Villa (La)
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Regia: | Guédiguian Robert |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Robert Guédiguian, Serge Valletti; fotografia: Pierre Milon; montaggio: Bernard Sasia; scenografia: Michel Vandestien; costumi: Anne-Marie Giacalone; interpreti: Ariane Ascaride (Angèle), Jean-Pierre Darroussin (Joseph), Gérard Meylan (Armand, Anaïs Demoustier (Bérangère), Robinson Stévenin (Benjamin), Jacques Boudet (Martin), Yann Trégouët (Yvan), Geneviève Mnich (Suzanne), Fred Ulysse (Maurice), Diouc Koma (militare); produzione: Robert Guediguian, Marc Bordure per Agat Films & Cie/Ex Nihilo, in coproduzione con France 3 Cinéma; distribuzione: Parthénos; origine: Francia, 2016; durata: 107’. |
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Trama: | In una piccola baia nei pressi di Marsiglia si trova una villa pittoresca di proprietà di un vecchio signore. I tre figli si sono riuniti per stare al suo fianco durante i suoi ultimi giorni di vita. Angèle è un'attrice che vive a Parigi, Joseph si è da poco innamorato di una ragazza che ha la metà dei suoi anni e Armand è l'unico ad essere rimasto a Marsiglia per gestire il piccolo ristorante di famiglia. Per loro è giunto il momento di prendere in esame gli ideali che il padre ha tentato di trasmettere loro e lo spirito comunitario che aleggia in questo posto magico. L'arrivo di un gruppo di profughi in barca, in una costa nelle vicinanze, getterà questi momenti di riflessione nello scompiglio. |
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Critica (1): | I luoghi, nel cinema di Guédiguian, non sono mai palcoscenici anonimi, paesaggi astratti in cui inscenare storie esemplari. I suoi personaggi sono profondamente radicati nella città e nel quartiere, nella storia che li precede e nel presente contro cui combattono, nella famiglia, la società, la classe sociale. Eppure, allo stesso tempo, questo radicamento realistico, a volte naturalistico, assume sempre un carattere universale, si fa simbolo, testimonianza, dichiarazione ideale, l'aneddoto è sempre etico e politico. In questo duplice carattere viene esaltato fino all'estremo, il limite (proibito) della riflessione su di sé e sul proprio cinema, con tanto di auto-citazione (Ki lo sa?). Ma con una grazia e un'intelligenza che rendono questo piccolo film inverosimile, una delle cose più vere e oneste viste a Venezia quest'anno.
Tutto è concentrato in un angolo di Francia, una porzione di costa dalle parti di Marsiglia, talmente minuscola da sembrare un carcere (anche se è un paradiso). La villa è il luogo del passato, della gioventù, dell'utopia. Dove il padre-patriarca ha immaginato un modo diverso di essere comunità. Ma lui ora è ridotto allo stato vegetale, e i figli convergono al suo capezzale, a fare i conti con il passato, e quindi a confrontarsi con il presente, in tutte le sue forme: una giovane amante ormai stanca del vecchio intellettuale comunista sarcastico e amaro; un giovane spasimante appassionato di teatro che ha vissuto dentro un sogno d'amore; due anziani disillusi ma fieri, terribilmente lucidi, pronti a togliere il disturbo; tre piccoli immigrati, in fuga dalla miseria e dalla polizia.
L’ “attualità” - l'incrocio pericoloso tra il teatro senza tempo dei sentimenti feriti, delle tragedie irreparabili, delle colpe mai perdonate, e la concretezza di una questione epocale come quella dei migranti – è il banco di prova del film: poteva essere un'intrusione semplicistica e artificiosa, e invece ne sancisce il trionfo morale, la delicatezza senza timidezze, la bellezza dei fragili equilibri estetici, l'urgenza del suo umanesimo appassionato.
«Era meglio prima». Con tutte le sue illusione (ideali), con i suoi drammi (umani), con la sua giovinezza (dei corpi, del mondo, delle idee, del cinema). Era meglio quando il ristorante di papà offriva pranzi sontuosi a prezzi popolari. Quando la gente sentiva di far parte di una comunità. Quando si poteva credere nel futuro, nonostante un presente drammatico. Ma La Villa non è il film-lamento di un vecchio nostalgico che ci rifila la sua prosopopea pessimista. Guédiguian arriva alla villa carico di amarezza e disillusione, ma ne esce con un libro da scrivere (una testimonianza da tramandare), con un nuovo amore naif e appassionato, con l'incontro magico fra tre anziani fratelli consumati dalla vita e tre fratellini che hanno appena cominciato a vivere. Prima era meglio, ma l'oggi, volendo, potrebbe essere migliore. Figuriamoci il futuro, quello che spetta agli altri vivere.
