Padrone di casa (Il) - Du Skal aere din Hustru
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Regia: | Dreyer Carl Th. |
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Cast e credits: |
Soggetto: dalla commedia Tyrannens Fäld (La caduta del tiranno) di Sven Rindom; sceneggiatura: Carl Th. Dreyer, Sven Rindom; fotografia: Georg Schnéevoigt; scenografia: Carl Th. Dreyer; interpreti: Johannes Meyer (Viktor Frandsen), Astrid Holm (Ida Frandsen), Karin Nellemose (Karen), Mathilde Nielsen (Mads), Aage Hoffman, Byril Harvig (i figli), Clara Schönfeld (la signora Krigger), Petrine Sonne (la lavandaia); produzione: Palladium Film/A-S Dansk Filmindustri; origine: Danimarca, 1925; durata: 106’. |
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Trama: | Il film è noto anche con il titolo italiano "L'angelo del focolare"
Viktor Frandsen, di professione meccanico di precisione, in famiglia è un vero despota. La moglie Ida è dolcissima, e attende con cura e affetto ai bisogni del marito e della figlia Karen. Ma questo non basta perché l’uomo si addolcisca. Mads, la vecchia nutrice di Viktor, si rende conto della situazione e ne informa la signora Krigger, madre di Ida. Quando Ida si ammala, la signora Krigger la spedisce in campagna a curarsi, proibendo a Viktor qualsiasi contatto con la figlia. A questo punto Mads prende in mano la situazione. Si installa in casa Frandsen e, o per amore o per forza, induce Viktor a rivedere radicalmente i suoi comportamenti. Al suo ritorno dal periodo di convalescenza, Ida troverà Viktor completamente cambiato. |
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Critica (1): | Du Skal aere din Hustru, realizzato in Danimarca nel 1925, focalizza con un linguaggio scaltrito e consapevole un dramma intimistico collocato in uno spazio-ambiente quotidiano e risolto in una atmosfera “realistica” esterna alla mondanità enfatica di Michael. Analoga è però l’intenzione di trasformare il film nel luogo di un’introspezione psicologica, facendo della macchina da presa lo strumento privilegiato per scoprire la convenzionalità dei gesti, l’ipocrisia dei comportamenti, l’impossibilità di attuare il desiderio. Fedele al presupposto teorico del cinema come rivelazione dell’aspetto alienato o patologico della vita, Dreyer prosegue in Du Skal aere din Hustru l’analitica psico-esistenziale inaugurata con Praesidenten, inserendola in uno schema di rappresentazione dove il numero ridotto dei personaggi e l’essenzialità della scenografia riflettono una concezione della messa in scena legata alla recente esperienza tedesca del Kammerspielfilm e, più ancora, alle suggestioni da Intima Teatern della tradizione culturale scandinava. Tratto da Tyrannens Fäld, una modesta commedia di Svend Rindom, Du Skal aere din Hustru ripropone, con maggior autorevolezza rispetto a Praesidenten, il problema dei rapporti tra cinema e teatro. È il tentativo di costruire una forma filmica libera dai condizionamenti dell’estetica della scena. Ponendosi in quest’ottica e procedendo secondo un calcolo arrischiato ma vincente, Dreyer riesce a risolvere l’immediatezza del dialogo teatrale nella materialità della scrittura filmica. Con un lavoro concentrato sulle pertinenze semiotiche dell’immagine, il regista si occupa in primo luogo dell’elaborazione visiva del dialogo teatrale: vuole evitare l’uso meramente funzionale della didascalia, l’ingenuità di un espediente narrativo estraneo alla struttura dei singoli piani e alla loro articolazione complessiva nel montaggio. La didascalia rinuncia ad essere semplice supporto esplicativo dell’azione, diviene scambio dialogo realizzato in termini di grafia, parola scritta che presentifica, secondo una pregnanza tipografica, la tensione psichica dei personaggi, partecipa all’evoluzione drammatica del racconto, si colloca strutturalmente nella continuità diegetica del film. Utilizzando in questo modo la didascalia, Dreyer può accentuare il lavoro specifico sull’inquadratura e intensificare la valenza semiotica dei gesti e dei comportamenti, per