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Andrei Roublev - Andrei Roublev


Regia:Tarkovskij Andrei

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Andrei Mikhalkov- Konchalovsky, Andrei Tarkovskij; fotografia (scope e parte in colore): Vadim Yusov; montaggio: Andrei Tarkovskij ; scenografia: Yevgeni Tcherniaiev; musica: Vyacheslav Ovchinnikov; interpreti: Anatol Solonitsin (Andrei Roublev), Ivan Lapikov (Kilrill), Nikolai Grinko (Nicola il Nero), Nikolai Sergeyev (Teofane il greco), Nikolai Burlyayev (Boriska), Rolan Bykov (buffone), Irma Rausc (la ragazza sordomuta), Yuri Nazarov (Granduca), Mikhail Konov (Fomaka), Yiuri Nikulin (Patrikey), Volody Titov; produzione: Mosfilm; origine: Urss, 1969; durata: 140'.

Trama:In una Russia messa a ferro e fuoco dalle invasioni asiatiche e sconvolta dalle lotte di potere tra piccoli potentati, il monaco Rublev (1360 ca.-1430), pittore di icone, passa attraverso 9 capitoli (Il volo, Il buffone, Teofane il Greco, La passione secondo Andrej, La festa, Il giudizio universale, La scorreria, Il silenzio, La campana) che compongono un vasto affresco del Medioevo russo.

