Buio nella mente (Il) - Cérémonie (La)
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Regia: | Chabrol Claude |
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Cast e credits: |
Soggetto: Claude Chabrol, basata sul romanzo "La morte non sa leggere" di Ruth Rendell; sceneggiatura: Claude Chabrol e Caroline Eliacheff; fotografia: Bemard Zitzermann; scenografia: Daniel Mercer; montaggio: Monique Fardolulis; musica: Matthieu Chabrol; interpreti: Sandrine Bonnaire (Sophie), Isabelle Huppert (Jeanne), Jacqueline Bisset (Catherine), Jean-Pierre Cassel (Georges), Valentin Merlet (Gilles); produzione: MK2 Productions, Prokino Film Production, Franco 3 Cinema; distribuzione: Mikado; origine: Francia 1995; durata: 105'. |
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Trama: | La ricca borghese Catherine Lelievre assume la taciturna Sophie Bonhomme come governante nella isolata villa dove vive con la famiglia. La giovane è impeccabile, anche se non ha la patente e rifiuta di prenderla, e va in crisi se le si comunica qualcosa per iscritto: è analfabeta. Melinda, la figlia maggiore di Catherine, tenta di far breccia in Sophie ma invano. Unica amicizia per Sophie, che passa tutto il tempo libero davanti al televisore, è la postina Jeanne Marchal, tipo vivace e impiccione, che la coinvolge nella cernita e nella distribuzione dei vestiti usati in parrocchia, ma la istiga anche a ribellarsi. |
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Critica (1): | Gli orrori della vita quotidiana secondo Chabrol il vecchio icone della Nouvelle Vague racconta di una domestica Jeanne un po' particolare, al servizio della famiglia Lelièvre dapprima zelante ed impegnata, poi sempre più insolente e curiosa complice anche l'ascendente di Sophie. Questa è un'impiegata postale che come lei, ha un passato fosco di cui giustificarsi ed una modesta condizione sociale. L'escalation della loro amicizia coincide, crescendo lentamente durante tutto il film, con un parallelo e crescente disprezzo verso la famiglia più ricca, fino ad una conclusione di terribile violenza. Il soggetto proviene da un duro romanzo della giallista Ruth Rendell (anche se le problematiche femminili e la complessità contorta delle psicologie fanno curiosamente pensare con più facilità a Patricia Highsmith) e viene per così dire "raffreddato" da Chabrol, che infatti non intende sposare nessun punto di vista nella storia. Questa scelta corrisponde a un racconto tutto consequenziale, senza snodi "forti" senza colpi di scena annunciati, addirittura (e volutamente) senza alcuna particolare ricerca stilistica. La macchina da presa non indaga su nulla, "registra" impassibile gli avvenimenti e trama segreti e misfatti come gesti di vita quotidiana.
Semmai questa calcolata distanza da tutti i personaggi in scena può generare ambiguità. Ci troviamo di fronte ad un tentativo di "espulsione" del male proveniente dall'ignoranza attuato dalla borghesia, o al contrario, si tratta di una sferzata al vetriolo contro i falsi perbenismi di una classe capace solo di vivere chiusa in se stessa, con i suoi riti, e, appunto, le sue cerimonie? Se la risposta fosse facile, non ci troveremmo di fronte a Chabrol, da sempre attento a mescolare le carte, a rendere ambiguo
ciò che sembra spiegabile ed evidente ciò che piacerebbe rimuovere. Il suo amore per Hitchcock lo porta ancora una volta ad occuparsi di un giallo, pur se "prosciugato" dalla tensione, che, come sempre nelle mani dei grandi autori, è il grimaldello per sfondare ben altre porte.
