Nobildonna e il duca (La) - Anglaise et le Duc (L’)
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Regia: | Rohmer Eric |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Eric Rohmer dalle memorie "Journal of my life during the French Revolution" di Grace Elliott; fotografia: Diane Baratier; montaggio: Mary Stephen; scenografia: Jean-Baptiste Marot, Antoine Fontaine; costumi: Pierre-Jean Larroque; interpreti: Lucy Russell (Grace Elliott), Jean-Claude Dreyfus (Il duca d’Orléans), François Marthouret (Dumorier), Léonard Cobiant (Champcenetz), Caroline Morin (Nanon), Alain Libol (Duca di Biron), Héléna Dubiel (Madame Meyler), Marie Rivière (Madame Laurent), François Marie Banier (Robespierre); prodotto da: Françoise Etchegaray per Compagnie Eric Rohmer, Pathé Image e con France 3 Cinéma; distribuzione : BIM; origine: Francia, 2001; durata: 125'. |
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Trama: | Durante la rivoluzione francese una bella dama inglese, Grace Elliot, fedele al sovrano, intrattiene rapporti affettuosi, ma a volte anche tempestosi, con il cugino del Re Luigi XVI, il duca di Orléans che, invece, sta dalla parte dei rivoluzionari. Il duca, divenuto il deputato "Egalité", si farà convincere dalla nobildonna a salvare un proscritto ma non a risparmiare la vita del Re. |
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Critica (1): | Sarà la cupezza di questo periodo tempestoso e pieno d’incertezze, ma si fa un’immensa fatica a credere all’unanime consenso sull’ultimo film di Rohmer, La Nobildonna e il Duca, e si dà credito ai pochissimi detrattori, che sono usciti fuori dal coro, coraggiosamente. Claudio Carabba, addirittura, sul magazine Sette, del Corriere della Sera, scrive senza imbarazzi che siamo di fronte ad un noioso esercizio di stile senza passione e senz’anima, quasi a minimizzare il ruolo di maitre à penser che il regista francese ha coperto, per decenni, e che lo ha portato dritto al Leone d’Oro per la carriera all’ultima Mostra di Venezia. La posizione esteticamente scorretta di Carabba fa simpatia, giacché, nelle chiacchiere festivaliere, nessuno osava nemmeno dire "Sì, però..", era un tripudio quasi irritante: bellissimo, geniale, pieno d’inventiva, un film che riscatta le miserie di tutti i banali lungometraggi qui presenti, a caccia di premi. A chi scrive è piaciuto tantissimo, nonostante i pochi film in costume e storici del francese siano, come dire, meno "rohmeriani" rispetto allo standard solito, caratterizzato dalle simmetrie amorose e morali di uomini e donne contemporanei (La marchesa von O, 1975; Perceval, 1978). Come scriveva Edoardo Bruno per La Collezionista (Filmcritica n. 178, 1967): "Il suo cinema puro, folle come una corsa immaginifica anche se corposamente legata ad una Logica tutta parlata e razionalizzata. Rohmer ha fatto della Parola un fatto filmico indipendentemente dal Segno che l’accompagna, ha coinvolto gli attori in un’operazione critica che sottende l’apporto di ciascuno per creare la tensione dentro cui collocare questa realtà estremamente esatta". L’immagine e la figura del regista è lontana, l’ascetismo e l’apparente disimpegno, l’aristocrazia blasé non fanno breccia nel gusto dello spettatore medio, spaventato da tanto rigore morale? Forse, certo è che Rohmer si diverte ad annientare i nostri schemi mentali, come