Critica (1):I film che è obbligatorio vedere non sono poi molti. Questo lo è. Dura oltre tre ore, non vi è nessun attore di grande fama, è in bianco e nero, manca, di scene lubriche: ma è, semplicemente, uno dei capolavori del cinema degli anni Sessanta, e una delle più alte esperienze emotive offerte da un regista che insieme a pochi altri merita il titolo di maestro. È anche, se lo scandalo politico vi pungola, un film "maledetto", che in patria è stato a lungo osteggiato, al punto che, finito nel '67 dopo una lunga incubazione, e tagliuzzato qua e là dall'autore dopo una testarda resistenza, soltanto nel '69 fu presentato molto di malavoglia al Festival di Cannes, e poi ebbe anche all'esterno vita così difficile (pochi in Urss l'hanno visto) da impiegare otto anni prima di giungere sui nostri schermi.
Tutto perché ai nevrotici censori neostalinisti sembrò che Andrei Tarkovskij (già vincitore d'un "Leone d'oro" con L'infanzia di Ivan), rievocando il sanguinoso Trecento in cui i russi furono straziati dai tartari e visse il grande pittore che dà il titolo al film, accentuasse i toni crudi, eccedesse nel realismo, esaltasse il misticismo, non rispettasse tutta la verità storica, persino offendesse le donne russe, e finalmente alludesse con troppa indipendenza di giudizio ai rapporti fra l'arte e il potere. Accuse dettate da vergognosa miopia culturale, la grandezza del film venendo a smentirne il fondamento, ma che ebbero strascichi lunghi, sicché da allora Tarkovskij, di cui ogni libero paese sarebbe orgoglioso, è guardato con sospetto dai burocrati del regime. E nuova prova se n'ebbe questa estate, quando l'ultimo suo film, il mirabile Lo specchio non fu presentato in concorso al Festival di Mosca e il consenso che riscosse fra i critici occidentali che ciò nonostante poterono vederlo fu interpretato come un premio all'irrequietezza ideologica del suo autore. Pagine violente, certamente, in Andrei Roublev esistono, ma soltanto gli ottusi che pensano di poter escludere la violenza della rappresentazione della storia possono lamentarsene e invocare le forbici. Gli anni in cui il film è ambientato furono di massacri, torture e devastazioni e proprio nella reazione a quegli orrori sta il senso dell'opera di Tarkovskij, il regista di oggi in cui si reincarna il sommo pittore di ieri, l'uno e l'altro sconvolti dal male che percorre l'universo. Riesumando la figura di Roublev, l'allievo di Romm e il suo co-sceneggiatore Konchalovsky (l'autore del Primo Maestro, un altro caposaldo del nuovo cinema sovietico) non sembrano del resto aver preso di petto, sia pure con la finzione del film in costume, uno dei problemi centrali della vita intellettuale sovietica. I rapporti fra l'artista e la Chiesa e lo Stato sono qui assunti come un momento dialettico di tutta la storia russa nel quadro di una molto più vista riflessione sui tormenti dell'uomo e il progresso delle idee. Erede d'una tradizione letteraria che pensa e vede in grande, Tarkovskij crea soprattutto un affresco, da leggersi a vari livelli e tenuto insieme da un profondo sentimento del tragico. Con tre temi di fondo: il rifiuto di una religione e d'una ideologia intese come intimidazione, la nausea provocata dalla bestialità delle stragi compiute per conservare il potere, la consolante certezza che ove la scintilla del genio individuale sia alimentata dall'entusiasmo delle moltitudini la gioia della creazione ripiega d'ogni angoscia. Roublev visse all'incirca fra il 1360 e il 1430. Contemporaneo del Beato Angelico anch'egli fu monaco, e vide tempi insiemi sublimi e feroci. Appunto su questi registri, delle crudeltà e audacia degli uomini, delle speranza di Dio e del contrasto fra l'autonomia dell'artista e l'opera repressiva dei potenti, il film lentamente si snoda in una grandiosa allegoria articolata in episodi, dove a masse confuse il popolo, il più delle volte vittime delle ambizioni dei signori, e ai supplizi imposti dai mongoli, si contrappone l'assillante interrogarsi di Roublev sul perché delle sofferenze e sull'utilità di continuare a dipingere in lode di Dio, nelle forme tradizionali dell'arte bizantina, quando anche l'artista è stato travolto dalla violenza. Nel film s'immagina che all'indomani d'uno scontro cruento all'interno della chiesa che stava affrescando, bruciato del rimorso, convinto di non aver più nulla da dire con la pittura e persuaso da Teofane il Greco della miseria degli uomini, Roublev abbia smesso di dipingere e si sia chiuso nel silenzio dei convento di Andronikov. Ma quindici anni dopo qualcosa lo riportò nel mondo. Fu quando assistette alla fusione d'una grande campana, realizzata insieme al popolo da un giovane cui nessuno aveva insegnato quell'arte con gli stessi strumenti, l'argilla e l'argento, in cui vide simbolicamente condensato il destino dell'uomo. Questo, pensano Roublev e Tarkovskij è il debito dell'invenzione, un rifugio alla speranza. È questo il traguardo: un abbraccio soave fra natura e poesia che superi il dolore del tempo. Perciò il film aprendosi esaltando l'utopia racchiusa nel volo impossibile di un pallone, si chiude sulle immagini delle bellissima Trinità di Roublev e di alcuni cavalli lungo il fiume. Arte e varietà si fondono, e la realtà assume i colori sereni della vita.
L'ottimismo dell'epilogo non incrina tutto l'impalco problematico del film, scenario dolente d'un'epoca in cui la Russia già seppe reggere la minaccia dell'Asia, e compendio delle contraddizioni permanenti dell'uomo, veicolo misterioso della storia. Al di là del suo atto di fede, che tenta il connubio fra la virtù del socialismo e i meriti dell'individuo, Tarkovskij infatti rivela il meglio del suo talento in una rappresentazione del dramma di Roublev e dell'epopea popolare foltissima di elementi elegiaci e sempre animata dal dubbio, espressa con uno stile che nel sottofondo di tutte le scene, anche le più realistiche, fa vibrare come una corda di inquietante magia impenetrabile alla ragione. Il velo liturgico che fascia le immagini e il ritmo solenne conferiscono alla composizione una maestà classica, ma nonne allentano i molteplici stimoli critici: Andrei Roublev architettato nel severo rispetto del realismo lirico e nell'amore per il popolo russo, è per questo verso opera modernissima, tessuta in quell'ambiguo sottosuolo della memoria e dell'inconscio che Tarkovskij, lontano da sempre dal realismo socialista, avrebbe frugato più tardi con Solaris e, toccando i vertici dello spasimo, con Lo Specchio. Gli strumenti formali del film sono d'altissima scuola, ma non tutti derivati da Eisenstein e da Dovzenko: non a caso Tarkovskij dichiara la sua ammirazione per Bresson. La verità dei grigi fotografici, la plastica eleganza figurativa e i così ricchi riferimenti alla storia della pittura (dal vecchio Brueghel a Piero...), la suggestività del commento musicale, l'intensità dell'interpretazione - lo ieratico Solonitsin viene dal teatro Irma Rauch è la moglie del regista - il dominio delle scene di massa e l'intensità con cui è detta la solitudine affilata del protagonista, l'incanto dei personaggi naturali sono tutti elementi che sbaragliando i pochi difetti, qualche vezzo calligrafico, qualche indugio descrittivo, concorrono al trionfo dell'opera: uno degli esempi più raggiunti di come il cinema calando l'inspirazione artistica in una struttura polifonica a ritmo largo, possa riassumere la plenitudine della vita in uno spettacolo saldamente radicato nella tradizione culturale russa e da proiettare nell'universale.
Giovanni Grazzini, Gli anni settanta in cento film, Laterza, 1978

