Figli della notte (I)
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Regia: | De Sica Andrea |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Andrea De Sica, Mariano Di Nardo, Gloria Malatesta; fotografia: Stefano Falivene; musiche: Andrea De Sica, Leonardo Rosi; montaggio: Alberto Masi; scenografia: Dimitri Capuani; costumi: Sabine Zappitelli; suono: Antoine Van den Driessche; interpreti: Vincenzo Crea (Giulio), Ludovico Succio (Edoardo), Fabrizio Rongione (Mathias), Yuliia Sobol (Elena), Luigi Bignone (Riccardo), Pietro Monfreda (Paolo), Michael Bernhard Plattner (Michi), Dario Cantarelli; produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Joseph Rouschop, Valerie Bournoville per Vivo Film con Rai Cinema, in coproduzione con Tarantula; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia-Belgio, 2016, durata: 85’. |
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Trama: | Giulio, 17enne di buona famiglia, si ritrova improvvisamente catapultato nell'incubo della solitudine e della disciplina di un collegio per rampolli dell'alta società, dove vengono formati i "dirigenti del futuro". L'istituto è situato tra le montagne delle Alpi, le regole sono rigide e ferree e il nonnismo dei ragazzi più anziani non rende certo più semplice la vita di Giulio. L'unico conforto per lui diventa l'amicizia Edoardo, anche lui ospite del collegio. I due ragazzi ben presto diventano inseparabili, complici le scappatelle notturne dalla scuola-prigione e la frequentazione della giovane prostituta Elena. La trasgressione, però, fa parte dell'offerta formativa: il collegio è a conoscenza del locale e delle uscite notturne e gli educatori, tra cui Mathias, vigilano costantemente senza farsi notare... |
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Critica (1): | Sembrerebbe un sanatorio, sul filo della Montagna incantata di Thomas Mann; oppure un albergo montano con inclinazioni termali come quello de La giovinezza di Paolo Sorrentino. Invece è un collegio d’alta quota, geografica e sociale, dove giovinetti di buona famiglia vengono inviati ad imparare l’arte del comando e i fondamenti dell’economia inflessibile. E dove Andrea De Sica, 36 anni, nipote di Vittorio e figlio del compianto Manuel e della produttrice Tilde Corsi ambienta I figli della notte (...) in un esordio scrupoloso, austero e disseminato di non banali relazioni cinematografiche.
Ne è protagonista Giulio (Vincenzo Crea), mite diciassettenne destinato come tutti gli altri ragazzi che colà soggiornano, a “ritrovare il giusto passo” come recita lo slogan del college e a far parte di una futura classe dirigente. Se non che i metodi di quella scuola isolata dal mondo si rivelato tostissimi nell’inflessibilità dell’educazione, nell’autoritarismo dell’insegnamento e nella grevità delle regole che oscurano internet e concedono il campo telefonico soltanto mezz’ora al giorno.
Come se non bastasse, non senza la silenziosa connivenza della direzione, alle “reclute” tocca di sopportare, come prove fortificanti, le incursioni di feroce e sadica matrice bullistica da parte dei veterani: tutto questo accade, come d’altra parte il resto del vivere quotidiano in quel luogo, sotto l’occhio vigile di telecamere sparse in ogni dove, deputate al controllo totale delle attività dei ragazzi.
Una trappola carceraria, insomma. Alla quale Giulio incomincia a sottrarsi quando fraternizza con Edoardo (Ludovico Succio), un suo coetaneo considerato difficile e ribelle che a poco a poco lo induce a trasgredire e a non considerare più invalicabile il recinto del collegio. Tanto che i due, a furia di organizzarsi in scorribande notturne nella foresta circostante, s’imbattono in un club ricco di succinte danseuses esperte in esibizioni lap e confidenze intime, dunque un lupanare che non è detto sia peggiore del collegio.