conseguire nella materialità dei piani la dimensione dialogica della rappresentazione teatrale: per risolvere, insomma, nella successione silenziosa delle immagini, l’immediatezza della parola detta, del testo recitato. La lentezza del ritmo dell’azione e la teatralità della messa in scena, spesso notate dalla critica a proposito di Du Skal aere din Hustru, trovano allora motivazioni diverse, più sottili. Non dipendono dalle carenze espressive o dall’arretratezza teorica della regia, ma rivelano una scelta stilistica che mira a ottenere una forma filmica come struttura semiotica complessa. Lo sforzo di individuare i codici specifici della visione filmica per riscattare il cinema dalla subordinazione all’estetica teatrale, costituisce quindi il dato più rilevante di Du Skal aere din Hustru, la cui tematica, per quanto significativa, riecheggia schemi consueti nella cinematografia degli anni Venti. La vicenda si rifà alla quotidianità e all’autoritarismo, alla mortificazione e alla ripetitività, ossia ad alcuni dei motivi più ricorrenti nel cinema dreyeriano. Basato su un racconto intimistico, il film ricostruisce la parabola di Viktor Frandsen, un marito piccolo-borghese il cui atteggiamento patriarcale, legato a un clichè genericamente maschilista, viene ridimensionato dall’intervento di una matriarca, l’anziana governante Mads (un altro riuscito tipo nella galleria dei vecchi dreyeriani), che lo costringe alla resa e lo consegna a una restaurata armonia domestica. Siamo dunque nell’ambito delle contraddizioni del Masse-Mensch, nello spazio della falsa coscienza borghese che, incapace di procedere oltre il travestimento elegiaco delle proprie frustrazioni socio-esistenziali, si inserisce in uno schema obbligato, fra i termini solo in apparenza antitetici dell’autoritarismo e della subordinazione. E poiché la situazione di Viktor è proprio quella di una razionalità irrazionale, l’evoluzione del racconto, che sostituisce alla tirannia immotivata dell’inizio la resipiscenza generica dell’epilogo, delinea uno sviluppo inesistente perché fondato su premesse ideologiche e valori capaci di costruire solo relazioni approssimative, staccate dalla realtà delle contraddizioni socio-economiche. Storia di una presa di coscienza che è in realtà regressione a una totalità prerazionale attraverso le gratificazioni mistificanti dell’etica del senso comune, Du Skal aere din Hustru coglie però correttamente nel personaggio di Viktor il dramma della coscienza estraniata. Sottomesso all’universo del lavoro serializzato (la qualifica professionale di Viktor è, appunto, quella di meccanico di precisione), il protagonista non può fare a meno di riprodurne la struttura autoritaria nell’ambiente familiare, secondo squallidi rituali che nascono dalla degradazione delle istanze desideranti, dal processo per cui la ragione soggettiva “perde ogni spontaneità e produttività, ogni capacità di scoprire e affermare contenuti nuovi” (Max Horkheimer, Eclisse della ragione, Torino, Einaudi, 1969, p. 52). Ma, proprio perché insiste sulla sclerosi interiore di Viktor, la tematica del film individua anche – inquadrando in modo problematico il personaggio di Ida – le inquietudini e la sofferenza della donna all’interno della morale sessuoeconomica borghese, e aggredisce i presupposti canonici della superiorità maschile, denunciando la mistificazione ideologica insita nella mitologia familiarista dell’“angelo del focolare”. (E L’angelo del focolare è, precisamente, uno dei titoli dell’edizione italiana del film). Du Skal aere din Hustru diviene perciò un atto d’accusa contro un sistema socio-economico che, sotto i veli seducenti della sublimazione ipocrita del foyer, realizza l’effettiva (storica) oppressione-strumentalizzazione della donna, la sua definitiva segregazione in un ruolo subalterno. Poiché la vicenda narrativa insiste sulla depersonalizzazione del soggetto e sulla qualità degradata della vita, la ripetitività dei comportamenti dei protagonisti si affianca alla serialità degli ambienti e delle