un professore di lettere ammalato di Parole, che rinverdisce continuamente il suo amore per la letteratura. Non è un caso, infatti, che si sia prima innamorato del diario (aveva letto un sunto, per caso, su una rivista di storia) della bionda inglese, amante del duca d’Orléans, Grace Elliott, e poi lo abbia assimilato e trasposto in immagini cinematografiche. Al francese non interessa particolarmente il periodo storico della Rivoluzione francese, è affascinato dal punto di vista di un’inglese che guarda passare sotto i propri occhi gli orrori della rivolta, lei così devota al re Luigi, e all’instaurarsi del Terrore. Grace, nel film, cammina continuamente, fa la spola tra Parigi e la sua villa di campagna a Meudon, guarda tutto, in particolare modo non le sfugge la doppiezza del suo ex amante, che vota la condanna alla ghigliottina del cugino, sua Maestà, ormai detronizzato e pericoloso. Film reazionario e filo-monarchico? Non si direbbe, la stessa Grace è finta, nasconde nemici della rivoluzione nel suo letto, con cui non intrattiene solo conversazioni amorose; è idealista, lealista, piena di buone intenzioni, ma allora perché continua a frequentare il duca, preso dalla passione rivoluzionaria e devoto, suo malgrado, agli uomini di Robespierre? La Nobildonna non è un modello di Virtù e anche l’amante (forse, non poi tanto ex) ne esce male. L’attore Jean-Claude Dreyfus lo tratteggia come un uomo laido, grasso e spaventato, più opportunista che amico del popolo, con una bravura sorprendente. E il popolo rappresentato in modo orribile, un insieme di pezzenti ed ignoranti, facilmente corruttibili, non sintetizza l’alone aristocratica del cineasta? Neanche per sogno, il regista non ha velleità da storico, lo mette in prospettiva, in fondali finti e perfetti di una Parigi interamente ricostruita e ce lo mostra crudele e assetato di sangue – esemplare la sequenza in cui la testa della duchessa di Lamballe, amica di Grace, conficcata in una lancia, le passa sotto gli occhi esterrefatti, mentre un gruppo di "giacobini" festeggia la macabra decapitazione – perché Eric Rohmer lo guarda come se fosse la bionda inglese, si incarna in lei.
Film privatissimo, quindi, giacché il "punto di vista" dell’inglese resta fino alla fine di una pellicola che non svicola, non emette giudizi che non siano quelli "soggettivi" della Elliott (straordinaria anche l’interpretazione della quasi debuttante Lucy Russell). Come si è già accennato, a parte i cavalli, le carrozze, le comparse e gli attori principali, tutto il resto è fittizio (trentasette scenografie realizzate dal geniale Jean-Baptiste Marot, in due anni) e digitale. Una perfezione spoglia e lineare, di chi sembra essersi stancato di scandagliare l’animo degli individui e cerca di smontare, con tutta calma, le diavolerie del nuovo cinema che lo circonda (e lo fa meglio di tanti giovani registi, che conoscono solo il "digitale"). Un film stilizzato, pittorico ed architettonico, che sembra riprendere le tesi di Rohmer da un suo saggio su Murnau (e la fissità della m.d.p. e l’uso continuo dei piani sequenza confermano anche quanto sia fedele alle regole di Bazin). Al buon Carabba, tali esercizi di stile sembrano solo una gran noia; ha ancora tempo, per ricredersi, se vuole. Di lungometraggi che si affidano quasi solo al montaggio ne trova a bizzeffe.