Anzi. I giovinetti, inclini alle tentazioni della carne e soggetti a comprensibili esortazioni ormonali cedono facilmente alle lusinghe femminili, specie Giulio che finisce addirittura per innamorarsi senza scampo della giovine e ovviamente graziosa prostituta Elena (Yuliia Sobol) con la quale intreccia un rapporto intenso e coinvolgente.
Niente sfugge alla direzione, neppure quelle escursioni notturne diventate frequentissime e mai ostacolate perché considerate parte del percorso formativo. E viene il sospetto che ogni evento sia addirittura, se non organizzato, almeno “previsto”. Meno prevedibile, piuttosto, un cupo dramma che incombe sul finale e che logicamente non va svelato: preceduto dalla scoperta, da parte di Edoardo, di una zona proibita all’ultimo piano del collegio dove albergano, remoti, dolenti e malinconici, fantasmi di ragazzi provenienti da un oscuro passato.
È cinema d’atmosfera, di caratteri, di smarrimenti in un luogo carico di misteri e di ombre. L’azione è misurata, i toni sono improntati al rigore e alla severità nella descrizione di problematiche individuali e collettive fra quei ragazzi che a momenti sembrano usati come cavie d’una fosca pratica antropologica e sperimentale. De Sica, anche autore della sceneggiatura insieme con Mariano Di Nardo in collaborazione con Gloria Malatesta, effettua una pastosa ricognizione su molti generi e film di riferimento pure conservando e difendendo una precisa identità narrativa.
Si potrebbero citare (certo con le distanze dovute) titoli, tematiche e cineasti, da Shining ai molti Games di distopia fantascientifica, al trio dei David (Lynch, Fincher e Cronenberg) , al Lars von Trier di The Kingdom fino, per tornare in Italia, a Saverio Costanzo. Ma, come detto, il racconto mantiene una sua metodica e attenta tipicità, grazie anche ad una fotografia (di Stefano Falivene) capace di generare suggestioni tra penombre, bagliori, controluce e movimenti di macchina inattesi o striscianti (piacerebbe immaginare in soggettiva di chissà quale entità) lungo i corridoi a sostenere la traccia di un confine, assai presente qua, fra la realtà manipolata e l’horror.
Dimensioni e climi inquietanti che trovano una risposta densa e a tratti cavernosa nelle belle musiche scritte dallo stesso De Sica con intenti ora di semplice attrazione ora di sospensione, fino all’attesa ambigua e allarmante, alla premonizione di eventi funesti: ad accompagnare nelle giuste condizioni e cornici una storia che solo nell’ultima parte, pur conservando un suo smalto, sembra stemperare armonia e compattezza favorendo un certo trabocco drammatico e qualche passaggio un po’ sopra le righe nella concentrazione dinamica dell’azione. Ma anche questa, se si vuole, è una “virtù” dell’opera prima.
Claudio Trionfera, panorama.it, 1/6/2017 |
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Critica (2): | L’unico titolo italiano in concorso al Torino Film Festival è I figli della notte di Andrea De Sica, figlio di Manuel e nipote di Vittorio, insolito romanzo di (de)formazione dove l’adolescente Giulio (Vincenzo Crea) è messo dalla madre, vedova e business-woman, in un collegio che dovrebbe formare la «futura classe dirigente» e che metterà il ragazzo di fronte a un intreccio di solitudini, rigidità, nonnismo e voglia di trasgressione. Ma al di là di qualche ingenuità tipica degli esordi, con le «inevitabili» citazioni cinefile dall’Overlook Hotel di Shining o dallo Steve McQueen che gioca con la pallina in La grande fuga, la bella idea di De Sica è quella di intrecciare l’atmosfera astratta e soffocante del collegio con le ambizioni semi-orrorifiche della favola nera (per evadere dalla rigidità quotidiana, Giulio fugge di notte attraverso un bosco sospeso tra incubo e sogno) e la concretezza carnale di una casa dove tutto sembra sciogliersi nelle più volgari delle tentazioni.
