello estetico è totalmente sconnessa) funziona invece a livello spettacolare: il pubblico risponde bene al brivido orrorifico con qualche venatura intellettualistica. Inoltre, evitando qualsiasi spiegazione razionale, Zombi dà la risurrezione dei morti come fenomeno-evento tanto abnorme da essere, paradossalmente, normale ed accettabile. Essendo perciò considerata come una delle probabilità del capitalismo (e, si noti, gli zombi non hanno niente di spettrale o sovrumano, ma sono caratterizzati in modo assolutamente e crudamente materiale), incarnazione di un incubo distruttivo immanente alla società contemporanea, l'invasione degli zombi può essere esorcizzata nella dimensione del gioco: l'angoscia della situazione iniziale si trasforma pian piano in istinto "sportivo" di caccia, di cui Io zombi diventa a sua volta selvaggina. È appunto questo aspetto ludico della violenza che rimanda all'ultraviolenza del romanzo di Burgess: solo che in questo film la violenza non è interna al sistema, ma viene dirottata verso una minaccia che giunge da fuori. (...)
Tempi duri quando non ti puoi fidare non solo dei vivi, ma nemmeno dei defunti.
Davide Ferrario, cineforum n. 178, 10/1978 |
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