Diari della motocicletta (I) - Diarios de motocicleta
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Regia: | Salles Walter |
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Cast e credits: |
Soggetto: dai libri di Ernesto Che Guevara, Alberto Granado; sceneggiatura: Jose' Rivera; fotografia: Eric Gautier; musiche: Gustavo Santaolalla; montaggio: Daniel Rezende; scenografia: Carlos Conti; costumi: Beatriz De Benedetto, Marisa Urruti; interpreti: Gael Garcia Bernal (Che Guevara), Rodrigo De La Serna (Alberto Granado), Mercedes Moran (Celia De La Serna), Jean-Pierre Noher (Ernesto Guevara Lynch), Susana Lanteri (Tia Rosana), Mia Maestro (Chichina Ferreyra), Gustavo Pastorini (passeggero), Marina Glezer, Lucas Oro; produzione: South Fork Pictures, Filmfour, Tu Vas Voir Productions, Senator Film Produktion; distribuzione: Bim; origine: Argentina –Brasile, Cile –Perù – Usa; 2003; durata: 126’. |
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Trama: | "La Poderosa" è il soprannome di una moto, una Norton 500 del 1939, a bordo della quale, nel 1952, Ernesto Guevara de la Serna e l'amico Alberto Granado partono per un lungo viaggio di esplorazione dell'America Latina. Ernesto non è ancora il "Che" ma solo uno studente di medicina asmatico e curioso armato di un'onestà ruvida e disarmante. Alberto Granado è un biochimico generoso e dall'eloquio pronto, un po' fanfarone, determinato a conquistare donne e a festeggiare i suoi trent'anni nel cuore del continente. Con l'incoscienza e l'energia di chi si accinge ad esplorare un nuovo mondo i due amici divorano chilometri e paesaggi, polvere e incontri. Dopo qualche settimana la moto li abbandona: è in quel momento che Ernesto assume l'iniziativa e convince Alberto a proseguire con altri mezzi. Lentamente il continente sudamericano, con le sue contraddizioni, le miserie e le ingiustizie, il calore della gente, la durezza di certi colti comincia a plasmare con energia le loro coscienze. L'esperienza come medici volontari in una colonia di lebbrosi segna la maturazione definitiva delle loro convinzioni politiche e morali. La fine del viaggio è solo l'inizio di liti nuovo straordinario percorso che farà di Alberto un attore importante della Cuba post-rivoluzionaria e di Ernesto un'icona del ventesimo secolo. |
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Critica (1): | "Esistono soltanto due specie di centauri: quelli che sono già caduti e quelli che devono ancora cadere”. Questa massima motociclistica costituisce l'incipit de Il veicolo perfetto che, nella bibliografia dedicata al motociclismo come filosofia di vita, si distingue per essere stato scritto da una donna americana che ama le Guzzi. Ricordo bene questa frase perché, prima di cadere sul serio, mi ero domandato a lungo se la scivolata da fermo sul ghiaino, un tributo che ogni novizio a due ruote deve pagare, valesse l'iscrizione alla prima categoria. Evidentemente no. "Tutto considerato esistono soltanto due specie di uomini: quelli che se ne stanno a casa e quelli che non ci stanno". Questa è di Rudyard Kipling e viene facile perchè sta sulla stessa prima, pagina dello stesso libro”. Vale anche per il cinema come altrove? È un dubbio che devo ancora risolvere.
Esistono solo due specie di spettatori cinematografici: quelli che guidano una moto e quelli che non la guidano. Non c'è tempo per spiegare la differenza in termini assoluti. Nel caso specifico del film in oggetto quelli della prima categoria hanno una percezione di tutta la prima parte del film inevitabilmente viziata da una serie di riflessioni tecnico-logistico-filosofiche che ogni buon viaggiatore a due ruote non può fare a meno di svolgere: sistemazione del bagaglio, stato del mezzo, autonomia di viaggio, stupore estatico, nostalgia per ogni curva appena superata, attesa per quella successiva, apprensione per l'ostacolo, odore dell'aria. II motociclista non si limita ad attraversare spazi e paesaggi. Chi guida una moto è viaggio e paesaggio, vento e rumore. E infine racconto. E l'osservazione di altri viaggi in moto, per quanto lontani per ambizione e contesto storico e tecnico, finisce per l'assumere i contorni della sfida narrativa.