Niente però è davvero come sembra, né la sicurezza trasgressiva dell’amico Edoardo (Ludovico Succio) che si spinge verso la libertà facendosene poi atterrire, né la scoperta dell’amore con la sensuale Elena (Yuliia Sobol), che ai sentimenti preferirà sempre il proprio concreto interesse. Ne esce così un film insolitamente duro, che invece di compatire le solitudini affettive e morali dei suoi protagonisti preferisce spingerli verso scelte sempre più radicali e che, in controtendenza con un cinema italiano tanto garrulo quanto vacuo, vuole offrire un ritratto per niente consolatorio di una gioventù «senza» genitori (non se ne vede uno), lasciata sola davanti alle sue solitudini e alle sue debolezze.
Paolo Mereghetti, corriere.it, 25/11/2016 |
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Critica (3): | Più spesso figli e nipoti d'arte seguono le orme dei loro predecessori; ma non mancano i casi in cui — invece — adottano stili diversi o addirittura opposti. Pensiamo al debutto nel lungometraggio del trentacinquenne Andrea De Sica, nipote del grande Vittorio. Non che il nonno fosse solo (neo)realismo, questo no (basti pensare a Miracolo a Milano): però difficilmente lo avremmo immaginato alla regia di una fiaba nera con sfumature orrorifiche. Il soggetto fa pensare un po’ a Nel nome del padre di Marco Bellocchio, un po’ all’Infanzia di un capo, il racconto di Jean-Paul Sartre compreso nella raccolta Il muro.
Orfano di padre, il sedicenne Giulio viene spedito dall'occupatissima mamma in un collegio sperduto tra le Alpi che somiglia all’Overlook Hotel di Shining. Si tratta in realtà di una scuola destinata alla futura classe dirigente, dove i rampolli delle famiglie ricche devono imparare a obbedire per imparare a comandare. C’è una stretta disciplina da rispettare: una specie di reclusione senza svaghi, senza Internet e con mezz’ora di cellulare al giorno. In compenso il menu prevede il nonnismo dei collegiali veterani: bullismo che, non troppo in fondo, fa parte anch’esso del "sistema educativo" e che il preside non ha alcuna intenzione di sanzionare. Dopo lo spaesamento iniziale, Giulio stringe amicizia col coetaneo Edoardo; e insieme a lui comincia a compiere fughe sistematiche verso il bosco che circonda il collegio. Dove si trova un "luogo di perdizione" opposto-complementare a quello: un locale notturno popolato di prostitute, tra cui la giovanissima Elena.
Girato interamente in Alto Adige, in un antico hotel di Dobbiaco, il film trae vantaggio dall’utilizzo di pochissimi set, che la macchina da presa di De Sica (già assistente di Bertolucci, Vicari, Ozpetek) attraversa con una sicurezza e una competenza visiva tutt’altro che scontate per un debuttante. Il regista (…) osa assumersi i compiti di autore a tutto campo. Oltre a dirigere, cura anche le musiche originali ("un omaggio a mio padre") e scrive la sceneggiatura a quattro mai con Mariano Di Nardo. Ed è nella scrittura drammaturgica che il film sconta una certa debolezza, introducendo verso il finale qualche presenza fantasmatica, forse non strettamente necessaria. Fin lì era andata assai bene l'atmosfera sospesa e semi-onirica, saggiamente priva di toni (auto)ironici ma con un sottotesto discreto di satira sociopolitica (salvo gli "educatori" i maggiorenni sono assenti, o si riducono a una voce al telefono). Acuti anche il modo in cui il film marca l'età dei protagonisti, nel passaggio indefinito e confuso verso la condizione di adulti, e l'ambiguità nel descrivere il personaggio dell’educatore Mathias (lo interpreta Fabrizio Rongione, attore di fiducia dei fratelli Dardenne). Però quel che ci persuade di essere di fronte a una "scoperta" interessante è soprattutto una scena, ispirata e sorprendente: quella in cui Giulio ed Edoardo collaborano all'evasione del primo, sulle note di Vivere cantata da Luciano Pavarotti.
Roberto Nepoti, repubblica.it, 1/6/2017 |
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