Il controllo severo dei colori, la causticità del finale, l'atmosfera da incubo crescente non sarebbero però tanto efficaci se le protagoniste non si chiamassero Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert (giustamente premiate in coppia a Venezia). Ma guai a dimenticarsi della performance sfumata e ricchissima di Jacqueline Bisset. (Roy Menarini)
Sandrine Bonnaire, a smentire la sua faccia angolosa e dolente, s'è messa addosso per venire alla Mostra un meraviglioso vestitino con pizzi e bolero rosso e nero di Lolita Lempitcka, capriccioso e sedutivo alla maniera delle bambole. Isabelle Huppert, più sicura di se e più forte della sua fama, ha scelto invece uno di quei camicioni di garza di cotone largo e lungo, apparentemente privo di ambizione. Parlano insieme, le due attrici di La cérémonie, coinvolte da Claude Chabrol in una gara di mostruosa bravura. Parlano insieme ma non si tolgono la parola l'una con l'altra. Come nel film, dove la postina Jeanne, dice Huppert, «è stravagante, divertente, logorroica, un torrente che passando travolge tutto» mentre la domestica Sophie dice Bonnaire, «oppressa dalla vergogna di essere analfabeta, si limita a lanciare sguardi consapevoli. Ma soprattutto tace, rifiuta, acconsente, s'accoda». E nella vita? Come sono nella vita l'attrice Isabelle Huppert e l'attrice Sandrine Bonnaire? Bonnaire elude: «Naturalmente, tranne l'esperienza di un assassinio multiplo, come il mio personaggio anch'io ho provato amarezza, imbarazzo, esaltazione, l'orgoglio per una competenza pratica, la vergogna per una mancanza. Sono strumenti, i sentimenti, indispensabili per recitare». Più esplicita, ed è strano per una donna riservata come lei, Isabelle Huppert: «in famiglia, ho perfino momenti in cui mi comporto in maniera buffa, rapida e intuitiva come in questo film. E certo "Madame Bovary", e le tante donne cupe e dure interpretate sullo schermo, mi somigliano meno di questa postina folle». Entrambe citano, per chiarire il meccanismo psicologico che trasforma la domestica e la postina in una coppia criminale, da follia a due». « È un fatto chimico: l'amicizia e l'intimità portano le due donne all'esplosione». «Sentirsi esclusi dal linguaggio culturale, più che dai beni di consumo, scatena il senso di una lotta di classe che oggi non prevede più le rivendicazioni ma la strage». Claude Chabrol: i Cahier du Cinéma hanno scritto che è il più grande regista del cinema francese contemporaneo, con un punto interrogativo. Lui afferma ridendo che lo avrebbe preferito esclamativo. Sostiene che Huppert e Bonnaire sono due intellettuali: colta e sapiente la prima, istintiva e avida la seconda. Tutte e due hanno figli: uno di 7 e l'altro di 11 anni Huppert, uno di ventuno mesi Bonnaire, avuto da William Hurt. Tutte due vivono a Parigi: Bonnaire da un mese fuori Parigi perché aveva voglia di alberi, Huppert in città ma con piante sul terrazzo. Tutte e due sono contrarie agli esperimenti nucleari ripresi da Chirac. Tutte e due desideravano esattamente il ruolo per cui Chabrol le aveva chiamate, anche se Huppert per via dell'antica amicizia col regista, ha avuto il diritto alla prima scelta e Bonnaire, in Russia a girare, ha trovato i giochi fatti al ritorno. Tutte e due recitano con la testa e poi arrivano al cuore: hanno letto saggi sull'emarginazione, esaminato atteggiamenti e tic del proletariato, preteso chiarimenti sul disagio mentale dalla psichiatra Caroline Eliacheff, psichiatra, moglie del produttore Marin Karmiz, nonché collaboratrice alla sceneggiatura. Bonnaire ha perfino studiato su un libro che dovrebbe insegnare ai tre milioni e mezzo di analfabeti francesi come imparare a leggere. Cinema d'impegno civile obbligatorio per entrambe, quindi? Huppert: «È un segno dei tempi. L'intrattenimento lo fa la tv, al cinema tocca la politica, la sociologia, la filosofia, l'arte». Bonnaire: «Un film deve avere un messaggio morale. Non moralistico ma etico. Deve usare le immagini per passare un contenuto: non a c'è più spazio per i sogni al cinema».
