Pattuglia sperduta (La) - Vecchio Regno
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Regia: | Nelli Piero |
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Cast e credits: |
Soggetto: Franco Cristaldi, Yvonne De Begnac, Oscar Navarro, Piero Nelli; sceneggiatura: Franco Cristaldi, Yvonne De Begnac, Oscar Navarro, Piero Nelli; fotografia: Alfieri Canavero; musiche: Goffredo Petrassi, dirette da Giovanni Fusco; montaggio: Enzo Alfonsi; scenografia: Alberto Da Corte, Arturo Midana; interpreti: Giuseppe Aprà (Tenente Airoldi), Annibale Biglione (Soldato Barra), Giovanni Cellerini (Soldato Ronco), Benito Dall'Aglio (Soldato Malan), Sandro Isola (Capitano Salviati), Giorgio Luzzatti (Valfre'), Giuseppe Natta (Soldato Capai), Giovanni Raumer (Vecchio Sergente Brofferio), produzione: Franco Cristaldi per Vides Cinematografica; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1954; durata: 97’. |
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Trama: | Ai primi di marzo del 1849 si notano i segni precursori della guerra che sta per riaccendersi: borghesi, contadini, operai, studenti del Piemonte e di ogni altra regione d'Italia vanno ad ingrossare le file dell'esercito sardo, attestato sulla linea di armistizio del Ticino. Una pattuglia di otto uomini, comandata dal capitano Salviati, in servizio di avanscoperta lungo le rive del fiume, il 20 marzo, all'inizio della battaglia di Novara, in seguito allo svolgersi dei successivi eventi, viene tagliata fuori dal grosso delle truppe ed abbandonata a se stessa nel territorio ormai tenuto dal nemico. La pericolosa avventura di questi otto uomini che in quei giorni furono i soli a portare la divisa italiana nella risaia tra Pavia e Vercelli, occupata dalle truppe del Maresciallo Redetzky, si conclude al tramonto del 23 marzo 1849 sulla pianura di Novara, dove si è combattuto aspramente. |
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Critica (1): | Fino dal tempo dell'unità, in Italia, il problema della creazione di una narrativa risorgimentale, capace di interpretare il movimento nazionale come parte caratteristica e integrante del più grande movimento europeo, attende la sua risoluzione. Il Risorgimento, narrativamente costretto negli schemi di un'aulica retorica di parte, o limitato nel bozzetto di cronaca, non è andato oltre l'interesse di un fatto folcloristicoregionale. Raramente l'avventura e l'umanità di quel non remoto periodo hanno trovato modo di raggiungere un livello nazionale-europeo. Le esperienze e i tentativi di questo genere in letteratura sono assai pochi, eccezionali in cinema dove l'unica memoria risale all'ormai lontano 1860 di Alessandro Blasetti.
L'interesse per questo problema è stato riproposto, insieme ad altre esigenze, dal realismo, che, partendo da un'interpretazione nazionale della realtà sociale italiana, ha posto i termini per approfondire storicamente l'origine di questa realtà. Né del resto a questa esigenza culturale è insensibile oggi la nazione dove sempre più viva si va diffondendo e rinnovando un interesse per il nostro passato. Con indirizzo realistico quindi, con una accurata indagine storica guidata dal prof. Piero Pieri, partendo dai presupposti storici e culturali anzidetti, la Casa produttrice ha voluto iniziare la sua attività nel campo dei film a lungometraggio affidandomi la regia di Vecchio regno. Il fatto che per un film impegnativo e difficile essa abbia voluto affidare a me, che sono per la prima volta di fronte a un film a lungometraggio, la regia, e ad Alfieri Canavero, anch'egli per la prima volta impegnato nella responsabilità del primo operatore, la fotografia, rende indubbiamente di particolare interesse questa realizzazione.
La mole di problemi che ci sta di fronte è senz'altro imponente, e forse saremo manchevoli in molti punti; comunque ci auguriamo che le intenzioni e le speranze che ci guidano nella realizzazione di questo racconto cinematografico riusciranno a far sì che il film risulti un contributo efficace al generale problema della narrativa risorgimentale. Quale il modo, quale la via narrativa da seguire per fare un Risorgimento (più ampiamente un Ottocento italiano) che non sia né retorico, né bozzettistico?
