Timbuktu
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Regia: | Sissako Abderrahmane |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall; fotografia: Sofiane El Fani; musiche: Amine Bouhafa; montaggio: Nadia Ben Rachid; scenografia: Sébastien Birchler; costumi: Ami Sow; interpreti: Ibrahim Ahmed (Fidane), Toulou Kiki (Satima), Abel Jafri (Abdelkrim), Fatoumata Diawara (Fatou), Hichem Yacoubi (Jihadista), Kettly Noël (Zabou), Mehdi AG Mohamed (Issan), Layla Walet Mohamed (Toya), Adel Mahmoud Cherif (Imam), Salem Dendou (Capo jihadista); produzione: Les Films Du Worso, Dune Vision, in coproduzione con Arches Films, Arte France Cinéma, Orange Studio; distribuzione: Academy Two; origine: Francia-Mauritania, 2014; durata: 97’. |
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Trama: | Non lontano da Timbuktu, ora governata dai fondamentalisti islamici, Kidane vive pacificamente tra le dune con la moglie Satima, la figlia Toya e il pastore 12enne Issan. In città, la gente soffre impotente per il regime di terrore imposto dai jihadisti, determinati a controllare la loro fede. Tutto è stato bandito: la musica, le risate, le sigarette, persino il gioco del calcio; le donne sono diventate le ombre, ma continuano a resistere con dignità. Ogni giorno, nei nuovi, improvvisati tribunali vengono emesse tragiche e assurde sentenze. A Kidane e alla sua famiglia tutto questo finora è stato risparmiato, ma il loro destino cambia quando lui uccide accidentalmente Amadou, il pescatore che ha macellato "GPS", la sua amata mucca. Kidane, infatti, dovrà vedersela con le nuove leggi degli occupanti stranieri. |
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Critica (1): | Niente scenari esotici da anni Cinquanta, qui non c'è John Wayne a caccia di tesori nel Sahara, diretto dal grande Henry Hathaway. Timbuktu è un film in cui Abderrahmane Sissako ferma il tempo su un'Africa che fa i conti con la piaga dell'integralismo islamico, portato a popolazioni che vivrebbero serenamente nelle loro terre da milizie jihadiste che non parlano nemmeno la loro stessa lingua. Sissako descrive una quotidianità placida, lenta, sensibile, adagiata su un piccolo coro di personaggi che vive ai margini di una Timbuktu ormai in mano agli estremisti religiosi. Kidane, un allevatore, vive con la moglie e la figlioletta in una tenda nel deserto, per sottrarsi ai dettami dei miliziani che pattugliano il villaggio: non si può suonare, non si può fumare, i bambini non possono giocare a palla, le donne devono coprirsi anche mani e piedi. Eppure qualcuno di notte suona nel chiuso di una casa, altri fumano, qualche donna si ribella ai guanti. Poi il dramma esplode: Kidane paga la sua vendetta su un pescatore che ha ucciso una sua vacca, mentre due giovani innamorati subiscono la lapidazione e chi ha suonato viene fustigato... Sissako è tanto dolce nel descrivere la placida r/esistenza della popolazione, quanto crudele (ma senza rabbia, con attonito stupore) nel raccontare l'abbattersi della violenza di chi predica l'intransigenza della malintesa religione. Il ritmo resta blando, l'ironia esaspera la pazienza come fossimo in un film di Elia Suleiman (che infatti figura tra i ringraziamenti), la macchina da presa scorre sui corpi adagiati in cerca di pace, mentre l'ottusa presenza dei jihadisti trascorre come un assurdo fuori luogo nella ritmica esistenziale pacificata dei personaggi. Il finale ha una potenza rosselliniana da Roma città aperta, ma non è questione di realismo, in questo film nutrito di un tempo interiore che vorrebbe negare la rabbia della storia, ma capitola di fronte agli eventi. Sissako dice di essersi fatto ispirare dal video di una lapidazione avvenuta in un villaggio del Mali visto suYoutube. Considerando gli ultimi risvolti dell'avanzata jihadista in Iraq va detto che il film, nella sua purezza poetica, è destinato a restare di chiara attualità.
