Signora della porta accanto (La) - Femme d’à coté (La)
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Regia: | Truffaut François |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Suzanne Schiffman, Jean Aurel, François Truffaut; fotografia: William Lubtchansky; musica: George Delerue Décor, Jean Pierre Kohut-Svelko; suono: Michel Laurent; montaggio: Martine Barraque; interpreti: Fanny Ardant (Mathilde Bauchard), Gérard Depardieu (Bernard Coudray), Henri Carcin (Philippe Bauchard), Michèle Baumgartner (Arlette Coudray), Roger Van Hool (Roland Duguet), Veronique Silver (Madame Jouve), Philippe Morier Genoud (il dottore); produzione: Les Films Du Carrosse, TF 1; distribuzione: Cidif; origine: Francia, 1981; durata: 106’. |
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Trama: | Dieci anni prima, Bernard e Mathilde s’erano conosciuti, amati appassionatamente e separati violentemente. Il caso vuole che Mathilde, dopo tanti anni, venga ad abitare in una villetta di fronte a quella in cui vive Bernard con la moglie Arlette e il figlio Thomas. Anche Mathilde si è sposata, con Philippe, un controllore di volo dell’aeroporto di Grenoble. La passione riprende a divampare violenta fra i due ex amanti, in un gioco alterno di rifiuto e di attrazione. Alla fine è Bernard a prendere l’irrevocabile decisione di troncare una relazione inutile e ingiusta ma Mathilde non si rassegna ed è costretta addirittura a recarsi in una clinica per malattie nervose. Tutti le rimangono accanto, Philippe amareggiato ma comprensivo, Bernard, che cerca di mostrare almeno la sua amicizia, Arlette, che aspetta un secondo bambino. Mathilde sembra guarita e decide di cambiare casa. Vuole un ultimo appuntamento con Bernard e si incontra con lui di notte nella casa vuota. Durante un furioso amplesso, lei tira fuori una rivoltella e, dopo aver sparato all’amante, si uccide. |
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Critica (1): | La visione di un nuovo film di Truffaut si accompagna di solito a piacevolissime sensazioni, non solo di ordine estetico: eccitazioni della fantasia e della memoria, folgorazioni intellettuali, piacere dell’identificazione speculare, soddisfazione narcisistica del sentirsi partecipi del gioco colto e delle strizzatine d’occhio del regista... Per questo essa viene solitamente lasciata per intero al cuore e al godimento dei sensi (lo spettatore "truffautiano" sa che piaceri e godimenti di questo tipo non mancheranno mai con un film di Truffaut). Non si può fare del resto diversamente. Il modo particolare del regista di parlare allo stesso tempo al cuore e all’intelletto dello spettatore stabilisce sempre un clima di complice partecipazione al quale non è facile sottrarsi. Al quale non si deve assolutamente cercare di sfuggire – dicono i sostenitori del regista – per poter partecipare in modo adeguato e con soddisfazione, anche sul piano critico, al gioco intellettuale e sottilmente erotico del cinema di Truffaut. Il quale, grazie anche ad un raffinato sistema di strategie testuali sperimentate in decine di film, riesce sempre a spingere la lettura, specialmente quella desiderante, e in modo particolare quella dello spettatore competente, lungo un invitante precipizio di coinvolgimenti, rimandi, ammiccamenti, confessioni, citazioni, giochi testuali e intellettuali, che impongono poi alla lettura critica una prima direzione praticamente inevitabile che porta ogni volta a riscoprire la sostanziale autoriproduttività del suo cinema. Un cinema che si critica e che si autointerroga, condannato per sua natura a suscitare quel l’impressione di déjà vu che accompagna quasi sempre la visione di ogni nuova opera del regista e che molti rimproverano a Truffaut. È stato sempre fin troppo facile per i suoi estimatori rispondere a questa obiezione che il cinema di Truffaut è un cinema quasi autofertilizzante che produce cinema dal cinema e che quindi non ha bisogno di rinnovare o di estendere continuamente il suo campo tematico e linguistico per progredire e interessare il pubblico. Che, anzi, proprio nel continuo riciclaggio di una stessa materia incessantemente rifinita e depurata e nel puntiglioso affinamento dei dispositivi e delle strategie testuali, Truffaut coglie oltre che i risultati estetici migliori anche gli effetti più spettacolari e produttivi del suo lavoro. È certo che però di fronte all’ultimo film di Truffaut l’impressione di "déjà vu" tende a persistere in modo particolare, probabilmente anche a causa del lavoro di progressiva concentrazione tematica e di continua semplificazione linguistica