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Tragedia di un uomo ridicolo (La)


Regia:Bertolucci Bernardo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci; fotografia: Carlo Di Palma; montaggio: Gabriella Cristiani; musica: Ennio Moncone; interpreti: Ugo Tognazzi (Primo), Anouk Aimée (Barbara), Laura Morante (Laura), Victor Cavallo (Adelfo), Olimpia Carlisi (la veggente), Vittorio Caprioli (il comandante dei carabinieri), Renato Salvatori (il colonnello), Riccardo Tognazzi (Giovanni); produzione: Giovanni Bertolucci per Fiction, Cinematografica spa; distribuzione: P.I.C.; origine: Italia, 1981; durata: 115'.

Trama:
Primo Spaggiari, industriale caseario della Bassa Padana, si chiede, per il riscatto del figlio sequestrato da un gruppo di terroristi, un miliardo; quando il figlio viene dato per morto, Spaggiari escogita un piano truffaldino e utopistico per salvare il caseificio sull'orlo del fallimento.

Critica (1):La tragedia di un uomo ridicolo, la cui presentazione all'ultimo festival di Cannes è valsa al protagonista, Ugo Tognazzi, il palmarès per la miglior interpretazione, è un film sull'Italia dei nostri giorni, "scritto di notte", partecipe e in qualche modo complice dei misteri che sovrastano l'odierno vivere sociale. La partecipazione, in qualche modo morbosa, nasce dallo spiazzamento dell'intellettuale. La complicità deriva dall'impotenza delle contraddizioni irrisolte, uno stato di incertezze consequenziale all'orrida fascinazione della contaminazione eversiva.
Di tutto ciò è chiaramente protagonista Primo Spaggiari, un ex contadino dell'Emilia rossa e prosperosa passato con gli anni alla direzione di una solida industria casearia. Un-uomo-che-si-è-fatto-da-sé, come si usa dire, partigiano negli anni del Dovere, pacioso dongiovanni ma anche instancabile lavoratore in quelli del Diritto. La compagna francese, che ha al fianco, è il segno sin troppo evidente del parvenu; un po' come quel castello del formaggio che è la sua sontuosa dimora, appollaiata fra le colline del parmense, ultimo baluardo dell'accumulazione nell'era del risparmio inesistente. Se vota comunista (e non è improbabile), lo fa per fede nella tradizione: questo per dire che l'uomo non è senza morale, solo che i suoi valori - raggruppati intorno al piccolo impero dell'azienda - risalgono all'era dei pionieri che da un pezzo ha fatto il suo tempo. Ridicolo è Primo Spaggiari quando dalla torretta del caseificio scruta col binocolo la sua compagna: un'idea di potenza dileggiata dal sequestro del figlio, che ha luogo sotto i suoi occhi non lontano dalla fattoria. Per riaverlo indietro gli si pone il problema di vendere l'industria, ossia, di rinunciare di colpo a ciò che ha rappresentato e rappresenta la sua ragione d'essere. Quando poi, avvicinati gli amici del figlio rapito (la fidanzata e uno strano prete operaio), scopre che questi potrebbe già essere stato ucciso, ha una reazione vitalistica e spregiudicata: finge di ignorare la notizia per giustificare la raccolta di un riscatto che andrà ad incrementare i capitali della azienda resa pericolante, prima ancora che dal sequestro, dall'incalzare della crisi del settore. Un piano sgradevole, cinico e tuttavia inconfessabilmente positivo nella autenticità materialistica del suo essere nell'economia della continuità: una scelta pagana, se vogliamo, che ha del tribale, ma se il rito del lutto porta con sé l'idea del peccato, la truffa congegnata da Primo Spaggiari è la risposta del pragmatismo vitalistico all'ineluttabilità della morte. La vita continua in questa terra che Spaggiari conta di concimare col corpo del figlio. La grandezza del film è certamente, come da più parti si è osservato, nella statura interpretativa di Tognazzi, che di questa filosofia si fa portatore sofferto e stoico, tanto da indurre lo spettatore ad una sorta di sospensione del giudizio nei suoi confronti. Fosse il suo gesto dovuto alla sola bramosia di denaro e potere non si potrebbe che emettere la condanna morale. Ma si avverte nel suo comportamento, nella lucidità dei suoi trasalimenti, ciò che di trasgressivo e insieme razionale tocca da vicino la nostra esperienza quotidiana. Ed è qui che il film, più che nella fenomenica del sequestro o nei risvolti terroristici cui accenna (il prete operaio che forse fa parte dell'organizzazione, il figlio che potrebbe aver architettato lui stesso il rapimento, ecc.), si sintonizza con la realtà italiana di oggi: nello smarrimento dei valori cui non c'è tesi che si possa contrapporre, nell'incertezza delle risposte, in quello strano ribaltamento dei codici al quale l'insorgere dei fenomeni disgretativi ci ha abituati. In una simile realtà sociale non c'è più posto per l'epica e per le agnizioni (il ceffone finale del padre al figlio in La luna poteva solo suggellare un melodramma d'altri tempi realizzato nell'era del riflusso). Il bene e il male si confondono ed è difficile stabilirne i contorni, arduo sputare sentenze.
Roberto Ellero, Cinema Sessanta n. 143 gennaiofebbraio 1982

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Critica (3):

Critica (4):
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