Male oscuro (Il)
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Regia: | Monicelli Mario |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto; sceneggiatura: Suso Cecchi D Amico, Tonino Guerra; fotografia: Carlo Tafani; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia: Franco Velchi; costumi: Lia Morandinii; interpreti: Giancarlo Giannini (Giuseppe Marchi), Emmanuelle Seigner (la ragazzetta), Stefania Sandrelli (Silvaine), Vittorio Caprioli (lo psicanalista), Nestor Garay (il padre ), Antonello Fassari (Corsini), Elisa Mainardi (signora quarantenne, analista); produzione: Gianni Di Clemente, per Clemi Cinematografica; distribuzione: Artisti Associati; origine: Italia, 1990, durata: 110'. |
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Trama: | Giuseppe Marchi, giunto alle soglie della mezza età, malato di nevrosi, è in cura dal suo psicanalista il quale trova che le origini del suo malessere siano nell'infanzia. Dopo aver lasciato la vedova francese Sylvaine, mette incinta e quindi sposa una ragazza molto più giovane di lui. Professionalmente insoddisfatto per il suo blocco nello scrivere romanzi, lui scrive sceneggiature, Marchi soffre di dolori ignoti e laceranti, si fa operare per un'ulcera e un'appendicite inesistenti e tenta invano il suicidio... |
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Critica (1): | Mentre il cinema italiano piange sul suo 22% scarso di incassi stagionali e da ogni parte si invoca il 'rinnovamento' (parola estremamente impegnativa se non rimanesse generica e astratta), il settantacinquenne Monicelli propone la sua lezione di professionalità e coerenza per giustificare l'operazione, che può anche apparire rétro, di recuperare un romanzo che fece epoca 25 anni fa, occorre tener presente che la fedeltà del regista ai suoi progetti, la perseveranza nel realizzarli sono tra le costanti del suo 'antico' mestiere. Passato nelle mani di vari produttori "che leggono poco" prima di arrivare a quelle più generose di Di Clemente, Il male oscuro è nelle sale, a un anno dall'inizio delle riprese. D'altronde, il personaggio che prende corpo nel non romanzo di Berto appartiene quasi di diritto alla filmografia monicelliana: un uomo di modeste qualità e di confuse ambizioni, dominato da un'ossessione, eterno perdente. Monicelli (collaborano con lui validamente gli sceneggiatori Tonino Guerra e Suso Cecchi D'Amico) non ricorre ad astruse sperimentazioni per mettere in scena le 500 pagine di monologo dello scrittore veneto. Lapalissianamente, estrapola dal personaggio di Giuseppe quella componente di disagio e conflittualità che meglio si presta ad essere 'illustrata' dall'iconografia del quotidiano che è patrimonio tradizonale della commedia italiana.
In apertura del film, un flash-forward mostra Giuseppe nello studio dello psicanalista, incerto se togliersi o meno le scarpe prima di sdraiarsi sul lettino. L'atteggiamento ironico nei confronti della psicanalisi si estende all'oggetto stesso dell'indagine, l'antagonismo mai risolto con la figura paterna, focolaio della malattia di vivere di Giuseppe. "Mi dia un'immagine di suo padre" gli chiede a un certo punto il dottore. Il Flash-back mostra il bambino che sorprende il genitore, nudo e gigantesco, nell'atto di uscire dalla vasca da bagno. L'irrisione (qui, come nella scena in cui la madre e le sorelle, intorno al letto di morte del padre, gli rimproverano di dividere in albergo una camera matrimoniale con la fidanzata) non esclude l'insinuarsi di un senso profondo di disarmonia che, a partire da quel conflitto primario, si estende come un contagio intorno a Giuseppe e lo rende incompatibile anche con se stesso. E proprio questo continuo urtare di Giuseppe contro la positività la chiave di traduzione del soliloquio letterario in realismo cinematografico. Speriamo che sia comico. È forse ciò che pensa il pubblico, incerto e un po' perplesso davanti alla faccia poco rassicurante del Giannini nuova maniera, così sofferto, così diverso da come "mamma" Wertmüller lo fece negli anni d'oro della sua carriera. La comicità monicelliana, percorsa da una vena di fatalismo e adombrata dal senso di sconfitta, ha spesso segnato una svolta nel curriculum degli attori: ora portandone a galla l'inatteso estro brillante (è il caso di Gassman, Vitti, Depardieu) ora, come nel caso del Totò "neorealista" o del Sordi 'borghese piccolo piccolo' sterzando bruscamente sul tragico. Qui Giannini, equidistante dagli irsuti uomini del sud della commedia anni 70 e dal cupo e dannato Tullio Hermil di L'innocente, riprende piuttosto il Guido Massaccesi di Viaggio con Anita.