Evidentemente, a, mio avviso, quella capace di superare le aureole e i limiti del tempo, per un'interpretazione drammaticamente moderna dei fatti storici, una interpretazione cioè capace di raccontare la storia come vita degli uomini. Ciò che avvenne nel lontano 1849, sui campi della pianura piemontese, non è mito, né cronaca, ma sono le azioni, gli stati d'animo degli uomini di allora che vivendo la loro avventura facevano la storia del loro tempo.
Su questo rapporto dialettico, appunto, è imperniato tutto il film, che è la storia di una pattuglia dell'esercito sardo-piemontese comandata, alla vigilia della campagna del 1849, di compiere una missione apparentemente facile. I casi della guerra vogliono che la semplice operazione militare si trasformi in una drammatica marcia in mezzo alle truppe austriache che hanno invaso la risaia piemontese. Durante questa marcia la pattuglia si assottiglia sempre più, alla fine degli otto componenti non ne sono rimasti che quattro; ma vivi o morti tutti hanno acquistato e sono divenuti i simboli di quella coscienza nazionale che al di là della disfatta di Novara fece dell'Italia una nazione moderna. La formazione, lo sviluppo, la prova concreta dell'acquisizione di questa coscienza è data narrativamente dall'alternarsi della marcia della pattuglia con la cronaca della disastrosa guerra del 1849, caratterizzata dall'invasione austriaca. In questo contrappunto è la chiave del film che usa, appunto, la cronaca dell'invasione austriaca come momento documentaristico e la marcia della pattuglia come momento psicologico.
Per quanto riguarda i personaggi li abbiamo scelti, come si suoi dire, «dal vero», da un vero che ieri, nel 1849, li avrebbe fatti essere i possibili componenti di una pattuglia dell'esercito sardo-piemontese. Di loro, infatti, non si vuole fare degli attori, cercando di forzare il loro modo di essere, di esprimersi e di muoversi, sino a portarlo a quello di una recitazione da attori. Come sono nella loro vita, così sono nella vita del film, cosicché all'infuori della necessaria preoccupazione tecnica del movimento obbligato e dello sguardo grammaticalmente giusto tutto è lasciato a loro stessi.
Questa impostazione di recitazione, ovviamente, non è staccata da una più vasta impostazione stilistica che trascura di creare l'effetto drammatico sequenza per sequenza, attraverso fatti e avvenimenti sensazionali, ma si affida, piuttosto, a un effetto generale che dovrebbe dare del Risorgimento un'idea drammatica, avventurosa, mossa da personaggi vivi, narrativamente moderni. Questa preoccupazione di rendere vivo, e quindi comprensibile drammaticamente il Risorgimento, attraverso una «maniera moderna» di raccontarlo, spoglia o quasi, di quegli elementi di cronaca, di costumi, di fantasia del tempo, potrà forse rendere eccessivamente scarna l'atmosfera del mio film; ma come ho detto più avanti in questa prima esperienza tutte le mie intenzioni sono soprattutto rivolte a dare un contributo efficace alle questioni di struttura del problema della narrativa risorgimentale, che è quanto dire trovare le giuste indicazioni per fare del Risorgimento materia di racconto moderno. (...)
(Per la mia prima regia ho scelto il Vecchio regno, «Cinema Nuovo» n. 8, 1-4-1953) |
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Critica (2): | Il soggetto è molto semplice: nel marzo 1849 il Piemonte denuncia l'armistizio di Salasco e scende nuovamente in campo, guidato da Carlo Alberto, contro gli austriaci di Radetzky. Le truppe piemontesi della divisione lombarda comandata dal generale Ramorino (poi fucilato) permettono il passaggio del Ticino al nemico, il quale in tal modo può invadere gli stati sardi, sconvolgendo i piani strategici del comandante supremo piemontese, il polacco Chrzanowsky. La battaglia decisiva, a Novara, è una tragica disfatta per Carlo Alberto, che abdica e parte per l'esilio, lasciando al giovane figlio Vittorio Emanuele Il il duro compito della stipulazione dell'armistizio di Vignale e della continuazione della lotta per l'indipendenza sul terreno politico. Entro tale ampia cornice storica, accennata nell'introduzione del film, si muove il dramma di una pattuglia di fanteria, comandata dal capitano Saviati, esule napoletano, e spedita ad osservare le mosse austriache; dopo un lungo vagare per le risaie, perdendo via via qualche uomo, il capitano riesce a far saltare un deposito di munizioni, quindi a sostenere un breve scontro in una cascina, ed infine a raggiungere il campo di Novara, quando però la battaglia è già avvenuta. Ai pochi susperstiti della pattuglia il capitano rivolge allora parole di conforto e di incitamento, pegno della futura riscossa nazionale.
