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Noi tre


Regia:Avati Pupi

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Pupi Avati, Antonio Avati; collaborazione ai dialoghi: Cesare Bornazzini; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Amedeo Salfa; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Alberto Spiazzi; fonico: Raffaele De Luca; musica: Riz Ortolani; interpreti: Christopher Davidson (Amadeus Mozart/Amadé), Lino Capolicchio (Leopoldo Mozart), Gianni Cavina (cugino/imperatore dell'inverno), Carlo Delle Piane (conte Pallavicini), Ida Di Benedetto (Maria Caterina), Dario Parisini (Giuseppe Pallavicini), Barbara Rebeschini (Antonia-Leda), Giulio Pizzirani (padre Martini), Leonardo Sottani (Nicola), Davide Celli (Davide); produzione: Pupi Avati per Istituto Luce Italnoleggio, Duea Film SRL, Rai Rete I; origine: Italia, 1984; durata: 90'.

Trama:Nell'estate del 1770, accompagnato dal padre, il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart giunge in Italia e viene ospitato dall'anziano conte Pallavicini in una villa nella campagna emiliana, dove trascorre le giornate in attesa di un esame che dovrà sostenere presso l'Accademia Filarmonica di Bologna. Immerso in un ambiente per lui misterioso ed estraneo, fra la quiete dei boschi e le cupe stanze della grande casa, dopo un'iniziale ostilità il giovane musicista stringe una forte amicizia con Giuseppe, il figlio del conte, e si innamora (per la prima volta) di Antonia Leda, una ragazza che abita nei dintorni. I tre coetanei diventano inseparabili, al punto che "Amadè" medita persino di fallire volontariamente l'esame per poter rimanere per sempre in quel luogo, come per prolungare indefinitamente il momento magico dell'adolescenza e rinunciare così a quella carriera da compositore che sembra invece stare tanto a cuore a suo padre.