Figlio di modesta famiglia che ha potuto 'studiare' senza peraltro raggiungere nessun brillante risultato, costretto a un ritorno a casa in occasione della morte del padre, in collisione con l'universo femminile, Giuseppe è un vecchio di 45 anni. Le ossessioni sessuali (che connotano del resto quasi tutti i personaggi interpretati dall'attore) si smorzano in un malinconico senso di impotenza davanti a quella che si presenta come forza maggiore. Le due donne che scelgono Giuseppe ("la vedova" e la ragazzetta del libro) sono i due volti complementari di una femminilità in positivo da contrapporre alle donne in nero di famiglia che puntano il dito in segno di condanna. Entrambe volute e negate, si prodigano inutilmente, una con le cure materne, l'altra con la seduzione immediata, volta senza mezzi termini a costruire (il corpo, la famiglia, la casa) per distrarre Giuseppe dalla sua smania autolesionista. Il gioco delle coppie segue le direttive tradizionali della commedia: la vedova si sistema con un medico in grado di fornirle le necessarie sicurezze e la moglie trascurata si butterà tra le braccia di un giovane amante confessando la verità al marito soltanto al momento della rottura definitiva. La virilità è sconfitta, le donne non servono a nulla e sono finiti i tempi in cui intorno al sesso si facevano delle grandi risate. Tutta la comicità basata sull'irragiungibile oggetto del desiderio (vedi Lino Banfi) mostra qui il suo rovescio: l'inutilità del possesso.
L'intreccio sentimentale, giochetto 'da donne' cui Monicelli (forse disturbato dagli eccessivi elogi 'femministi' al suo Speriamo che sia femmina) non risparmia i dovuti sarcasmi, è in fondo poco più di una cornice decorativa, cui danno il giusto contrappunto Stefania Sandrellí in versione sedata e matronale ed Emanuelle Seigner, più atletica che mai dopo le già notevoli prestazioni di Frantic. Così il sontuoso studio dello psicanalista, l'appartamento borghese 'messo su' dopo il matrimonio, la clinica di lusso scelta dalla moglie per il parto, a meno dell'Alpe di Siusi: la bellezza, la purezza, la solidità si rivoltano sistematicamente contro Giuseppe.
Personaggio sveviano nella fragilità dei rapporti e delle attese, concentra tutte le proprie forze nella ricerca di un'alibi per quel foglio con l'intestazione "Capitolo primo" che rimane perennemente bianco. E proprio questa candida paginetta, innocente e fondamentale come l'ultima sigaretta di Zeno Cosini, a scatenare l'azione propriamente detta del film, che vede Giannini mattatore assoluto e solitario. Dalla lotta con gli oggetti quotidiani (l'automobile, il citofono, ma soprattutto la macchina da scrivere che arriva al punto di cortocircuitare con la lampada da tavolo proprio nel momento più 'creativo') agli attacchi ipocondriaci che hanno il clou nell'intervento chirurgico non motivato (operazione cui già si sottopose un altro personaggio monicelliano, l' Alberto Sordi di Un eroe dei nostri tempi: per il personaggio di Giuseppe l'attore ha costruito una nevrosi gestuale trattenuta e malinconica per abbandonare volutamente il controllo sulla mimica solo negli spasmi acuti della sofferenza fisica, vera o immaginaria che sia. Con la saggezza che gli viene dall'età e dalle oltre 60 storie che si è lasciato alle spalle, Monicelli concede a questo suo infelice eroe la salvezza dell'alibi definitivo: la fuga nel sogno. La divagazione onirica, usata spesso nella commedia (Totò e i re di Roma) come deus ex machina, ha qui un significato più profondo: è il cinema, vivo o morto, (la terra in qui Giuseppe si rifugia gli è stata regalata dal produttore in bancarotta a saldo dell'odiato lavoro di sceneggiatore) che fa bella la vita.
Adelina Preziosi, Segno cinema n. 44, luglio 1990 |
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