Vincenzo Mazzaccaro, Cinema studio |
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Critica (2): | La fine mostruosa di un mondo, e anzi del mondo: questo narra la Grace Elliott (Lucy Russell) di La nobildonna e il duca. Del tutto interna alla classe e al pensiero che la Rivoluzione e la sua Ragione stanno distruggendo, per lei non finiscono solo un ordine politico, un sistema sociale, una gerarchia di valori, ma ogni possibile ordine, sistema e gerarchia. In questo senso, la sua prospettiva è strettamente reazionaria, volta al passato e dominata dalla sua nostalgia. Il che, però, non implica che lo sia anche quella di Eric Rohmer. Fra l’una e l’altra, fra la narrazione dell’anglaise e quella del grande autore francese, non c’è, né può esserci, identificazione o sovrapposizioni. Piuttosto, la prima è l’oggetto della seconda: e ciò che essa narra. Il punto di vista della regia, ancora, non può e non deve essere cercato direttamente nelle parole, nei fatti e nei sentimenti che costituiscono la narrazione di Grace, ma nel modo in cui la regia stessa li rappresenta. Per quanto il film sia denso di dialoghi – come sempre accade nel cinema di Rohmer, ancor più decisive sono dunque le sue immagini. Decisiva, in particolare, è la scelta di collocare su di uno sfondo non realistico gli eventi storici, quel che di essi appare a Grace, filtrati dall’angoscia e dalla nostalgia. Le strade di Parigi e i suoi edifici, la campagna attorno a Meudon, la stessa capitale vista dall’alto e in lontananza (intanto la ghigliottina s’abbatte sul collo del re), talvolta anche gli interni: tutto é ricostruito e inventato elettronicamente. Ma non è tanto quest’uso in se stesso che rileva, quanto l’effetto che Rohmer cerca. Le immagini elettroniche non solo evitano di produrre verosimiglianza: addirittura imitano le sfumature e i tratti della tecnica pittorica dell’acquerello. E lo fanno al punto da portare in primo piano più d’una volta la trama grossa e viva della carta, la sua materialità calda e tenera, che la pennellata trasparente non nasconde e anzi esalta. Questa scelta, che è stilistica ben più che tecnica, ci suggerisce in platea che non di una ricostruzione storica si tratta, ma appunto di qualcosa di più caldo, di più tenero e materiale. Ci pare allora che a Rohmer stia a cuore la memoria di Grace in quanto permeata d’una umanità tanto viva da non essere, appunto come umanità, "reazionaria". È singolare, non generale né ideologico, lo sguardo dell’anglaise (almeno così come nel film ci è riuscito, qualunque valore abbiano in loro stesse le pagine scritte dalla Elliott in Jounal of My Life During the French Revolution ora tradotte in italiano dall’editore Fazi). E quella sua singolarità ne trasfigura il senso, facendo di La nobildonna e il duca una grande storia d’amore. Per amore si intende il sentimento che lega Grace al duca d’Orléans, Philippe Egalité (Jean-Claude Dreyfus), ma anche più in generale il suo modo di "sentire" la vita. Quanto all’Orléans, dunque, l’immagine centrale ci pare quella della parete vuota nel salotto di Grace. Dopo il suo voto a favore della condanna a morte di Luigi XIV, lei dà ordine che da quella parete sia tolto il ritratto dell’antico amante. A sorprendere, in questa sequenza, è appunto una assenza: sul verde della parete il quadro non ha lasciato alcuna ombra e orma. Ci sembra, questa incongruenza, lo "stratagemma visivo" con cui Rohmer esprime la radicalità dell’esclusione, pari alla forza dell’amore smentito. Niente più, Grace vuole dentro di sé dell’Orléans, dopo il suo tradimento. Poi, mentre la storia si sviluppa, quella parete viene di nuovo mostrata, e vengono mostrati quella mancanza e quel vuoto (fino a che, ritrovata la memoria dell’orrore, il ritratto sarà rimesso al suo posto). Questo vale, appunto, per la Grace di Rohmer, molto più d’ogni ideologia ed egoismo di classe: questa tenerezza smentita e mutata in asprezza, questo sentimento che si capovolge, mantenendo però lo stesso calore e la stessa materialità "singolari". Di fronte a questa singolarità che è la stessa con la quale l’anglaise vede e vive la rivoluzione, davvero non contano né le "ragioni" generali dei giacobini né quelle dei reazionari. Contano invece il calore, la tenerezza, la materialità di quel che è umano di fronte alla mostruosità non tanto d’un mondo che muore, quanto d’una Ragione che ha nel Terrore il proprio culmine e, insieme, la propria smentita. Forse, per entrare davvero nel film di Rohmer e per entrare nella sua narrazione serve ripensare e modificare solo un po’ il motto di un’opera famosa di Francisco Goya, pubblicata nel 1799: anche l’insonnia della ragione, non solo il suo sonno, produce mostri.
Roberto Escobar, Sole 24 Ore, 6/10/2001 |
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| Eric Rohmer |
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