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Sciuscià


Regia:De Sica Vittorio

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Cesare Zavattini, Sergio Amidei, Adolfo Franci, Vittorio De Sica, Cesare Giulio Viola; fotografia: Anchise Brizzi; scenografia: Ivo Battelli; montaggio: Nicolò Lazzari; musica: Alessandro Cicognini; interpreti: Rinaldo Smordoni (Giuseppe), Franco Interlenghi (Pasquale), Aniello Mele (Raffaele), Bruno Ortensi (Arcangeli), Emilio Cigoli (Staffera), Gino Saltamerenda (il Panza), Anna Pedoni (Nannarella); produzione: Paolo William Tamburella per Alfa Cinematografica; origine: Italia, 1946; durata: 95'.

Trama:Pasquale e Giuseppe sono due ragazzi legati da sincera amicizia che nel disordine del dopoguerra esercitano delle lucrose e non del tutto lecite attività. Coinvolti in una rapina vengono inviati al riformatorio in attesa di giudizio. Il tempo trascorre senza che i due ragazzi vengano giudicati e frattanto la loro vita nel riformatorio si fa sempre più penosa. Contornati da una massa di disgraziati, precocemente traviati, di cui soltanto pochi fanno eccezione e mostrano i veri sentimenti confacenti alla loro età, talvolta maltrattati ingiustamente e comunque sempre inumanamente dai guardiani e dai dirigenti, i loro animi si inaridiscono e anche la loro amicizia viene meno fino a culminare nel tragico finale dove uno dei due ragazzi perde la vita.

