Prigionieri della guerra
| | | | | | |
Regia: | Gianikian Yervant, Ricci Lucchi Angela |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura, fotografia (colore), montaggio, suono: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi; musica: Giovanna Marini, Patrizia Polia; voci: Giovanna Marini, Patrizia Polia; produzione: Museo Storico di Trento; origine: Italia, 1995; durata: 64' |
|
Trama: | Il film è composto da materiali cinematografici della Prima Guerra Mondiale, raccolti negli archivi dei grandi imperi che si fronteggiarono, in prevalenza zarista e austro-ungarico. Nel lavoro si contrappongono i "film-rapporto" militari sulle condizioni dei prigionieri di guerra, degli orfani, dei profughi (donne e bambini), e dei caduti di entrambe le parti. Eventi speculari registrati dalle "camere nemiche" ai margini delle battaglie. Movimenti e dispersioni di gruppi etnici che operarono sui vari fronti e subirono, a seguito delle sconfitte, deportazioni in luoghi lontani da quelli d'origine. Le immagini sono l'altro volto delle "scritture di guerra ", dei diari e delle lettere di soldati tirolesi e trentini che combatterono nelle file dell'esercito austriaco. Scritture da cui il film trae ispirazione. La compilazione dei materiali, attraverso tecniche di analisi delle inquadrature originarie, vuole fare riemergere quegli elementi che segnano, ripetendosi, la marcia del secolo e la sua fine, attorno ai Balcani. |
|
Critica (1): | I luoghi:
Fronte Orientale Dopo le battaglie del 1914 e 1915. Galizia, Vojvodna. Il paesaggio dopo le conquiste, le disfatte.
Siberia Prigionieri austriaci in viaggio verso la Siberia, esibiti a Mosca come trofei di guerra viventi. Il campo di prigioniia, prototipo zarista del 'gulag' staliniano.
Oberhollabrunn, Austria Il campo dei bambini. Orfani provenienti dai differenti luoghi dell'impero, figli dei soldati caduti. Bambini prigionieri della guerra.
Lager di Feldbach, Austria Organizzazione della vita nel lager dei prigionieri degli austriaci, dal gennaio al settembre 1925. Statisticamente la maggioranza dei prigionieri è russa. Lager come industria di guerra. Anticipazioni dei lager tedeschi della Seconda Guerra Mondiale.
Cimiteri di guerra e fosse comuni,Le Alpi Luogo di provenienza dei prigionieri in Siberia. Deformazioni del panorama. La guerra continua. |
|
Critica (2): | Questa volta, un po' sulla scia del loro precedente lungometraggio Uomini anni vita dedicato alla fuga e alla diaspora degli armeni di Turchia, i due cineasti hanno raccontato, con immagini ritrovate in archivi di tutta Europa, la vita dei prigionieri e profughi della prima guerra mondiale (il film è stato prodotto dal Museo Storico di Trento e dal Museo della Guerra di Rovereto). Italia, Austria, Polonia, Siberia e regioni dai nomi antichi, ormai introvabili sulle carte geografiche: Galizia, Vollvodina, Bucovina. Sfilate interminabili di soldati dalle divise ormai indefinibili (tutti i prigionieri appartengono a un unico esercito, quello dei vinti), malinconiche parate militari senza armi e con destinazione ignota. La guerra che fu detta "di posizione", vista dall'altra parte, si rivela come un lento e incessante trasferimento di masse, un peregrinare per tutta l'Europa di profughi e sconfitti. I prigionieri, a differenza dei combattenti, sono quelli che non conoscono più confini. Ma c'è anche la vita quotidiana nei campi di prigionia, ripresa dai servizi cinematografici degli eserciti a fini di propaganda, ma che si capovolge in denuncia e orrore. Ci può essere riposo, serenità, magari anche un ballo fra commilitoni. Ma nei lager austriaci predominano i rituali della sottomissione, docce, rasature, nudità, e poi il lavoro: i prigionieri diventano fabbri, panettieri, calzolai, per far proseguire la macchina della guerra, campi come fabbriche, anticipazioni e prove generali per l'organizzazione scientifica dei lager tedeschi della seconda guerra mondiale. E infine cadaveri, fosse comuni, massificazione della morte. E vengono in mente (perché i luoghi sono a volte gli stessi, e i volti lo sembrano) le immagini odierne dei profughi dei Balcani, il destino migratorio che si accompagna a ogni guerra. La colonna sonora del film, che naturalmente è muto ed ha anche eliminato le didascalie dei documentari e cinegiornali d'origine per rendere le immagini più astratte e atemporali, è di Giovanna Marini, quasi un requiem che lo accompagna di continuo, integrando rielaborazioni di canti russi ed ebraici. A Pordenone, spegnendo l'audio del proiettore, essa è stata eseguita dal vivo dalla cantante e dai suoi musicisti, in uno spettacolo non più solo cinematografico di grande emozione e bellezza.
Alberto Farassino, La Repubblica ,16 ottobre 1995 |
|
Critica (3): | So che è banale dirlo, ma Prigionieri della guerra dovrebbe essere proiettato nelle scuole. È poetico, non ideologico. Non denuncia, suggerisce. Mostra, non dimostra. Non parteggia: si schiera dalla parte dell'uomo e della sua pena. Discorre di una guerra che sembra remota, ma chi ha occhi sensibili non può non cogliere le analogie con il nostro ieri (i lager della guerra 1939-35) e il nostro oggi (la Bosnia). È il film più semplice e narrativo di Gianikian, ma la sua semplicità è la maschera di un rigore e di un pudore. "Come siamo ciechi, noi distruttori di città" (Euripide). Questo è un film che apre gli occhi senza ferirli.
Morando Morandini, Il Giorno, 24 ottobre 1995. |
|
Critica (4): | Sui colori, di solito, lavoriamo molto, interveniamo sempre. Un altro tipo particolare di intervento che facciamo sulle immagini è quello sulla velocità, sul tempo, sulla velocità di scorrimento delle immagini. Sulla velocità delle immagini originali e sulla velocità diversa che noi decidiamo di dare a queste immagini. Questo nuovo tempo può essere più lungo o più breve, possiamo accelerare o rallentare. Comunque, dietro e insieme a tutte queste faccende tecniche, c'è sempre un discorso politico. Ci siamo accorti, guardando indietro al nostro percorso, che abbiamo messo insieme, strada facendo, un lavoro di notevole valenza politica... Ci sentiamo legati alle avanguardie storiche degli anni Venti e Trenta e alle avanguardie americane e europee dei Sessanta. Ci sono ancora tanti capitoli così poco esplorati, tanti poeti del cinema che sono sconosciuti, non arrivano a nessun festival. È chiaro insomma che non ci interessa fare del cinema commerciale. Non andiamo molto al cinema. Andiamo anche a vedere del cinema "commerciale", però non è la fiction che ci interessa. Anche se è difficile mettere un confine tra fiction e documentario o ricerca. Il nostro non è neppure un cinema documentaristico. Qualcuno ci definisce documentaristi, però i nostri non sono sicuramente documentari in senso stretto.
da un'intervista a cura di Bruno Fornara, Cineforum n. 357 |
| Ricci Lucchi |
| |
|