Massimo Causo, Cineforum n. 535, 6/2014 |
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Critica (2): | Una famiglia unita e affiatata vive in una tenda nel deserto, poco lontano da Timbuktu, occupata dai fondamentalisti religiosi che impongono il loro regime di terrore, divieti, violenze. Ogni giorno la furia jihadista prende di mira chi ha infranto le nuove, assurde, regole, non si può ridere, non si può cantare o fare musica, non si può fumare, non si può nemmeno giocare a calcio. Le vite di tutti sono improvvisamente appese a un filo, determinate dalle sentenze di una corte improvvisata che condanna esseri umani alla lapidazione: «La ragione per cui ho girato Timbuktu è semplice, sono rimasto scioccato dall'apprendere che in quei luoghi gli invasori occupano città e impongono il loro modo di vivere, pensare, pregare. Il 29 luglio del 2012 a Aguelok, nel nord del Mali, una coppia di trentenni, genitori di due figli, sono morti lapidati. La loro unica colpa era quella di non essere sposati. Sono convinto che i cineasti debbano dare testimonianza di quello vedono».
Nato a Kiffa, in Mauritania, nel 1961, Abderrahmane Sissako è in corsa per l'Oscar al miglior film straniero con Timbuktu (dal 12 febbraio nelle sale con Academy Two), manifesto limpido e sconvolgente contro «l'estremismo che ha preso in ostaggio l'Islam». In Mauritania la notizia della nomination ha scatenato grande attesa: «È una cosa straordinaria, per il mio Paese, ma anche per tutta l'Africa, un continente magnifico, con grandi problemi, ma poco conosciuto. Il film mostra una realtà, più è condivisa e meglio è».
È stato difficile, dal punto di vista pratico, girare Timbuktu?
«Ogni film ha le sue difficoltà. Volevo girare lì, sul posto, ma c'era stato da poco un attentato suicida, proprio davanti alla guarnigione militare, era troppo rischioso portare una troupe in quella zona. Così abbiamo spostato le riprese in Mauritania, cercando luoghi simili a Timbuktu, la lavorazione è durata sei settimane, in un clima di grande tensione, però l'intera troupe, ogni mattina, era lì sul set, pronta a girare».
Nel film i jihadisti appaiono anche ridicoli, fannulloni, ipocriti...
«In ogni gruppo, e quindi anche nel loro, ci sono diversi tipi di individui... Tenevo molto, per esempio, al personaggio del rapper, un ragazzo a cui hanno fatto il lavaggio del cervello, convincendolo che, quando faceva musica, era nel peccato.
Più tardi abbiamo saputo che l'uomo che ha tagliato la testa all'ostaggio americano James Foley era con ogni probabilità un ex-rapper londinese».
Il cinema può contribuire a modificare la realtà?
«Il cinema può dare il suo contributo, può essere parte del cambiamento, può facilitare la comprensione degli altri e quindi rafforzare l'armonia, nella famiglia, nel quartiere, nella città in cui si vive. Più accettiamo gli altri e più accettiamo noi stessi. Cambiare le cose significa anche, semplicemente, dire buongiorno a qualcuno che prima non salutavamo».
Il suo è un cast multiculturale, con diversi interpreti non professionisti. Come lo ha messo insieme?
«Nei modi più vari, Kidane, il tuareg protagonista, è un musicista di Madrid, il pescatore è un uomo che ho visto un giorno su una piroga, mi aveva raccontato di essere scappato dagli jihadisti, parlava la lingua tuareg, e pescare era la sua passione, l'ho preso...».
È ottimista o pessimista sul futuro del suo Paese?
«Il mio Paese fa parte di un continente, se fossi pessimista lo dovrei essere nei confronti di tutto il mondo, anche l'Italia è venuta fuori da momenti difficili... No, per il mio continente sono ottimista».
Fulvia Caprara, La Stampa, 1/2/2015 |
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