Critica (1):Sciuscià fece guadagnare al distributore Ilya Lopert un milione di dollari. Era stato acquistato per quattromila. Era costato meno di un milione di lire, ma per Paolo Tamburella, il produttore, fu un vero disastro. Un pomeriggio, De Sica andò a vedere il suo film, che era appena uscito al cinema Odeon di Milano, in compagnia di Maria Mercader. «Uscimmo con addosso un senso di freddo, avviliti – racconta la Mercader.– Non mancò nemmeno “il cittadino che protesta”. Una piccola famiglia, che aveva assistito con noi alla proiezione, marito, moglie e un bambino, ci affrontò nell’atrio. «Si vergogni,» diceva l’uomo a De Sica, puntando il dito «si vergogni di fare film come questi. Che diranno di noi all’estero? I panni sporchi si lavano in casa». La gente preferiva allora i film americani, di cui si stava riversando sul mercato italiano appunto la prima ondata. In America, Sciuscià ebbe l’Oscar (1947), soprattutto in quanto film italiano realizzato in un periodo molto difficile; ma come autore, De Sica veniva spesso confuso, ad Hollywood, con Rossellini. Ciò che contava era l’immagine complessiva di un paese disastrato eppure vitale e “poetico”. De Sica, stava vivendo, dopo La porta del cielo, un momento di sconforto e di inattività, un po’ come tutti gli altri “operatori” del cinema italiano. Si stava rivolgendo nuovamente al teatro e voleva rimettere in piedi una compagnia con la moglie, Giuditta Rissone. Aveva anche ripreso a lavorare come attore nel cinema: Il mondo vuole così, di Giorgio Bianchi, con Clara Calamai e Massimo Serato; Lo sbaglio di essere vivo, di Carlo L. Bragaglia, con Isa Miranda e Gino Cervi; La notte porta consiglio, di Marcello Pagliero, con Valentina Cortese e Andrea Checchi; Abbasso la ricchezza, di Gennaro Righelli, con Anna Magnani, sono i film interpretati tra il ’45 e il ’46. Fu in parte merito di Maria Mercader, che non sopportava l’idea di vedere Vittorio, con il quale orinai cercava di vivere insieme il più possibile, accanto alla moglie anche sul lavoro, se De Sica si decise a fare Sciuscià. L’idea risaliva al ’44, quando il regista conobbe direttamente le due figure che sarebbero poi divenuti i personaggi principali del film. «Scimmietta – racconta De Sica – dormiva in un ascensore di via Lombardia, ma aveva una nonna cui voleva molto bene; fu questo calore familiare a salvarlo. Cappellone invece era figlio di nessuno, totalmente solo nel mondo con la sua grossa testa deforme di rachitico; più tardi rubò, finì in carcere. Allora erano due ragazzi di dodici o tredici anni e componevano una sorta di bizzarra associazione. Lavoravano in via Veneto (Scimmietta con una mantellina addosso e nudo sotto, tranne un paio di calzoncini laceri), pulivano le scarpe in fretta e furia e poi, racimolate tre o quattrocento lire, correvano su a Villa Borghese ad affittare un cavallo» (cfr. De Sica V., Gli anni più belli..., cit.).
Alla sceneggiatura del film lavorarono soprattutto Zavattini e Sergio Amidei. A lavoro compiuto, possiamo dire che Sciuscià è il primo film che porta veramente il segno della presenza di Zavattini, fino in fondo. Al primo impatto, sembrò trattarsi soprattutto di una “denuncia sociale”, di un film-verità su certe condizioni di vita del nostro paese nel dopoguerra. E come tale il film venne rifiutato non solo dalla borghesia benpensante, ma anche dal pubblico spicciolo. Effettivamente, Sciuscià sembrava qualcosa di molto diverso sia dal cinema degli anni Trenta sia dai film americani che cominciavano a circolare. Intanto, c’è il brusco impatto con gli “esterni” di una Roma ridotta nelle condizioni che tutti sanno. E in più, vediamo come protagonisti dei piccoli mostri, né ragazzi né adulti, che si comportano secondo codici che non appartengono loro ma di cui si sono impadroniti per forza di cose. Una certa “distrazione” della macchina da presa rispetto alla struttura narrativa rigidamente intesa ci permette di osservare un “panorama” sociale con occhio “documentario” già molto prima che il film vero e proprio abbia inizio: gli sciuscià al lavoro, Pasquale (Interlenghi) che vive con i genitori di Giuseppe (Rinaldo Smordoni), mantenuti dai due ragazzi, le regole dell’arrangiarsi (il “Panza”, rigattiere poco pulito, in combutta con Attilio, fratello maggiore di Giuseppe; la chiromante di via del Babuino), il distaccato mondo del galoppatoio di Villa Borghese, la “casa degli sfollati” (Ente Assistenza Accantonamento Sinistrati), ossia una scuola dove “abitano” famiglie alla rinfusa, con galline, fornelli, paraventi, bambini nudi che circolano, bionde in pelliccia, ecc. La storia dei due sciuscià, che sognano di comperare un cavallo tutto per loro e che per mettere insieme i soldi si trovano immischiati in un “lavoretto” organizzato dagli adulti e finiscono al Palazzo di Giustizia (un altro ambiente, la cui presenza si impone al nostro giudizio al di là dei raccontino vero e proprio); la storia dei due ragazzi finisce per essere soltanto la necessaria finzione di una messa in scena, della manipolazione del “reale” in funzione di un discorso. Ha scritto Philippe Carcassonne: «La regia di De Sica sembra derivare dalla semplicità modesta d’un artigiano (...), il cinema di De Sica restituisce la familiare evidenza degli oggetti e insieme la loro familiare estraneità. La macchina da presa non si muove che al ritmo del passo umano, minuziosamente attenta a dimenticare se stessa per non spaventare la veracità che si sforza di afferrare» (cfr. De Sica “le menteur”, in “Cinématographe”, n. 43, gennaio 1979).
All’interno di questo metodo, troviamo il surrealismo fiabesco di marca zavattiniana (quel cavallo “Bersagliere”, oggetto dei sogni di Pasquale e Giuseppe...). Stride anche la denuncia esplicita di carattere sociale (l’avvocato difensore di Giuseppe, al processo per truffa in cui gli sciuscià sono stati coinvolti: «se li considerate colpevoli, allora dovete condannare anche tutti noi, che inseguendo le nostre passioni, abbandoniamo a se stessa l’infanzia, i nostri figli, soli, sempre più soli!»). Aveva ragione il Bazin a sostenere il carattere più sociologico che politico del cinema italiano del periodo neorealista. L’Enciclopedia dello Spettacolo (Roma, Le Maschere, 1957) parlava, a proposito di Sciuscià, di una «sincera vocazione umanitaria» e di un «cordiale impegno creativo». E ci sembra, nella sua sinteticità, un giudizio centrato. Mettere l’accento quasi esclusivamente sulla “testimonianza” significa trascurare la struttura narrativa del film, fortemente presente dal momento dell’entrata in carcere dei due ragazzi sino alla fine.