Fabrizio Tassi, Cineforum n. 568, 10/2017 |
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Critica (2): | (…)
Con La Villa Guédiguian fa il punto, torna ai suoi temi, alla sua gente, ai suoi luoghi e alla sua luce. Lo fa con nostalgia, che è una costante del suo cinema, ma senza paternalismi, senza retorica a buon mercato e costruendo un’opera tenace e rigorosa. Capace di sintetizzare con grande intelligenza il cinema privato di cui si diceva con uno sguardo politico centrato sul presente, per nulla passatista o malinconico.
C’è la piccola comunità in cui le persone vivono in armonia le une con le altre come in Marius e Jeannette (1997) (il film è girato tutto nel borghetto del calanco di Méjean, poco fuori Marsiglia), c’è la disillusione nei confronti del presente di Lady Jane (2008), c’è il pessimismo di La ville est tranquille (2001) e il senso inclusivo della famiglia del già citato Le nevi del Kilimangiaro e poi ci sono loro: Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jean-Pierre Darroussin, volti corpi e anime dei film di Guédiguian. Questa volta è la storia di una famiglia: gli attori principali sono tre fratelli – divisi dalla vita – che fanno ritorno alla casa in cui sono cresciuti (la Villa del titolo) per prendersi cura dell’anziano padre, costretto a letto in uno stato di quasi totale incoscienza dopo essere stato colpito da un ictus. È l’occasione per chiarire le antiche ruggini, fare i conti col passato e provare a comprendere sbagli, fallimenti e illusioni che hanno contraddistinto i rapporti fra loro, il padre e gli altri membri della comunità che hanno scelto di rimanere. Il tutto mentre sulla costa vicino a Marsiglia naufragano le imbarcazioni dei migranti in fuga dalla guerra.
Se è vero – come diceva Truffaut – che ogni regista gira sempre lo stesso film, per Guédiguian la cosa è ancora più vera. E non perché le trame dei suoi film si somiglino o perché attori e ambientazione siano quasi sempre le stesse. Ma perché dentro l’intimità del suo cinema è racchiusa una visione del mondo che in tanti anni non è mai cambiata. L’onestà dello sguardo, – in un regista che assomiglia come pochi altri al cinema che fa – non ha mai mutato la prospettiva e il punto di vista sulle cose. La dimensione politica, in La Villa, ha lo stesso rigore dei primissimi film del regista e nonostante questo non appare per nulla superata. Il personaggio di Darroussin – che nasce benestante, ha fatto l’operaio ai tempi delle lotte sociali fino a diventare dirigente – pessimista, cinico e disilluso si offende ancora quando lo chiamano borghese. Mentre il fratello che ora, invecchiando, non dice più come una volta “i sentieri dei contrabbandieri” ma dei “doganieri” non è tuttavia cambiato di una virgola. Entrambi, che sistemando le mulattiere che risalgono le scogliere vicino al mare, “ristrutturano” anche il loro rapporto, sanno esattamente – e subito – qual è la cosa giusta da fare quando incontrano i tre fratellini scampati al naufragio del loro barcone in rotta dall’Africa attraverso il Mediterraneo.
E forse sta proprio in questo senso della giustezza, nella misura cosciente, morale e equa – che Guédiguian chiama ancora, ostinatamente, comunismo – il senso del film.
Guédiguian non pone i suoi personaggi contro gli eventi, non chiede loro di cambiare le cose. Ma li spinge ad assumere una consapevolezza. Semplicemente di accettare; accettare la morte di una figlia, la fine di una relazione o perfino la malattia del padre e il lento disgregarsi della comunità. Un’accettazione che non è però sinonimo di rassegnazione. Il regista ce lo dice molto bene che le cose cambieranno in peggio (gli speculatori che trasformeranno il borgo in una località turistica, l’esercito che probabilmente troverà i bambini e li metterà in orfanotrofio) e ce lo dice soffermadosi a descrivere la morte. Ma non una morte letterale – in fondo anche quella dei due vicini di casa che si suicidano insieme, sembra surreale, quasi fiabesca – ma la morte che sta intorno a tutto quanto, che pervade ogni immagine, ogni luogo, ogni raggio di luce. E cos’è se non un’immagine di morte quella breve sequenza dei tre protagonisti giovani, presa da un estratto di Ki lo sa (1985), in cui vitali, spensierati e dissennati scappano da Marsiglia in un assolato pomeriggio estivo per andare a tuffarsi fra i moli dei calanchi della costa? Un’immagine che sa di morte perché parla di un passato che esiste per davvero (quale altro regista può permettersi una tale intensità emotiva semplicemente utilizzando materiale di un suo film di trent’anni prima?) e perché parla di un’estate di mille anni fa che sembra essersi arrestata allora e non poter tornare più. Come non può tornare tutto il resto, anche se non siamo d’accordo.
A proposito: La Villa è girato tutto d’inverno. E forse basta la luce obliqua dell’inverno a fare del film l’oggetto misterioso, malinconico e profondo che è. Più di tutto il resto.
Lorenzo Rossi, cineforum.it, 3/9/2017 |
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