Simonetta Robiony, La Stampa, 5/9/95 |
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Critica (2): | Avete presente le due care vecchiette di Cary Grant di Arsenico e vecchi merletti? E avete presente, in particolare, l'allegria inconsapevole e isterica che governa ogni omicidio condotto con diabolica leggerezza da queste due vecchie signore che sembrano venute fuori da un Green sotto i fumi dell'alcool? Beh, non so per quale strampalato motivo, ma le due signorine di Chabrol, nel momento in cui decidono di diventare spietate cowgirl agresti dell'omicidio e di far saltare in aria questa famigliola tipo, prototipo patetico e involontariamente comico di ogni famiglia "bene" che si rispetti, inventandosi sul momento giustiziere sociali di qualsiasi istituzione che puzzi di vacuo odor di sacro, mi hanno fatto venire in mente quelle due pazze fanatiche di Capra, in versione classista. Al posto dell'arsenico, qui si va giù duro, e si usano fucili da caccia che rendono smaccatamente visibile ogni colpo che apre un buco nella pancia altrui, grondando sangue tarantiniano, mentre al posto dei vecchi merletti ci sono riunioni di beneficenza a sfondo parrocchiale che rendono ancora piú assurdo e grottesco questo volontariato "controcorrente", fatto per gioco e forse per pura follia umanitaria (o forse, ancora, per pura curiosità provinciale). Sempre a proposito di vecchi merletti: che dire di queste cortesie borghesi, fatte di party domenicali conditi di tartine al salmone, tappeti rigorosamente persiani e sorrisi compiacenti, dietro ai quali c'è solo un disprezzo latente per tutto ciò che è "basso" e non rigorosamente "nella norma"? Perché dietro ai visi "stirati" e candidi di questa famigliola, che sembra venuta fuori da un manuale di Lina Sotis, c'è tutto il "galateo" frutto di una democrazia sociale delle idee che poi si scontra con le differenze reali, senza riuscire a coniugare onestamente pietà e rispetto.
In Capra, l'omicidio era il frutto di due menti scardinate, "svalvolate" da una demenza senile che faceva ritornare le protagoniste ad uno stadio infantile, dove non esiste più la differenza tra bene e male. Qui, in questo Chabrol (lucidamente politico) il morto a sorpresa (bisogna ribaltare le regole del giallo, no, monsieur Chabrol?) serve a fini di buñueliana memoria, e non a caso, entra in scena proprio in uno di quei salotti "bene", che tanto humor nero facevano "vomitare" allegramente al Don spagnolo in questione.
Non c'è niente di prettamente comico, intendiamoci, dalla parte di Chabrol, se non la conseguenza racchiusa nell'atto finale che, come un ghigno surreale e acido, si apre su questo scenario borghese insanguinato. Non c'è aria di commedia degli equivoci in La cérémonie: semmai, il grande equivoco (non strutturale, non di genere, ma umano, troppo umano) è alla base di questa società produttrice di inganni, di mostri, di freaks, che si dividono in due categorie: rispettabili e no, accettabili o meno, ma comunque sempre appartenenti al manicomio della fauna terrena.
A proposito di "inganni", e di esistenze misteriose: anche qui, Chabrol non scherza, mantenendo in un'ambiguità cristallina tutte le pedine di questo gioco che fino a l'ultimo non si capisce dove voglia andare a parare. Stiamo seguendo una commedia borghese, un film psicologico o un lungometraggio sulla vita di campagna di una famiglia "chic & cheap" parigina? Ma no, Monsieur e Madame (sembra dire Chabrol), stiamo lentamente preparando le armi di una rivoluzione sociale in miniatura, simbolicamente affidata a due bolsceviche per istinto toccate da una leggera vena di pazzia, quella giusta che serve per azioni "impossibili".
Chi siano questi borghesi piccoli piccoli, e queste due servette di paese che formano una coppia quanto mai bizzarra (essendo l'una l'esatto contrario dell'altro) non ci è dato di sapere. Cosa facciano i componenti della residenza Belle Malouinière, a parte giudicare a mo' di tribunale silenzioso, attento (e un po' schizzinoso) questa colf versione cyborg muta e fantomatica, proprio non si sa. Lei è una gallerista un po' snobbetta, sempre con un sorriso abbozzato su quelle labbra truccate con cura e sobrietà; lui, un professionista, di quelli pallosi che parlano con i figli tentando di fare gli amiconi, ma facendo la figura di tardoni che giocano a fare gli eterni giovinotti. I poveri pargoli sono quello che sono: beneducati, come vuole la moda delle famiglie illuminate, tentano una mediazione con gli esseri di marca "inferiore", senza trovare il linguaggio giusto per una comunicazione che non sia di convenienza. E infatti, quando la ragazza, che ha scoperto l'analfabetismo della cameriera, tenta di aiutarla, scoppia il casino, la rivolta degli innocenti con la faccia sporca. Insomma, questo tranche de vie de campagne è, senza che succeda nulla che ce lo faccia capire apertamente, a dir poco sconcertante: la monotonia spirituale che scandisce questo mondo à la page disegna un vuoto pneumatico deprimente per la carenza di stimoli intellettuali. Tanto che quando la famiglia si riunisce per ascoltare un «Don Giovanni» televisivo, viene fuori, in tutto il suo patetico splendore, l'affresco finto colto che questi quattro idioti si sono creati.