Critica (1):(...) Dappertutto domina la campagna: sfatta, molle, tenera, paurosa, malsana o fulgida. Alla stregua di un'essenza vitale che si aggira per la vicenda, la sospinge, la guida, la ispira: non soltanto, come potrebbe sembrare, una qualsiasi protagonista della storia, e tantomeno lo sfondo entro cui agiscono e si agitano i personaggi, ma la stessa "voce narrante" del film, la prima ad entrare in scena, l'ultima ad uscirne. Dalla Terra di Pupi Avati - così come dalla luna e i falò di Pavese - nascono la memoria e l'infanzia, le illusioni, i desideri che non si potranno mai avverare, gli amori e i distacchi: Noi tre si apre, proprio per questo, al limitare di una foresta, spunta quasi impercettibilmente dal terreno, insieme alle felci che popolano la base dei tronchi secolari, cigola appena di vecchiaia quando i due anziani musicisti del prologo ne oltrepassano il rugoso cancello di legno in cerca delle "voci" che un lontano e segreto passato ancora tramanda. "Il bosco che cercavo per Leda, Giuseppe e Amadé - afferma in tal senso l'autore - era il Bosco degli Addii. Un insieme di piante e di radure, una montagna di ombre e di tagli di luce, dentro la quale il vibrante cuore dei miei tre ragazzini potesse vivere il tremore e il trasalimento, l'emozione e l'incanto di quel loro brevissimo idillio. Un bosco dove il mio Amadé potesse nascondersi cercando di sottrarsi al mondo che lo attendeva, per sempre". Dunque, il sipario si alza sul tenue melodramma mozartiano lasciando intravedere non le sete e i merletti (siamo nel 1770) dei protagonisti, non le dimore o le stanze dove essi consumeranno il breve spazio del film, ma un immoto paesaggio dei loro sogni e dei loro desideri. Una "no-man-land" dove tutto può accadere ed è plausibile, dove "la vita pare non incontrare mai il suo contrario" (P. Avati): il "vibrante cuore" del cinema avatiano, l'anima candida e "gentile" delle sue invenzioni, respira di aria aperta, di luce e di calore, d'improvvisi slarghi notturni, in quella zona "sempreverde" della fantasia che permette e legittima le fiabe. La Terra "come un'infanzia", una condizione della vita, l'attimo di un Prodigio: poi la Storia passerà e porterà quello che deve portare, chiuderà il Sogno, riporrà ogni cosa al suo posto, così come i due musicisti usciranno dalla foresta senza aver potuto ascoltare le "voci", con la consapevolezza che non ritorneranno mai più a percorrere quel sentiero; ma "l'istante fuggevole" sarà già diventato parte dell'ordine naturale, "quello immenso e intricato delle favole, quello dove l'incontro col divino, con l'incantamento, con le sante sugli alberi o con gli animali parlanti ci pareva possibile" (P.A.). Lasciando soltanto una traccia di sé, appena percettibile "come il letto di un falò"(C. Pavese, ibid.). (...)
Qui il "divino" Amadeus, portento musicale delle corti di mezzo continente, da Salisburgo a Parigi a Vienna, si chiama soltanto, e in confidenza, Amadé; è un ragazzino di quattordici anni, magari un po' più sensibile e ricettivo degli altri, un po' più delicato per la continua guardia di un padre premuroso ed amorevole fino all'oppressione, ma con i medesimi slanci dei propri coetanei, la medesima voglia di scorribande e di svaghi. Tutto, insomma, appare normale, quotidiano, comune: il conte Pallavicini che acquista le sembianze di un attempato signore chiuso nelle proprie manie, severo ed ombroso; la moglie Caterina, presenza discreta e premurosa; il figlio Giuseppe, tipo d'adolescente un po' scavezzacollo e sfacciato; e lo strano Giovanni ribattezzato, a causa della sua demenzialità, "imperatore dell'inverno", rintanato in qualche stanza della villa o vagante per i giardini come uno "scemo" visionario. Ma è da tale consuetudine che scatta l'inconsueto, è tra le pieghe della normalità che, di solito, si fa largo in Avati l'elemento straordinario, il Prodigio: così la morte di una vicina - vissuta, anche figurativamente, come un evento esoterico ed incantato - provoca l'incontro tra Antonia Leda ed Amadé, causando in quest'ultimo l'improvviso e fulmineo innamoramento; il desiderio del ragazzo per la giovane appena conosciuta, produce il "miracolo della neve", ciò che gli permetterà di corteggiarla, in base ad un accordo-scommessa tra i due (solo se una certa notte fosse nevicato, infatti, egli avrebbe potuto permettersi di flirtare con lei); la grande amicizia tra Amadé e Giuseppe genera il magico triangolo che lega i tre protagonisti ad un momentaneo, ma indimenticabile idillio, forse l'ultimo della loro innocenza. Allo stesso modo i personaggi acquistano forma narrativa lirica ed estrosa, singolare, unica: il conte che mangia la terra; l'"imperatore dell'inverno" (tipica figura avatiana) che vaga in preda alla propria candida pazzia; le battaglie tra Giuseppe e i "cinni" (i prepotenti figli degli agricoltori); Caterina, raccolta come dentro un quadro di Raffaello; Amadé che tenta di fallire l'esame, nell'infantile slancio di fermare per sempre l'"attimo fuggente" dell'adolescenza. E l'orchestra di Glenn Miller si dispiega davanti ai nostri occhi con i suoi ottoni dorati, le sue luci, i suoi lustrini: la "storia semplice" di Pupi Avati diventa emblematica, allegorica, guadagna lo spessore ed il fascino dell'apologo, mentre qualcosa di straordinariamente fragile e lieve spunta dal cilindro del mago/regista.
"In the mood" significa solo questo: essere nella disposizione di credere nei propri sogni, sapere ancora emozionarsi, vivere il momento e magari anche la malinconia ed i rimpianti, stupirsi dalla platea di un teatrino allo spettacolo sempre diverso della vita.
Claver Salizzato, Cineforum n. 238, 10/1984

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Pupi Avati
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