portato avanti dal regista alla ricerca di una trasparenza di forme e di intenzioni che in La signora della porta accanto finiscono per dar luogo ad un equivoco sulla natura positivamente ripetitiva del film. Nel senso che la fedeltà al tema forte (l’amour fou) dell’ultimo Truffaut e il ricorrere quasi ossessivo nel film di situazioni, sceneggiature (come storie parziali concentrate o sequenze di azioni canoniche), caratteri, intrecci, atmosfere, isotopie discorsive e narrative, tipici dell’universo espressivo truffautiano possono in effetti essere scambiati per bassa ripetitività. In realtà, nella semplicità dell’intrigo e degli elementi drammaturgici, nella trasparenza della messa in scena e nell’apparente assenza di stile di La signora della porta accanto si rivela oltre che il nostalgico ritorno di Truffaut al "classico" e a se stesso (ai suoi affetti e alla sua persona) anche la sicurezza dell’autore nella difficile arte di raccontare nitidamente e di semplificare in modo adeguato una storia molto complicata. E, in definitiva, proprio questo processo di semplificazione e di rimozione dello stile (ma, attenti, il grande Hitchcock sosteneva che nell’apparente assenza di stile fosse il punto più alto dello stile) che determina la chiarezza del Truffaut più recente e quindi l’estrema leggibilità delle sue costanti e dei suoi più forti affetti.
Da questo punto di vista La signora della porta accanto è addirittura un piccolo capolavoro. Il film, infatti, grazie alla sua trasparenza e alla sua perfetta simmetria di strutture drammatiche e di strutture tematiche consente esiti di estrema classicità e purezza ad un soggetto (di Suzanne Schiffman, Jean Aurel e dello stesso Truffaut) molto complesso e articolato. Consente anche al regista di avvicinare in un suo film quell’ideale organizzazione formale, ad entropia quasi zero, in cui sistemi molto complessi (come qui la storia di Bernard e Mathilde) trovano per incanto la loro distribuzione più semplice (qui l’organizzazione multipla triangolare del "récit", dello spazio scenico e del motivo tematico) e in cui energie anche molto grandi (come quelle in gioco nei rapporti sentimentali del film) stanno senza apparente sforzo in facile equilibrio (nel perfetto equilibrio della composizione scenica, della struttura temporale e degli elementi drammatici di La signora della porta accanto.
Proprio grazie alla sua purezza di forme e al suo splendido equilibrio, La signora della porta accanto riesce a vivere come film su un unico tema, quello, particolarmente attivo nell’ultimo Truffaut, dell’amore. La particolare attività drammatica e affettiva del tema dell’amore non costituisce comunque un elemento di novità all’interno di un cinema che da sempre ha avuto al suo centro diegetico e metaforico proprio l’amore e specialmente il mal d’amore. Fin dai primi film, infatti, l’amore, come passione e malattia (e come metafora della passione e della malattia di Truffaut per il cinema) è stato l’autentico "topic" semantico e pragmatico tanto della serie "grave" quanto di quella "leggera" dell’opera di Truffaut e quindi il motivo conduttore e il primo livello di coerenza semantica sia delle storie d’amore di Muriel/Claude/Anne, Montag/Linda/ Clarissa, Adèle/Pinson,... che di quelle di Jules/Catherine/Jim, Nicole/Pierre /Françoise,... Celebri triangoli (l’amore in Truffaut è sempre triangolo) dalla forte tensione simbolica che in La signora della porta accanto lasciano il posto a situazioni sentimentali e a figure di amanti molto più concrete e quasi per intero scritte nella superficie testuale di un film dedicato come mai prima all’analisi delle passioni e dei sentimenti autentici. A questa matericità degli affetti e dei corpi (Fanny Ardant è la prima donna di un film di Truffaut a possedere un corpo "caldo" e a portarlo in scena) che costituisce la vera novità di La signora della porta accanto, un film d’amore che, pur mantenendosi nel solco, e quindi negli eccessi, di quella esaltazione, tutta francese, per il mal d’amore che il cinema di Truffaut condivide da anni (Grazzini), si apre a sentimenti e a situazioni che hanno molto a che vedere anche con la realtà e la normalità delle passioni e della vita. Doinel, Jules, Jim, Julie, Pierre, Nicole, Claude, i primi amanti di Truffaut erano figure incapaci di sostenere qualunque forma di identificazione dello spettatore, fredde ombre nelle quali era anche estremamente difficile distinguere il piano delle relazioni umane (e quindi degli affetti del regista) da quello delle relazioni simboliche (e quindi delle idee del regista).