Allora, ben vengano (ci vien da pen-sare) queste terroriste dell'ultima ora, e, senza neanche saperlo (qui sta il trucco, monsieur Chabrol?) fanno fuori a colpi di fucile tutti i simboli sacri di un conformismo nato sull'onda della ragione e del buon senso. Anche imbrattare i muri di cioccolata, che sembra sullo schermo letteralmente merda (atteggiamento che ricorda i vandalismi studenteschi da contestazione "dura e senza paura"), allora, ha un senso: sporcare il lindore soffocante di queste case dove tutto viene (pare) accettato, perché è di moda il politically correct, portare scompiglio in un mondo in cui il disordine è visto come scandaloso, creare scandalo per il gusto di irrompere nella vita con armi che non siano quelle solite (e legali) del buonsenso, che caria i denti.
È complicato il rapporto sociale tra questi esseri che, in fondo, non si conoscono e sono uniti tutti da varie e temporanee "convivenze". I Lelièvre hanno bisogno di Sophie, di una colf tuttofare che tenga in ordine questa magione extra lusso di periferia chic; Sophie ha bisogno di loro, non tanto per mangiare, ma per scaricare quell'odio che si porta, come un segreto raggelante, nel proprio corpo. E, ancora, anche Jeanne, la postina, sola in un mondo di pettegolezzo (che lei stessa alimenta), sente la necessità di trovare, in un'altra emarginata alla deriva, una compagna ai giochi che sappia (consapevole o no) sbarazzarsi delle buone maniere e diventare una sanguinaria che guarda come una psicopatica sadica, i cadaveri che lascia sul proprio cammino.
Alla fine del massacro - a parte la bella scena, architettata da ottimo cuoco dell'intrigo da Chabrol, che dà una soluzione tecnica al giallo rimaniamo spettatori spiazzati di fronte ad un ignoto umano che si perde nell'indistinto agire senza telos. Il perché di un delitto scoppiato dopo vandalismi di una ferocia ferina rimane senza risposta. Da una parte, siamo contenti di vedere imbrattate di cioccolata calda le bian-che e profumate lenzuola di casa Lelièvre, ma dall'altra, movente po-litica a parte, restiamo sconcertati da tale acidità (che, in questo caso, essendo le due giovani, non può ve-nire giustificata dalla senilità che invece "sosteneva" le care ziette di Capra). Una rabbia, quella che prende con scatto schizoide le due giovani, che sorpassa il caso parti-colare di una famiglia che sarà pu-re antipatica, ma che rientra in una normalità generica. Nelle loro risa-te isteriche, e nella loro presunta pazzia, queste due raccolgono tutta la ribellione che si nasconde lucida o anarchica nei tanti cervelli (e nel-le tante cameriere frustrate del ci-nema), che vagabondano apparen-temente innocui nelle campagne as-solate, deserte o desolate della vita.
Un film "contro", questo ultimo di Chabrol, con un carico di rabbia in corpo (anzi nell'inconscio) che viene fuori quando meno te lo aspetti e per giunta da due donnine che, in fondo, la vita non ha totalmente bistrattato. Perché qui, in questa tranquilla campagna dove tutto è possibile, non c' è la rabbia dei ghetti neri e nemmeno quella degli operai disastrati dal governo inglese di Ken Loach. Sophie e Jeanne, una con il suo brio (dagli effetti nefasti) e l'altra con la sua aria da suora bacchettona, sono entrambe riuscite a "intortare" anche la giustizia che, sebbene le avesse sospettate di omicidio, non è riuscita in passato ad incastrarle. Insomma, se non fosse osceno dirlo, sono due burlone che l'hanno pensata grossa! Ma, quel che conta, è il gesto, la ferita che loro, con un puro atto di follia liberatoria e inebriante, hanno inferto con baldanzosa allegria.