cose. Così lo spazio filmico è caratterizzato dallo spessore materico degli oggetti. Il racconto, intessuto di ossessivi rituali familiari, si svolge sulla base di un vasto repertorio oggettuale, in cui rientra una realtà minuta fatta di scarpe da risuolare, di biancheria da stendere, di orologi a pendolo, di stufe, di tavoli da cucina, di tartine imburrate, di stoviglie: tutti segni di un elementare sistema di significazione che costituisce la spia del rigore della messa in scena. Analisi spietata (un altro aspetto della “crudeltà” del regista) di un comportamento egoistico, trascrizione di un mondo oppressivo, la cui negatività è sottolineata per contrasto dal sentimentalismo di un epilogo giocato sul trionfo patetico del cuore (non a caso raffigurato sul bilanciere della pendola), Du Skal aere din Hustru sembra riassumersi tematicamente nell’immagine della gabbia. Simbolo evidente di una condizione coattiva e frustrante, l’oggetto in questione allude al ruolo subalterno della donna nel quadro della famiglia autoritaria, e definisce l’ambiente domestico, il foyer, come sistema cellulare, luogo che secerne l’alienazione psicoesistenziale del soggetto. La problematica di Du Skal aere din Hustru non rimanda a valori ideologici estranei allo spazio filmico. Bloccata dentro un complesso organico di segni interconnessi, Ida è prigioniera degli oggetti seriali e dei ruoli coattivi dell’ambiente domestico: la sua patologia intimistico-familiarista dipende dall’atmosfera che l’avvolge causando lo spegnimento del desiderio e la reificazione degli istinti. Come nei film precedenti, ma in misura ancora più accentuata, la struttura scenografica è una componente determinante per precisare la tipologia dei personaggi e delineare la Stimmung complessiva del racconto. Denuncia radicale dell’ideologia paranoico-familiarista, Du Skal aere din Hustru esige una scenografia “realistica” che si faccia espressione visiva di un milieu, mimesi degli spazi seriali e degradati della vita piccolo-borghese. E questa esigenza di ottenere la “verità” visiva degli ambienti, traducendosi nell’uso efficace del particolare rivelatore (gli oggetti) e nella definizione puntuale dell’insieme (il décor), diventa ossessione di realismo, intenzione di intervenire analiticamente sul reale per smontarlo e rimontarlo, o meglio per de-costruirlo, estraendone la cifra spettrale, il “di più” occultato nelle costrizioni della quotidianità reificata. Dramma intimistico in un ambiente chiuso, Du Skal aere din Hustru sottolinea del tutto conseguentemente l’importanza del vedere, la tensione dinamica prodotta dallo sguardo. L’occhio funziona dunque da elemento drammatico. Scorge il significato delle azioni, scopre la spontaneità dei gesti o rivela la patologia dei comportamenti, come nel caso degli sguardi furtivi lanciati da Karen, la figlia di Viktor, attraverso i battenti socchiusi della porta; o, più ancora, quando Ida, nascosta nell’armadio, spia l’inquietudine e la resipiscenza del marito prima della riconciliazione finale. In questa prospettiva, l’occhio dei personaggi, divenendo strumento di decifrazione di stati psicologici e di atteggiamenti, contribuisce alla organizzazione drammatica dell’inquadratura e accompagna l’attività voyeuristica della cinepresa: a mano a mano che essa esegue gli spostamenti degli sguardi degli attanti, individua a sua volta linee-forza, stabilisce ritmi dinamici, genera tensioni emotive, favorisce l’evolversi della vicenda. Du Skal aere din Hustru precisa così i termini essenziali della retorica dell’immagine perseguita da Dreyer e la tipologia dinamico-strutturale del racconto, che si manifesta in un ritmo lento, dove l’assenza di avvenimenti sconvolgenti rivela la tensione esistente nell’orizzonte del quotidiano e lacera la maschera ipocrita dell’ordinamento borghese della vita.
Piergiorgio Tone, Dreyer, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1978 |
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| Carl Th. Dreyer |
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