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Vita indipendente (Una) - Samostoiatelnaia Jizn


Regia:Kanevskij Vital

Cast e credits:
Sceneggiatura: Vitali Kanevskij; fotografia: Vladimir Bryliakov; montaggio: Hèlène Gagarine; musica: Boris Rytchkov; interpreti: Pavel Viktorovich Nazarov (Valerka), Dinara Drukarova (Valya), Toshihiro Vatanabe (Yamamoto), Yelena Popova (madre di Valerka); produzione: PXP Pmductions; distribuzione: Seac film; origine: Russia, 1992; durata: 104'.

Trama:Valerka, il protagonista di "Sta' fermo, muori e resuscita", ha ormai quindici anni, ma per lui la vita a Sutchan, città-prigione dell'Estremo Oriente sovietico, è sempre la stessa: spietata e difficile. Il ragazzo vive rari momenti di tenerezza con il suo primo amore Valka, sorella di Galìa, l'amichetta complice dell'infanzia uccisa dai banditi alla fine del primo film. Bocciato ingiustamente alla scuola professionale, consapevole di aver in parte distrutto la vita di sua madre, Valerka parte per il Grande Nord, verso l'estuario del fiume Amour, alla ricerca di una vita indipendente. Viaggio iniziatico che lo porta poi a Nikolaievsk-sur-l'Amour, dove crede che viva una vecchia zia, che non ha mai conosciuto, e dove trova lavoro presso un cantiere navale. Un giorno, all'improvviso, arriva Valka, amareggiata dal suo silenzio. La ragazza si rende subito conto di quanto sia cambiato Valerka e, disperata ma lucida, lo lascia alla sua nuova vita.

Critica (1):Kanevskij riparte da dove si era fer­mato, riparte dal volto sofferto del biondo Valerka, già protagonista del suo primo film (l'attore, Pavel Nazarov, adesso è in galera per furto d'auto). Ancora una volta, ad atten­dere il ragazzino c'è un viaggio iniziatico, una fuga dall'atmosfera claustrale della piccola Soutchan che lo porterà sino ad una città portuale
del Nord del paese, presso l'estuario di un fiume siberiano. Cambia la geografia, cambiano gli spazi, ma per Kanevskij l'ex Unione Sovietica ri­mane la stessa: una terra che va rac­contata e descritta facendo ricorso ad un sostrato materico visceralmente concreto, "basso" nel senso letterale e metaforico del termine. Esistono tanti cineasti-pittori, ma Kanevskij rimane uno dei pochi cineasti-sculto­ri, capace di lavorare sporcandosi le mani, affondando le braccia in tutte le sostanze meno nobili fango, urina, sangue, merda con le quali imbrattare lo schermo, tracciare la mappa di un paese usando come punti cardinali la terra (umida, fredda, ghiac­ciata - sempre e comunque inospi­tale) e il corpo ferito, maltrattato, per­cosso, umiliato persino nei rari mo­menti in cui traspare un barlume di umanità, come quando una donna piscia addosso ad un ubriaco per evita­re che questi, disteso al suolo, si congeli). Una vita indipendente do­vrebbe essere la storia di un ragazzi­no costretto dagli eventi e dal suo ambiente a crescere in fretta, ma il talento visionario di Kanevskij fini­sce per bruciare le tappe narrative del film, per regalarci soprattutto una serie di squarci di cinema - dal cavallo che corre sulla neve nella sequenza iniziale alla nave che si allontana in quella conclusiva - che si configu­rano come entità autonome, quasi svincolate dal corso del racconto, simili a malinconici frammenti parto­riti da una immagine figlia di una memoria temprata da esperienze non certo elegiache. Come ha dichiarato lo stesso regista: "Quando Stalin morì c'era una strana specie di foschia nel­l'aria... questo film e i suoi colori partono da qui...".
Leonardo Gandini Vivi il cinema n. 51/52 magg./giu. 1993

Critica (2):Ovvero l'autobiografia possibile. Da Kanevskij a Terence Davies a Bergman (con l'aiuto di Bille August) è una delle "dritte" di Cannes '92: si può usare il cinema per raccontare se stessi, non in forma simbolica e mediata (alla Fellini o alla Truffaut), per intenderci, ma in modo dichiara­tamente autobiografico. Kanevskij lo fa dando addirittura un seguito alla sua lodatissima opera prima, Sta fermo muori resuscita premiata proprio a Cannes con la Caméra d'or. II se­condo film è al tempo stesso simile e diversissimo. È a colori mentre il primo era in bianco e nero. Ha momenti di simbolismo acceso, persino esasperato che nel primo erano assen­ti, o comunque concentrati nell'enig­matico finale. È stilisticamente più complesso e meno compatto. Ma i due film sono accomunati dallo spi­rito che li pervade: dall'assoluta disperazione dei destini dell'uomo e dell'universo, dalla volontà feroce, anche un po' esibizionista di andare al fondo dell'orrore, di rappresentare un mondo in cui tutto è lercio, schifoso, bestiale. In questo senso, il film ha momenti fortissimi e altri di totale, ubriacante gratuità. Kanevskij conferma di essere un talento origina­le, purissimo, ma giustifica in pieno anche alcuni interrogativi che aveva­no fatto capolino (almeno per noi) durante la visione del primo film. Da un lato un uomo che si è fatto otto anni di gulag per un crimine che giura di non aver commesso può dire ciò che vuole, chi siamo noi per fargli le pulci? Dall'altro, si ha la sensazione che di tanto in tanto Kanevskij voglia stupire, ad ogni costo, caricando ogni sequenza di un disagio davvero insostenibile. La storia di Valerka (il gio­vane teppistello del primo film, pro­iezione autobiografica, come si diceva, dello stesso regista) diventa così un viaggio nella condizione umana che si trasforma in condizione animale. E per certi versi gli animali (il maialino sgozzato, i topi incendiati) diventano i veri protagonisti sacrificali del film. Alla fine fa capolino una domanda: l'autobiografia è possibile, ma per Kanevskij sarà anche possibile in futuro parlare d'altro, o è un cineasta destinato a rinchiudersi nel cliché di se stesso) Risponderà il terzo film, quanto mai decisivo.
Alberto Crespi, Cineforum n. 314 giugno 1992

Critica (3):

Critica (4):
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