Con le sequenze del carcere minorile, torna la tecnica del microcosmo già utilizzata per le commedie (Maddalena, Teresa) e per La porta del cielo. Vengono in primo piano sentimentalismi, codici d’onore e di fedeltà, differenziazioni sociali e tipologie umane. Anzi, osserviamo qui un uso espressivo “poetico” del dettaglio (es.: le mani di Pasquale e Giuseppe, che non vogliono separarsi: li hanno destinati in celle diverse), che nei primi film non c’era. Il finale è melodrammatico. Il film si chiude col grido lacerante di Pasquale che chiama inutilmente Giuseppe, morto nel tentativo di fuga dal carcere (e mentre l’amico cercava di colpirlo con la cinghia, credendolo colpevole di “tradimento”). Resta il cavallo, che solo e bianco, si allontana nella notte.
Dunque, la seconda parte del film mette in luce il tema dell’amicizia dei due sciuscià, caricandolo di un tale accento moralistico da suscitare pesanti giudizi negativi da parte di quella critica che riprenderà in esame l’intero “neorealismo”, con l’intento di smascherarne certe apparenze, una quindicina di anni più tardi. Particolarmente duro, sui «Cahiers du Cinéma», il giudizio di Jacques Joly sull’intera opera di De Sica, un autore delle cui «pretese estetiche e moraliste» «il tempo ha fatto giustizia». Tutto nasce, secondo il critico francese, dall’aver voluto mettere sotto un unico denominatore (il «neorealismo») registi molto diversi, come Rossellini e De Sica. In realtà, «Roma città aperta e Paisà traevano insegnamento da Uomini sul fondo di De Robertis; Sciuscià e Ladri di biciclette continuavano in tono serio l’osservazione populista delle commedie di Mario Camerini. (...) Con gli anni, si dovette concludere che il realismo di quei film non era che apparenza e che sarebbe valso più parlare di cinema in libertà. (...) Demagogiche, afflitte da un compiacente estetismo che si sovrappone alla storia e ai personaggi senza costituire la loro essenza come nel cinema di Visconti, tanto superficiali quanto profondamente borghesi, quelle di De Sica sono le opere di un onest’uomo che trova che il mondo manca veramente troppo di carità e si aggiusterebbe con una rivoluzione dell’elemosina. Incapace di andare al di là delle apparenze, De Sica non ha neanche saputo organizzarle in un universo coerente». Joly conclude negando la definizione di realista al cinema di De Sica, «incapace di oltrepassare l’osservazione superficiale e di trasformare certe verità del cuore in una morale obiettiva» (cfr. Joly J., Un nouveau réalisme, in "Cahiers du Cinéma", n. 131, maggio 1962).
Al di là della polemica sui "panni sporchi" suscitata a suo tempo, Sciuscià, che in un certo senso (e proprio per questo motivo, forse) è considerato uno degli esempi più tipici del neorealismo, s’è sempre prestato ad interpretazioni contrastanti. Le notazioni positive sono venute comunque, per la maggior parte, sul versante della morale. Si è parlato di «commozione stimolatrice» (cfr. Lizzani Carlo, Il cinema italiano, Firenze, Parenti, 1954), di "calda partecipazione umana" e di «affettuosa comprensione dei dramma» (cfr. Chiarini Luigi, Discorso sul neorealismo, in "Bianco e Nero", XII, 7 luglio 1951), di «una solidarietà che, nonostante tutto, si rivela per prendere il sopravvento ideale sull’egoismo» (cfr. Aristarco Guido, Vittorio De Sica, in "Sequenze", n. 4, dicembre 1949). Dal punto di vista formale il film fu giudicato alquanto disuguale, soprattutto da una certa tendenza purista, alla quale si contrappose un po’ curiosamente (nell’argomentazione) Umberto Barbaro. L’autore de Il film e il risarcimento marxista dell’arte notò i limiti di una tecnica non completamente dominata, con la macchina da presa che «s’avvicina all’oggetto (...) quasi per distrazione, per caso o per sbaglio»; ma difese Sciuscià per la sua «nobile ispirazione morale» e la «seria e concreta critica sociale». Nonostante «l’indifferenza a tutte le risorse del montaggio» e «l’incapacità a padroneggiare il tempo cinematografico», il film aveva per Barbaro un «fascino indubbio ed una sua sana bellezza» (cfr. Barbaro U., Servitù e grandezza del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1962).
In conclusione, possiamo dire che sullo schermo, a livello di struttura formale, di valori estetici e di contenuti della rappresentazione, si riproduce quello che è il rapporto di De Sica con Zavattini al tempo di Sciuscià. Lo ha descritto benissimo Ennio De Concini, allora assistente alla regia, e poi sceneggiatore di numerosissimi film, tra cui Caccia tragica e Il grido: «Erano come una coppia di amanti che ogni tanto cercano di stabilire chi dei due è più bello dell’altro (...). Se tra i due apparentemente il più dipendente dall’altro poteva sembrare De Sica, in realtà non potrei proprio dirlo, anzi forse era il contrario» (cfr. Faldini-Fofi, L’avventurosa storia..., cit.). È la questione di quel cavallo, «Bersagliere», che gira per le vie di Roma con quei due piccoli “mostri” sulla groppa: un miracolo d’ingenuità? una provocazione surrealista e una retorica moralista immersa nello sguardo “documentario” palpitante di sentimento e di partecipazione? «Il carattere dominante del neorealismo di De Sica e Zavattini – precisava con la sua tipica sicurezza Luigi Chiarini nel ’51 – è dato dal fatto che la loro polemica sociale non parte da un dato ideologico, ma da un motivo umano: è di ordine morale e non intellettualistico. Pertanto i loro film non rientrano in nessuna ortodossia politica e, da un tale punto di vista, possono venire variamente interpretati e contesi» (cfr. Chiarini L., Il neorealismo di Zavattini e De Sica, in «Teatro Scenario», n. 15-16, 15 agosto 1951).
Franco Pecori, Vittorio De Sica, Il Castoro Cinema, 1980.

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Vittorio De Sica
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