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Toro scatenato - Raging Bull


Regia:Scorsese Martin

Cast e credits:
Soggetto: Joseph Carter, Jake La Motta, Peter Savane, tratto dall’autobiografia "Ragin Bull, My Story" di Jake La Motta; sceneggiatura: Mardik Martin, Paul Schrader; fotografia: Michael Chapman; musiche: da "Cavalleria Rusticana" di Pietro Mascagni; montaggio: Thelma Schoonmaker; scenografia: Gene Rudolf; costumi: John Boxer, Richard Bruno; interpreti: Robert De Niro ( Jake La Motta), Cathy Moriarty ( Vickie), Joe Pesci (Joey La Motta), Frank Vincent ( Salvy), Nicholas Colasanto (Tommy Como), Theresa Saldana (Lenore), Mario Gallo (Mario), Frank Adonis ( Patsy), Bernie Allen ( Comico), Floyd Anderson (Jimmy Reeves), Linda Artuso (Janet), Michael Badalucco( Barista), Johnny Barnes ( Sugar Ray Robinson), Rita Bennett (Emma), Joseph Bono(Guido), James V. Christy (Dr Pinto), Don Dumphy (se stesso), Lori Anne Flax (Irma), Paul Forrest (Parroco), Bill Hanrahan (Eddie Egan), Beansy Thomas Lobasso (Beansy), Kevin Mahon (Tony Janiro), Peter Putrella (Johnny), Luis Raftis (Marcel Cerdan), Charles Scorsese(Charlie), Frank Topham (Toppy); produzione: Chartoff- Winkler Production; distribuzione: ; origine: Usa, 1980; durata: 129'.

Trama:Jake La Motta, proveniente dall'ambiente italo-americano e dalla miseria, è cosciente e orgoglioso della propria forza taurina. Infatti, con il nomignolo di "Toro del Bronx", nel 1941, inizia la sua carriera trionfale nella boxe. Ribelle a qualsiasi condizionamento, rifiuta le protezioni mafiose di Tommy Comoe e famiglia; praticamente gestisce se stesso con il solo aiuto del fratello Joey nelle vesti di manager. Nel frattempo, di carattere duro e primitivo, abbandona la moglie ebrea e sposa Vickie, una ragazza che, a causa della sua vistosità, lo renderà sempre più geloso e tirannico. Le sue vittorie lo portano di diritto ad essere il candidato più ovvio per la corona mondiale dei pesi medi; ma la mancanza di una organizzazione potente gli sbarra la strada. Joey, a sua insaputa, ottiene la candidatura all'incontro mondiale, pagando lo scotto di un incontro precedente da truccare. Jake si trova costretto a seguire la strada impostata da Joey; perde volutamente un incontro che avrebbe potuto chiudere sin dal primo round; strappa la corona mondiale a Sugar Ray Robinson. Nel frattempo vive un periodo torbido per i guastati rapporti con il fratello e si ritira a Miami. Intraprende delle attività fallimentari e viene abbandonato anche da Vickie...