Critica (2):(...) Tarkovskij costruisce il suo film per blocchi a sè stanti, che egli dice "racconti", tutti di distesa narrazione. Anche la concitazione delle esplosioni di storia-orrore, anche la visualizzazione delle ispirazioni e riflessioni poetiche, anche la tensione della costruzione popolare nel più bello dei racconti, hanno tono disteso largo, per piani-sequenza di ampiezza dov'zenkiana. In una Russia che non riesce a abbandonare il suo medioevo e a decollare, magistralmente introdotta dallo sforzo fallimentare del volo, e che ha il costante e superiore, astuto nemico tartaro a guatarne e stroncarne ogni possibile sviluppo, Rùblëv fida in un rinascimento a venire, in contrasto con la lezione di Teofane e del suo convento. Rinascimento posto sotto il segno del cristianesimo e nella fiducia di un potere illuminato. Egli già afferma una dimensione religiosa che non neghi l'uomo e la natura (si pensi all'episodio della notturna festa pagana e contadina, concisa da una donna-natura che riesce a sfuggire nel fiume e nel bosco per rimandarsi a un futuro diverso) e rifiuta la fissità mistica e terribile del Dio bizantino. Ma sarà la partecipazione di spettatore annichilito dall'atrocità della Storia e poi dalla corruzione del Potere, chè il nemico non è più solo il Tartaro, ma il Potere in sè, anche russo, a chiuderlo nel silenzio e nel rifiuto della consolazione di un'arte e di una religione che non potrebbero avere altro significato che sublimante, sostanzialmente repressivo, di negazione dell'umano.
La fiducia egli la riconquista attraverso il contadino artigiano Boriskam reinventore di un'arte pratica e comunitaria (la campana), in una funzione di socialità della sua stessa arte, della sua stessa religiosità. Ma in contrapposizione netta al Potere e alla sua logica nemica dell'umano. Uomo e Natura sono al centro di ogni sequenza che poggia risolutamente su una terra umida e fremente, malta umorale con la quale costruire ma di per sè inagente senza l'uomo che la usi e la plasmi.
Ogni sequenza conclude sulla terra e rifiuta lo spazio di un cielo lontano e astratto. E la terra è percorsa dai cavalli della vita (come nell'ultima e ancora umida sequenza conclusiva, riassuntiva e utopicamente placata ma in una costanza di movimento e di crescita), da un popolo sofferente ma mosso e attivo in perenne ricominciamento dopo ogni strage e batosta. E infine da donne, che la natura incarnano e esemplificano nella strage del sabba contadino, cioè nella muta conquistata dal barbaro come - con più sottile e solenne immagine - nella donna che osserva da lontano con un lieve sorriso la costruzione della campana, il pianto di Boriska, l'abbraccio di Andrej, a mostrare una russa fioritura e pienezza possibili.
L'era di Breznev è certo un'era poeticamente squallida, di apologeti più o meno mediocri e di dissenzienti più o meno cupi e isolati. E' per questo che tanto più miracoloso appare il risultato del Rublëv col suo sincero, vecchio e nuovo richiamo alla centralità dell'uomo e del suo riscatto. La creatività del popolo che plasma pazientemente e a tratti violentemente dalla melma le sue campane di speranza è certo non più che un'immagine poetica, anche se suggestiva, anche se formidabile. Ma Tarkovskij è tra i pochi a affermarla, fino a inserirla in una prospettiva non solo positiva, ma probabilmente (con sua coscienza e quanta qui non ci riguarda) anche la riflessione su una strategia per portare il dissenso dalla sua minorità e confusione attuale a una chiarificazione e a uno sviluppo futuri. In attesa di quella "rianimazione di una classe operaia composta oggi di alcune decine di milioni di lavoratori dotati di un grado di istruzione elevato e del suo ricollegamento col movimento operaio e contadino del mondo" (L. Foa), che però è ancora di là da venire e che, noi crediamo, può essere annunciata da alcuni aspetti del dissenso, anche se così alla lontana da portarci magari, irrazionalmente anche noi, alla condanna o a atteggiamenti di facile superiorità nei confronti del fenomeno quale oggi si realizza con la sua confusione o anche con la sua pochezza intellettuale e politica, ma che è, volere o no, il solo preannuncio e la sola speranza di rottura di un ordine congelante di oppressione del proletariato, il solo esistente "specchio di un bisogno di rivoluzione" che sta forse maturando e che può e deve maturare in URS S.
Goffredo Fofi, Quaderni Piacentini n.58-59.

Critica (3):

Critica (4):
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