Anche il recente La camera verde, che pure trattava di un amour fou per molti versi simile a quello di Bernard e Mathilde, metteva ancora in scena personaggi doppi, pedine simboliche di un discorso molto più attento al gioco delle allusioni e delle metafore che a quello dell’autenticità dei sentimenti. Con La signora della porta accanto il piano metaforico cede invece decisamente lasciando spazio a personaggi e a passioni dalla carica umana e affettiva inconsueta in Truffaut. Segno evidente, questo, dell’accostarsi progressivo del regista (...) a una visione neo-romantica e sentimentale della vita in cui l’amore, come pienezza ed esaltazione ma più spesso come sofferenza, malattia, morte, costituisce il vero tic/tac dell’esistenza. Pur essendo un film ad una sola tonalità ("grave") e ad un solo tema (l’amour fou), La signora della porta accanto richiama in tante piccole e diffuse annotazioni molti dei motivi tematici dell’autore (da quello della precarietà dei sentimenti e dell’amore, a quello del conflitto tra sentimenti provvisori e sentimenti definitivi, da quello della memoria a quello della permeabilità del presente rispetto al passato). Alcuni ripresi quasi alla lettera (il tema della fatalità e quello della porosità del presente), altri rielaborati con qualche variante degna di nota rispetto allo standard ideale e affettivo del regista. È il caso, ad esempio, dell’idea dell’estrema precarietà e provvisorietà dei sentimenti (Doinel, per tutti) che appare qui quanto mai incrinata dalla storia di un amore che rinasce, tale e quale, a distanza di anni è l’amour fou, fatalmente destinato a riemergere dolorosamente, che torna in Truffaut per infrangere e allo stesso tempo per confermare alcune regole e costanti del suo cinema. Infrangere l’idea della precarietà dei sentimenti e dell’amore che aveva costituito la direttrice "morale" della sua opera. A confermare, per mezzo di uno di quei salti di scrittura (da un livello testuale ad un altro, e quindi da un discorso ad un altro) che gli sono tipici, l’idea, sottesa a tutto il suo cinema, che alla fine, nella precarietà o nella costanza, la vita non insegna comunque a vivere (Bernard e Mathilde in otto anni non hanno imparato nulla e tornano a rivivere tutte le contraddizioni e le violenze del loro primo amore; madame Jouve, la confidente, a vent’anni di distanza non sa trovare il modo per affrontare diversamente l’uomo che aveva amato e per il quale aveva cercato di uccidersi) e che il lago dei sentimenti quando entra in burrasca rompe sempre gli argini e spazza via, di colpo, tutte le difese. Gioco sottile di salti testuali e di equazioni intellettuali che finiscono per affermare ancora una volta in Truffaut, di fronte al mistero dei sentimenti e alla sofferenza del vivere, il primato della finzione e del cinema. Se la vita, come sembra in La signora della porta accanto (ma il ragionamento ha radici piantate profondamente nell’opera di Truffaut) non insegna a vivere e se amare significa solo soffrire, perché non cedere decisamente al cinema? Il cinema, pur non insegnando a vivere, aiuta almeno a vivere. Firmato Truffaut, naturalmente.
Gualtiero Pironi, Cineforum n. 211, gennaio-febbraio 1982 |
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