E arriviamo al meccanismo finale. Per tutto il film noi seguiamo questa zelante cameriera nelle sue frustrazioni casalinghe, nei suoi vagabondaggi tra supermarket ostili (non sa leggere, la poveretta, ed è un dramma capire la confezione giusta da scegliere!) e soste alla posta di Jeanne. "Sismi" di periferia a cui non scappa niente, nemmeno le scarpe nuove della giornalaia. Anche se il piatto forte, guarda caso, sono loro, i Lelièvre, troppo ricchi e belli per non essere al centro di questa periferia parigina del pettegolezzo. Parte in modo sommesso, Chabrol, con una velocità da crociera, e sembra non andare da nessuna parte (ma hanno la pazzia o il disordine mentale un centro e una periferia, un sud e un nord ... ?). Come un fenomenologo attento, il regista osserva tutti i suoi protagonisti, che sembrano vagare in un universo sotto vetro. E hanno un che di inumano, di meccanico, di metallico questi personaggi, a loro modo inquietanti e in cerca di un autore che dia loro un'anima. Ma il Nostro è cattivello e non gliela dà neanche morto (piuttosto, si dirà, li fa morire!). Nessuno scopo, nessuna meta evidente sembra avere Chabrol che, come un architetto paziente, disegna ad uno ad uno i personaggi mantenendoli in un deserto delle emozioni che non lascia spazio al battito del cuore.
La storia è volutamente esile e coscientemente anarchica, funzionale all'epilogo che ribalta in dieci minuti le regole di qualsiasi aspettazione emotiva e di qualsiasi costruzione "gialla". Uno schiatto a qualsivoglia ingegneria della giallistica decodificata: non si crea tensione ma semmai distensione; non si provoca lo spettatore ma lo si estrania, lo si distrae, per meglio colpirlo quando si è quasi addormentato. Insomma, quello che fa Chabrol è rileggere gli stratagemmi hitckockiani in chiave apatica, quasi afasica: della "bomba" possibile non sappiamo nulla. Tutto deve rimanere nell'oscurità selvaggia di queste due menti. Non c'è destrutturazione del testo, solo un avanzamento che procede a passi lenti, ma assolutamente ben definiti. In realtà, per tutto il corso del film, proprio la narrazione, lasciata ai minimi termini (si direbbe aderente ai ritmi campagnoli), ma mai sfilacciata, contribuisce a rendere più plateale, più grandioso e più ingiustificato questo invito alle armi con delitto. L'altra la faccia, una possibile, di questa coppia sballata si rivela nella sua tragica sete di vendetta. Uno sfogo, quello di Jeanne e Sophie, nato dal niente, ma scoppiato da quella zona oscura dell'inconscio che sola può capovolgere le regole di ogni agire razionale. Istinto, puro istinto, che ha tuttavia un'inconsapevole valenza rivoluzionaria. Del resto, è con la forza della ragione che si iniziano tutte le battaglie. Il curioso, però, di questa guerra e di questa storia è che non risolve di fatto nulla e non svela nessun significato: il cerchio esistenziale, paradossalmente, non si chiude, se non in una soluzione tecnica (il fatto che poi il delitto venga scoperto grazie al registratore che era acceso e ha conservato tutti i dialoghi) che legalmente rende giustizia e si limita a stendere un velo pietoso su questo dramma della beffa.
E comunque, anche in questo caso, per Chabrol si tratta sempre di un affare di donne: la sua cinematografia è piena di visi femminili inquieti, ansimanti, devastati da scenari interiori sgretolati e alla deriva, vedi la sperduta Betty, l'indiavolata protagonista dell'Inferno, la stessa sfortunata Madame Bovary. Tutte donne "mortali", profondamente tristi e insoddisfatte, lontane da qualsiasi orizzonte solare. Disperse nelle nebbie del sé e senza la speranza di trovare alla fine una salvezza. Come le decadenti Thelma e Louise di Ridley Scott, anche queste due non potranno farla franca, perché è già deciso, in loro, un destino tragico, ineluttabile. Ogni battaglia femminile racchiude per Chabrol un'essenza cimiteriale che fa di ogni sua donna un agnello sacrificale che prima o poi verrà scannato. La donna, il cuore di ogni vicenda umana, il punto di partenza per qualsiasi viaggio nella vita terrena, la generatrice per eccellenza di ogni circolo vitale, che Chabrol ha sempre deriso e contestato, è così il corpo simbolico dentro al quale partorire la distruzione dell'esistente. Ed è proprio la donna, in quest'ultimo film di Chabrol, che decreta la fine di un'istituzione che ha lei stessa creato. Un film durissimo, questo La cérémonie, che si serve di uno spunto espressivo quasi surreale per fare a pezzettoni uno dei cardini politici della società.
Elena Martelli, Cineforum n.349, 11/1995 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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