Critica (1):Rispettando il suo pendolarismo felliniano tra la metropoli e la provincia, Martin Scorsese ritorna a New York, la città dei ghetti e delle minoranze, percorsa nei suoi primi film, ma anche la New York degli anni Quaranta e Cinquanta che prestava il titolo al melodramma musicale del sassofonista Jimmy e della cantante Francine. Anche se questa volta varca l'Hudson, Scorsese ritrova gli stessi quartieri italiani e i volti a lui noti (tra i quali, in un retrobar, getta pure suo padre). Il Bronx come Little Italy (Manhattan), dunque. E, soprattutto, La Motta come gli ingenui perversi delle sue opere d'esordio. Perchè l'autobiografia del pugile, delle quale segue molte pagine, non sottrae nulla alla sua capacità inventiva e rievocativa, anzi esercita questa capacità, attraverso l'apposizione di ostacoli, fatti di luoghi e di personaggi, in una riflessione sulla cronaca e nella pronuncia di un giudizio altre volte eluso.
Toro scatenato rivisita tuttavia gli italo-americani e i loro ghetti dopo New York, New York e Ultimo valzer e si vede. Lo separano dalle precedenti cronache della Little Italy nuove forme di ricerca drammaturgica che nulla hanno ormai da spartire con il cinema europeo degli anni Sessanta, così vicino agli esordi di Scorsese, e, meno ancora, col sapiente prodotto da drive-in confezionato nelle trasferte del regista a Hollywood e dintorni. Come in New York, New York, usava e ribaltava le tradizioni del musical e del melodramma, con risultati un po' ibridi e certo poco gratificanti, anche qui Scorsese rende omaggio a celebri precursori, tesaurizzando e poi distruggendo le loro lezioni, per approdare ad un'esperienza narrativa che la dice assai lunga sulla volontà di rischio dell'impresa. Come La Motta, anche Scorsese sale sul ring. E come La Motta vuoi guadagnarsi l'appellativo di toro, confidando soprattutto sulla sua capacità a sperimentare senza finire a knockout.
Nessuno ha mai messo al tappeto Jake La Motta; nessuno tranne se stesso. A riassumere il film basta questa frase, e su questa si esercita la lettura fatta da Scorsese e dai suoi sceneggiatori dell'autobiografia del pugile. Perchè, contrariamente alle apparenze, Toro scatenato non è una storia sul mondo pugilistico, ma la storia di un pugile in lotta contro se stesso. Parente forse dell'anziano protagonista di Fat City, ma di nessun altro personaggio del mondo del ring riproposto sugli schermi. E Scorsese anticipa subito allo spettatore il singolare combattimento che opporrà La Motta unicamente a se stesso, presentandocelo nei titoli di testa ansimante e solitario eroe del ring. I suoi parenti prossimi La Motta può invece ritrovarli nella filmografia dello stesso regista. Soprattutto nel Johnny Boy che lo stesso De Niro impersonava in Mean Streets, ribelle e quasi folle, capace di esplicare la sua rabbia solo nella rivolta, impotente di fronte al corso delle cose e anarchico al punto da sfidare il prossimo con un revolver scarico, e nel Travis di Taxi Driver, ancora affidato a De Niro, psicotico e disadattato al punto da attentare alla vita di un candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
La Motta è sul ring solo contro se stesso, ma questo singolare combattimento non è confinato unicamente negli stadi ma lo impegna ovunque. Una pagina dell'autobiografia del pugile costituisce l'incoffessata chiave del film. Scrive La Motta: «Quando ero un ragazzino di sei-otto anni ci trasferimmo a Filadelfia. Andavo a scuola, e mia madre mi dava sempre qualcosa da mangiare, un panino, qualcosa del genere, e gli altri ragazzi, più grandi di me, me lo portavano via. Correvo a casa piangendo. Un giorno frignavo con mia madre perchè un ragazzo mi aveva malmenato dopo che avevo inveito contro di lui per avermi portato via il panino praticamente di bocca. Mi si fece appresso mio padre, che mi colpì con uno schiaffo tremendo in faccia e mi mise in mano un uncino da ghiaccio. Mi gridò: 'Ecco, figlio di puttana, e non scappare più via da nessuno! Non importa un cazzo quanti sono. Usa questo, faglielo assaggiare! Colpiscili con questo, colpiscili per primo e colpiscili forte. E non tornare più a casa a piangere, se no ti pesto io molto più di loro! Capito?. Continuò a gridare e poi mi schiaffeggiò di nuovo, lasciandomi tramortito e con un orecchio che sibilava, ma quella frase, 'colpiscili per primo e colpiscili forte', mi rimase impressa. È stata l'unica cosa buona che mi ha lasciato mio padre, e in seguito m'è sempre sembrato che facesse scattare nel mio cervello il grilletto giusto nel momento giusto. Da allora non mi sono separato mai più da quell'uncino per il ghiaccio. Lo portavo in una custodia di cuoio appesa alla cintura. E una volta che mi stavano lavorando mica male mi ricordai di quello che mio padre mi avrebbe fatto se fossi tornato a casa a frignare di nuovo, e mi venne in mente l'uncino. Lo cavai fuori e mossi all'attacco verso i tre. Se ci penso, ancora adesso riprovo quella sensazione di potenza che mi pervase in quel momento. L'uncino nella mano, ed ero invincibile!».