Quando l'ultimo meccanico interpellato dai due giovani emette il suo verdetto inappellabile sulla "Poderosa" c'è il rischio che, fra il pubblico, questa differenza di atteggiamento diventi insanabile. È inevitabile che lo spettatore di tipo 1 viva il lutto dell'abbandono del mezzo, quello che Alberto Granado scioglie nelle lacrime, come una frattura difficile da ricomporre, una sconfitta che muta drasticamente i confini del viaggio. Lo spettatore di tipo 2 invece tenta di interpretarlo a posteriori come un passaggio necessario e fortunato. Un'occasione per cambiare prospettiva sulle cose: per rallentare e crescere, abbandonare l'adolescenza e l'incoscienza, il furore splendido della velocità e della libertà, immersi nella luce dell'andare ma inevitabilmente lontani dalle cose. E invece il film rimane felicemente trasparente a tutti gli sguardi, capace di far coesistere le due letture concedendo loro la stessa dignità: il viaggio di Alberto ed Ernesto, d'ora in poi Ernesto ed Alberto, è una staffetta fra due visioni complementari del mondo che, sull'inerzia impressa da un'energia adolescenziale, conduce molto lontani: fino alla maturità politica e morale.
Non so se Salles sia un motociclista. Confesso che ero tentato di indagare ma poi ho preferito desistere. Meglio non saperlo. È certo che tutto quell'insistere sulle cadute che Ernesto ed Alberto affrontano prima di abbandonare per sempre la "Poderosa" è perlomeno sospetto. E solo dopo l'ultima definitiva scivolata che i due imparano finalmente a camminare: in quel momento inizia un terzo viaggio, quello della crescita interiore, che finisce per sovrapporsi ed intrecciarsi con il secondo, quello della consapevolezza politica, che i due hanno cominciato a maturare nel momento in cui il primo tragitto, una linea tracciata sulla carta del grande continente sudamericano da attraversare con le proprie forze, sfuma dai contorni del mito a quelli della vita vissuta, autentica e feroce, fatta di sudore e sangue, di terre abbandonate, di umiliazioni, di generosità, di soprusi e rassegnazione.
La leggerezza con cui Salles guida questo Mambo Tango, sincopato e curioso come tutti i ritmi latini, gli permette di affrontare altre metafore e prove simboliche, senza timore di essere deriso. Persino l'attraversamento a nuoto del grande fiume che separa i fortunati dai diseredati, che pure sfiora la didascalia, alla fine trova giustificazione e perdono nell'energia dei volti incontrati lungo il cammino, inanellati al termine del film, volti che riecheggiano le immagini del fotografo brasiliano Sebastiao Salgado. Non dimentichiamo poi che l'immagine del Che è una delle più inflazionate e mitizzate della storia del secolo e non solo a sinistra. Difficile pensare ad un pubblico più esigente di quella fascia cinefilo-intellettuale che affolla l'area politica della sinistra: il Che è una sorta di Cristo laico. Un volto raffigurato su poster, magliette, bandiere e pubblicazioni prima ancora che un modello di eroe rivoluzionario: e sappiamo quanto l'iconografia sia fondamentale per la diffusione del mito nella società postindustriale. Non deve essere stato semplice trovare la misura giusta per raccontare la trasformazione di uno studente asmatico in un eroe dei diseredati e degli oppressi. Prudentemente nel film questa evoluzione si arresta sulla soglia dell'impegno: prima delle grandi scelte, delle battaglie, della clandestinità. Prima della rivoluzione.
Ma questo non è un limite. Un invito al viaggio in un epoca in cui gli eroi sono scomparsi mentre molti oppressori ancora danzano allegri sui cadaveri è quantomeno il segno che dire qualcosa di sinistra è ancora possibile. In fondo esistono due sole specie di autori cinematografici: quelli che lo fanno e quelli che non lo fanno.
Giuseppe Ascione, SegnoCinema n. 128, 7-8/2004 |
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