Marriage Story-Storia di un matrimonio - Marriage Story
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Regia: | Baumbach Noah |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Noah Baumbach; fotografia: Robbie Ryan; musiche: Randy Newman; montaggio: Jennifer Lame; scenografia: Jade Healy; arredamento: Lizzie Boyle, Adam Willis; costumi: Mark Bridges; effetti: James Klotsas, John J. Budion; interpreti: Scarlett Johansson (Nicole), Adam Driver (Charlie), Laura Dern (Nora Fanshaw), Roslyn Ruff (Donna), Justin Claiborne (Jules), Sarah Jones (Carol), Jordyn Curet (Molly), Sharmila Devar (Carly), Amir Talai (Amir), Matthew Shear (Terry), Azhy Robertson (Henry), Annie Hamilton (Becca), Brooke Bloom (Mary Ann), Merritt Wever (Cassie), Mickey Sumner (Beth); produzione: Heyday Films, Netflix; distribuzione: Netflix; origine: Usa, 2019; durata: 135'. |
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Trama: | Intenso ritratto della fine di un matrimonio e di una famiglia da New York a Los Angeles. Il film segue la storia di Charlie, regista teatrale, e Nicole, sua moglie e attrice, sposati con un bambino. Lei è una madre affettuosa e complice, lui un padre attento e presente. Ognuno apprezza l'altro, sia nei suoi pregi che nei difetti. La madre di Nicole adora Charlie a tal punto da considerarlo più un amico che un genero. Sembra il ritratto di una piccola famiglia perfetta, ma c'è qualcosa che non va. Un tassello si inclina, portando la coppia a quella che sembra l'unica soluzione alla loro infelicità: il divorzio. |
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Critica (1): | Il cinema di Noah Baumbach è geometrico. E mai come in Marriage Story la quotidianità si trasforma in un gioco di simmetrie, riflessi, forme. Da una parte il geniale regista, dall’altra la musa, anche madre di suo figlio. I loro sguardi si incontrano, si ignorano, si cercano. Tracciano linee ben visibili, scandiscono il ritmo, determinano la quotidianità. Non è un caso che il film si apra con due lettere. Il loro contenuto può essere rivelato solo agli spettatori. Tra quelle righe si nasconde la dichiarazione di un amore al capolinea.
È una confessione: le parole, le immagini, l’essenza del sentirsi marito e maglie, dell’essere genitori. Poi la separazione, che squarcia le giornate dei due protagonisti, distrugge ogni momento di felicità. Ancora una volta, come in The Meyerowitz Stories, la magia dell’arte si trasforma in un ostacolo. Dalla scultura si passa alla rappresentazione, all’importanza della messa in scena.
Lui vuole il controllo sui suoi attori e su ogni gesto che riguardi la coppia, lei si sente soffocata, vuole scappare. Il passato è sinonimo di dolore, fraintendimento. Baumbach ragiona sulle prospettive, sulla scansione del tempo: i cambiamenti attraverso gli anni, la condivisione del proprio bambino. Gli affetti vengono monetizzati, diventano un oggetto di scambio.
Si torna a Il calamaro e la balena, quando il divorzio era raccontato dal punto di vista dei più piccoli. Le liti, gli schieramenti, la casa che veniva descritta come un campo di battaglia, dove ci si contendeva addirittura la stessa ragazza. Qui il dramma si fa adulto. E si affronta il rimpianto, per non essersi fermati in tempo, per non potersi più opporre a scelte magari troppo affrettate.
Baumbach, maestro del lessico famigliare, attinge forse anche dalla sua esperienza personale (l’addio a Jennifer Jason Leigh), e gira con mano ferma la sua opera più ambiziosa. Conserva lo stile pungente, vicino alla commedia degli attici di Woody Allen, mantiene i suoi dialoghi carichi, incalzanti. Fissa la macchina da presa sul volto dei suoi divi, quasi li stritola nelle loro emozioni.
Cattura le lacrime, i sorrisi, gli scatti di rabbia che fanno nascere cerchi nel muro (il pugno di Adam Driver), i comportamenti oltre il limite che portano a rette (il taglio nel braccio di Driver). E poi i quadrati, i rettangoli (le foto sul mobile nella villa della madre di Scarlett Johansson), i triangoli che si vedono sul palcoscenico durante le rappresentazioni.
Si riparte da Frances Ha, da quel: “Come nel matrimonio: andiamo d’accordo e non facciamo sesso”, che in qualche modo condensava la relazione tra Frances e Sophie. Qui si va oltre. Marriage Story è una piccola apocalisse narrata con tenerezza, una perla nella filmografia di Baumbach. Che si supera, si mette a nudo, sfida le convenzioni, si fa più malinconico e cerca la dolcezza anche in un mondo che crolla.
Gianluca Pisacane, cinematografo.it |
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Critica (2): | Il titolo giusto sarebbe stato “Scene da un matrimonio”. E non solo perché l’argomento – la rottura di una coppia, il cumulo di smarrimento e dolore che si rovescia su due vite improvvisamente ribaltate – rimanda evidentemente all’omonima pellicola di Bergman, ma anche e soprattutto perché il teatro gioca, nel film, un ruolo cruciale.
Sul piano narrativo, è da quel mondo che arrivano i due coniugi in via di separazione, rispettivamente regista (Adam Driver) e primattrice (Scarlett Johansson) di una compagnia che fa teatro off Broadway. Su quello concettuale, il teatro nel film si impone gradualmente come la metafora di una vita di coppia uscita dai cardini, andata fuori sincrono, dove la spontaneità viene soppiantata dall’artificio.
Separarsi, nel film di Baumbach, significa in primo luogo fare della propria vita un teatro: impersonare un ruolo – il padre modello e la madre impeccabile nei confronti del figlio, l’adulto disinvolto e maturo nei confronti del(la) partner – e al contempo affidarsi agli avvocati divorzisti, istrionici professionisti del matrimonio come spettacolo, messa in scena dove il coniuge rappresentato figura come una vittima inerme dell’egoismo dell’altro. Un teatrino della crudeltà, un mondo di emotività compressa e ridotta a pura apparenza, che Baumbach racconta con affilata precisione, in perfetto equilibrio tra commedia e dramma; attento alle figure di contorno (avvocati, amici, familiari) come alle intermittenze emotive dei due personaggi, alle increspature del loro desiderio, ai momenti di ostilità pura come a quelli dove l’affiatamento torna per un attimo ad affacciarsi sulla superficie di una relazione ormai sul viale del tramonto.
Dopo il pregevole The Meyerowitz Stories, Baumbach pareva destinato a raccogliere l’eredità di Woody Allen e Wes Anderson quale ritrattista di famiglie bislacche e simpatiche, comicamente disfunzionali. Qui invece si cambia registro: la disfunzione, presa all’origine e analizzata in profondità, genera sofferenza vera, la famiglia diventa un problema, la sua centralità una zavorra. Anche sul piano iconografico, la sterile ostinazione con cui il protagonista maschile vorrebbe tenere la famiglia a Brooklyn, osteggiando la volontà della ex moglie di vivere col figlio a Los Angeles, rimanda al percorso biografico di un regista sì molto newyorchese, per nascita, formazione e argomenti, ma determinato ora, come testimonia il film, a cimentarsi con temi di maggior respiro e universalità.
Leonardo Gandini, cineforum.it, 29/8/2019 |
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Critica (3): | |
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