Scorsese non dice nulla sull'infanzia e non mostra i genitori del suo personaggio, ma persegue senza sbandamenti il continuo martellante scambio di colpi tra la dimensione privata di La Motta e quella agonistica. La violenza esce dal ring e dilaga nelle strade del quartiere italiano del Bronx, nei vicoli fatti di grigi palazzoni con le scale di ferro, nei locali notturni e nei bar degli anni Quaranta dove con i pugni volano sedie e tavoli, nell'appartamento povero che Jake divide con la prima moglie, imponendole anzitempo la cottura di una braciola, e in quello più pretenzioso che abita con la seconda e che è quasi una palestra per le sue imprese agonistiche. A fianco di questa violenza fisica c'è una violenza verbale che raramente si può riscontrare in un film: insulti, parolacce ed epiteti vengono dati e incassati come in un combattimento tra professionisti. E hanno la velocità dei pugni le battute che il La Motta entertainer lancia dalle pedane dei night clubs, della Florida o di Manhattan. E c'è infine una violenza, meno apparente ma non per questo meno profonda, affidata alle omissioni, ai sottintesi, agli sguardi: l'incontro di Jake con Vickie sui bordi della piscina ne offre quasi un'antologia.
Il rapporto coniugale esemplifica e per gran parte riassume l'attitudine del protagonista ad aprirsi la strada, anche fuori del ring, a suon di sventole. È un esercizio di violenza e prevaricazione. L'accoppiamento equivale all'accoppamento, mentre l'astinenza dal rapporto coniugale, imposta dall'assenza da casa o dagli imperativi dell'allenamento, fa convergere tutta la violenza, altrimenti scaricata nel rapporto coniugale, solo contro se stessi. Jake ama teneramente Vickie, ma le toglie la parola, non le lascia il respiro, sospetta di un'occhiata, di una festa, di una forzata lontananza. E così distrugge la donna, che tuttavia sa farsi scudo di una pur esile personalità, e, soprattutto, distruggendo se stesso. Come in Play Strindberg di Dürrenmatt o in Scene di un matrimonio di Bergman, la vita coniugale è un match composto di tanti successivi rounds.
Questa violenza privata vuole essere anche specchio del dramma di una comunità di emigrati sdradicata dalla sua terra e insofferente al trapianto in una nuova comunità, la cui caratteristica pluriraziale serve da moltiplicatore di conflitti (si vedano le scene iniziali nel condominio, anno 1941). La Motta in lotta con la vita si scontra con il vecchio mondo e con quello adottivo. E con essi viene a patti quando è messo alle corde: del vecchio giunge a tollerare servitù macchiate di sangue (la sconfitta negoziata impostagli dal padrino), del nuovo adotta un sistema di valori che nei beni di consumo offrì ingannevoli antidoti all'anonimato (l'automobile, ad esempio, grazie alla quale il protagonista può restare finalmente solo con Vikie). Scorsese delinea tuttavia l'amarezza di questa comunità di emigrati con accenti troppo pudici. Evita, e giustamente, di fare del suo protagonista il simbolo di un popolo mutilato nelle sue radici, ma non riesce neppure a trovare i persuasivi accenti che facevano dei protagonisti di Mean Streets le vittime delle nevrosi dei ghetto. La storia di La Motta si conferma così come un altra variante della storia della corruzione del sogno americano, della sete di gloria e ricchezza, dell'inevitabile rivincita che la violenza, individuale e collettiva, si prende sulla società.
La Motta, il pugile che non si fa mai atterrare, è un uomo che ha subito tante volte l'umiliazione del knockout infertogli dalla vita. E questo knockout è il più doloroso e penoso: non c'è gong che blocchi lo scorrere del tempo o manager che getti la spugna. E quando perde il titolo e abbandona la boxe, il desiderio di combattere lo perseguita, ed è proprio questo desiderio che, alla fine, esercita contro se stesso. Caduto in prigione, spezza i pugni contro le pareti e urla di non essere un animale. Ma nella solitudine della cella per la prima volta fa la conoscenza di se stesso e della propria rabbia. Sembrava finito al tappeto per sempre e invece giunge a rialzarsi. Scorsese accredita l'idea che la boxe sia una forma di pazzia, e costringe il suo protagonista a passare una seconda volta attraverso l'utero della madre per raggiungere una forma di sanità. O, per usare i termini di san Paolo, fa rinascere il suo La Motta alla «vita secondo lo spirito» dopo avergli fatto vivere l'angoscia della «vita secondo la carne». (…)
Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 203, 4/1981

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