L'impegno del film è notevolissimo sotto due aspetti, quello storico e quello propriamente cinematografico e narrativo; sotto il punto di vista storico, si è voluto cercare di mettere in luce, con uno studio serio ed attento, qualcosa del nostro Risorgimento di cui tanto si è scritto e tanto poca storia si è fatta. Abbiamo decine di migliaia di pagine di agiografia garibaldina o sabauda o mazziniana, ma ben poche sono le opere che affrontino la questione senza preconcetti e senza tesi. Che cosa fu il Risorgimento? Quali forze poterono compierlo? Qual era, effettivamente, lo stato d'animo degli italiani? Quali gli errori commessi, e di cui ancor oggi paghiamo duramente la pena? Son tutte domande, queste, a cui cominciamo soltanto da poco a rispondere, così come ben pochi libri di testo delle scuole hanno abbandonato quella infantile concezione teleologica della storia per cui la battaglia di Legnano contro il Barbarossa non è altro che un preludio alle campagne del 1860. Gli autori del film hanno onestamente cercato di esaminare il periodo storico, il momento della guerra del 1849, senza intenti retorici e senza squarci lirici sul valore sfortunato: la pattuglia di fanteria è tra le più scalcinate che si siano mai viste (anche troppo), con gli zaini male affardellati, le divise male indossate, nessun portamento militare tranne che nel sergente. Si ha l'impressione di un reparto raccogliticcio e poco istruito, ed il capitano piccolo brutto e taciturno non è certo fatto per entusiasmare i suoi uomini, così come il Chrzanowsky non entusiasmava il suo esercito. Per contro, con molta finezza, gli austriaci sono sempre presentati come gagliardi soldati di un esercito d'invasione e di rapina, e la loro comparsa sullo schermo è costantemente accompagnata dai ritmi marziali di canti di guerra nonchè dai ripetuti comandi militari: si capisce subito da che parte sta la forza effettiva, anche se di contro sta una potenza ideale ben maggiore, quindi destinata presto o tardi a trionfare. Si è tentato insomma, ne La pattuglia sperduta, di vedere la storia come essa fu, interpretando l'esercito austriaco secondo il suo reale valore, e non mostrandolo, come si usava, quale una ridicola accolta di soldati di Franceschiello. Contemporaneamente, è avvertibile un tentativo di impostazione sociale del tema, nel presentare un gruppo di italiani di diverse regioni e differenti mestieri e classi sociali, uniti per un seguito di circostanze in una lotta di cui molti non capiscono bene la ragione: come reagisce questa gente di fronte alla guerra? Quale speranza può dare per l'avvenire questo incontro di ceti e di intelletti?
Come si vede, gli intenti storici non erano pochi, né poco ambiziosi: praticamente era un passaggio dal film narrativo concepito secondo i moduli della poetica tragica del sei e settecento (altissimi fatti compiuti da altissimi personaggi) ad una ricerca della tragedia nella vicenda dei minori, degli umili, degli oscuri: lo stesso passaggio che il Manzoni compì dal 1821 al 1823, dalla stesura dell'Adelchi al primo concetto dei Promessi Sposi. E si tratta di un mutamento ormai vastamente entrato nella letteratura, ma che nel cinema storico vero e proprio non si era ancora visto, dato che finora, generalmente, la storia era servita di sfondo a intrighi sentimentali oppure era valsa a mostrare le fattezze di re, imperatori, regine e primi ministri che facevano tutto loro, distribuendo a destra e a manca fette di popolo. Anche cinematograficamente le mete erano chiare: fare dell'antiretorica a tutti i costi, creare in ogni modo il clima di tensione e di gravezza attraverso il continuo, opprimente incubo del fango, della nebbia, della risaia, della solitudine apparente ma sempre incrinata dalla coscienza della presenza del nemico, in qualche punto dell'orizzonte caliginoso. Un tema non nuovo, a dire il vero (The Lost Patrol e Stagecoach di John Ford, pur senza nebbia, ne sono due esempi classici), ma che si prestava molto bene a connettere ed a sottolineare la vicenda psicologica dei vari personaggi, animandola a dramma. (...)
Guido Bezzola, “Ferrania” 10/1954, in n. 74 bis-Materiali sul cinema italiano degli anni ’50 vol. II- Mostra internazionale dl nuovo cinema-Pesaro, 1978) |
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Critica (3): | |
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