Diario di un vizio
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Regia: | Ferreri Marco |
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Cast e credits: |
Soggetto: Liliana Betti; sceneggiatura: Marco Ferreri, Liliana Beni, Riccardo Ghione; fotografia: Mario Vulpiani; musica: Gato Barbieri; montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia: Tommaso Bordone; costumi: Maria Camilla Righi; suono: Giuseppe Muratori; interpreti: Jerry Calà (Benito), Sabrina Ferilli (Luigia), Massimo Bucchi (il prete), Valentino Macchi (Chiominto); produzione: Vittorio Alliata, per Società Olografica Italiana; distribuzione: I.I.F.; origine: Italia, 1993; durata: 100'. |
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Trama: | Benito vive in squallide pensioni romane e cerca di fare qualche soldo vendendo detersivi per gabinetti, Ha un vizio: considerare gli ultimi ricordi patrimonio da non sciupare. Perciò tiene un diario, dove registra tutti i microeventi della sua giornata. Specialmente gli incontri con le donne e le relative "perdite". Perdite che con Luigia, cameriera d'albergo, sono particolarmente gradite. |
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Critica (1): | Dal diario di Benito: "Cuore: palpiti un poco la notte per agitazione del giorno (pianto) o per latte freddo. Nervi: spezzata continuità positiva per aver avuto contatto con ragazza quindi perdita (tram). Capelli venuti male". L'esperimento di Ferreri è filmare le parole del diario. È chiaro che ciò non può essere. II diario, verbale, e il film, iconico, sono dimensioni irriducibili. Si dice che il regista abbia inventato per questo film una "Nuova Scrittura" (sì, con la maiuscola) cinematografica. L'intuizione vera era tuttavia un'altra: realizzare un film muto. Mi spiego. Le pagine del diario sono spesso utilizzate come cartelli e didascalie che accompagnano, con più o meno ridondanza, le sequenze visive. Ma le sequenze visive, con il suono in presa diretta, rimandano immediatamente alle esperienze del cinema diretto. Allora: le parole del diario e dei personaggi non intendono comunicare nulla, ma si offrono come materiale cinematografico tra gli altri, come un passaggio, una luce, un carrello. II film è così un tentativo di educazione all'immagine, un esperimento didattico, dove la dimensione narrativa, il racconto, è solo il racconto dell'immagine che si costruisce accanto alle altre immagini. Detto così, sembra il trionfo dell'armonia e del paradiso del metacinema, finalmente liberato da ghirigori letterari e stupide tentazioni elettroniche. Detto così, ci sentiamo persino (finalmente?) liberi dal rendere conto della storia, dei caratteri, del messaggio. Ma non è solo così. Il film è subito, con grande evidenza, una favola, e favola vuol dire narrazione: Benito è l'eroe puro e sincero; Luigia la ragazza dal cuore d'oro; Roma il luogo degli incontri e delle avventure; il tram la carrozza dei giovani innamorati. Di Roma, ancora Ferreri, che cura, credit alla mano, l`"ambientazione", sceglie zone e quartieri (Santa Maria Maggiore, San Lorenzo) che riconsegnino alla città una dimensione vergine di piccolo teatro del popolo. Esattamente il contrario di Luigi Magni, che colloca l'interprete di chiara fama sotto un pezzo classico di architettura capitolina che si fa subito fondale scenico del grande, tradizionale e fisso, melodramma della Storia. Ferreri, invece, libera le sue figurine, Calà e Ferilli (anche se quest'ultima fugge di mano, che da figurina si solleva a unica vera attrice del film), per case e strade di alcuna gloria e nessuna tradizione, fondale scenico neutrale e disponibile appunto per la narrazione di una favola. Il diario e così il tramite grazie al quale il mito, il racconto originario, si tramanda sotto forma di fiaba. La sceneggiatrice Liliana Betti, già collaboratrice di Fellini, confessa di aver basato il copione su un diario effettivamente abbandonato e rinvenuto in una pensione romana. II diario proveniente dal nulla, dall'abisso dei giorni come dei mesi e degli anni, e dunque il materiale mitico su cui il cinema innesta le proprie capacità affabulatorie. E qui Farai ha tentato l'operazione, forse inconsapevolmente, del linguaggio del muto: brevi sequenze autosufficienti, sviluppo pretattico dell'azione, didascalie e cartelli, rifiuto del prologo del nodo della catastrofe e dell'epilogo, mobilità dei personaggi all'interno dell'inquadratura, predilezione per il piano americano, dal ginocchio in sù, al fine di fluidificare al massimo lo scorrere della sequenza senza ricorrere a ritagli ulteriori di spazi, in dettaglio o in panorama. Così operando l'autore si scontra frontalmente col contesto di ricezione a cui il suo prodotto non può sottrarsi. Il linguaggio del muto, a noi ricettori di oggi, appare barocco, mentre la favola, per noi smaliziati divoratori di immagini, e accettabile solo se venata di una forte e decisa ironia. E invece qui il linguaggio delle immagini ha come unico imperativo la sobrietà (innescando qualche sospetto inerente il cosiddetto diritto d'antenna. Intendo dire che magari di nuovo inconsapevolmente, il film grazie alla secchezza delle sequenze riuscirà a distribuirsi opportumamente lungo il frammentato e blobbato passaggio televisivo). Riguardo alla favola, poi, e indubbio come le valenze generalmente antropologiche, di vero e proprio "discorso sull'uomo" (d'altro canto tipico di Ferreri) siano prese qui dannatamente sul serio, nella tentazione di elevare a oggetto di culto quel diario che la sceneggiatrice ha fortuitamente scovato nella "realtà", simile ad un oggetto pompeiano scampato alla lava dopo l'eruzione del Vesuvio. Senza ironia e vena barocca, ma con semplicità e direi quasi un'austerità del tema affrontato, il film innesca quell'opzione del gusto che ormai appare una costante del cinema contemporaneo. Ossia: o si considera il regista autore qualcuno che, fattosi pietra, assume soltanto il ruolo del ripetitore di immagini e suoni che si incrociano anche per caso in un punto dello spazio e del tempo; oppure si saluta l'autore regista come colui che sa riconsegnare la perduta verginità al linguaggio del cinema grazie alla sua anima di eterno e immaginifico bambino: Io qui scommetto, purtroppo, sulla seconda ipotesi.
Flavio De Bernardins, Segno Cinema n. 60 marz-apr. 1993 |
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