Medea - Un maggio di Pietro Frediani
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Regia: | Benvenuti Paolo |
Cast e credits: |
Soggetto: dall’opera di Pietro Frediani, poeta e contadino (Buti, 1775-1852); sceneggiatura: Paolo Benvenuti; fotografia: Mario Benvenuti; suono: Mario Dallimonti; montaggio: Alfredo Muschietti; interpreti: il film è interpretato da due anziani contadini del paese di Buti, sul Monte Pisano; produzione: Cepa Film per i Programmi Sperimentali della Rai; Kodak color 16 mm.; origine: Italia, 1972; durata: 45’. |
Critica (1): | ...Avevo notato, per esempio, che il senso della distanza, inteso in senso brechtiano, quella gente l’aveva sulle dita, sulla lingua, in natura. Farnaspe, immediatamente prima di cantare un’ottava, faceva un passo indietro. Da qui il problema della giusta distanza fra la cinepresa e questa antica forma di teatro. La parola non era sufficiente per comunicare con i miei attori contadini: non riuscivo a far capire loro la differenza tra lo spazio teatrale e lo spazio del cinema. Loro si muovevano in rapporto a uno spazio teatrale che io dovevo tradurre, senza snaturarlo, in uno spazio cinematografico. Ma per far ciò, ero costretto, in un certo modo a snaturare lo spazio teatrale. Se avessi avuto una videocamera (nel 1971 non sapevamo nemmeno cosa fosse) avrei potuto far vedere che non potevo riprendere il loro spazio e ridarlo uguale nell’immagine. Dovevo convincerli a comportarsi in un modo leggermente diverso sulla scena, per ottenere nel film l’originale. In questo mi aiutarono i disegni: coi disegni ci si capiva perfettamente. Io mostravo loro lo sviluppo possibile delle sequenze e insieme decidevamo qual era quello giusto. Così potemmo stabilire come loro si dovevano disporre e qual era la corretta distanza dalla macchina da presa. Decidemmo che la situazione doveva essere di tipo triangolare, dove il massimo spazio a loro disposizione dava la misura della base di un triangolo la cui altezza era la macchina da presa. Così la piazzai in quel punto, che poi è il punto di vista prospettico rinascimentale. Tutto il film è stato ripreso da quell’unico punto di vista. Però questo non mi bastava. Avevo bisogno anche di “leggere” il testo: volevo che la cinepresa non fosse semplicemente un occhio impersonale e anonimo ma che fosse in grado di leggere in modo dialettico la realtà senza snaturarla. Allora, tenendo inchiodata a terra la cinepresa (la cui altezza era calcolata sull’occhio di uno spettatore seduto sul pavimento – posizione naturale per il pubblico dei Maggi), cambiavo gli obiettivi a seconda della drammaturgia: grandangolo per le situazioni in cui in scena erano in molti, normale se erano in due, teleobiettivo se era uno solo. Questo non avveniva per caso ma in rapporto alla struttura dell’impianto narrativo. Abbiamo fatto una divisione in blocchi di testo e, grazie ai disegni, è stato possibile evidenziarne la forma cinematografica che ne sarebbe scaturita.
Paolo Benvenuti, Cineforum n. 346, luglio-agosto 1995 |
Critica (2): | NOTE SUL FILM
Il teatro del Maggio a Buti – suo luogo di origine e di massimo splendore nei secoli passati – è estinto ormai da più di 30 anni. Casualmente, nel 1971, mentre giravo il film Del Monte Pisano ho conosciuto alcuni vecchi del luogo (Buti è un piccolo paese sulle pendici di questo monte fra Pisa e Lucca) i quali mi hanno parlato di questo loro teatro, di come veniva fatto, recitato, cantato. Affascinato da questi racconti, ho ritenuto importante convincere queste persone a recitare uno di questi Maggi davanti alla macchina da presa, per fermare nel tempo questo fenomeno vivo solo nei loro ricordi. È stato un lungo lavoro di preparazione e di ricerca dei testi manoscritti originali, di fotografie d’epoca, di stampe e di disegni che, insieme alle testimonianze dirette, mi hanno permesso di ricostruire «cinematograficamente» il contesto ambientale, scenico e di costume nel quale il “Teatro del maggio” aveva vita. Le persone da me coinvolte in questa trasposizione cinematografica sono anziani contadini che ben volentieri si sono prestati all’operazione. Ho sempre avuto presente, per questo, il pericolo di una loro strumentalizzazione da parte del mezzo cinematografico e ho cercato, nei limiti del possibile, di adattare il mezzo al fenomeno, e non viceversa come succede solitamente. Per quanto riguarda la regia teatrale del Maggio, devo dire che, morti da tempo i vecchi animatori e i vecchi direttori di scena, sono stato costretto a prendere su di me questa responsabilità. Ero appoggiato in questo difficile compito dal vecchio suggeritore e dagli esempi di alcuni attori più sensibili a problemi di regia. Inoltre mi sono valso delle annotazioni trovate scritte a margine di vecchi copioni manoscritti. Note scritte di pugno dal più importante regista di Maggi: il butese Angiòlo Bernardini morto all’età di 85 anni nel 1952. Da tutti questi elementi siamo riusciti a riproporre il fatto teatrale nella sua immediatezza originale, ripulito dalle scorie «neorealistiche» di cui, negli ultimi anni della sua vita si era appesantito, sia per un complesso di inferiorità nei confronti del teatro lirico, sia per gli esempi di certi spettacoli del teatro borghese. Come ho già brevemente accennato, il teatro del Maggio è originario del paese di Buti. Si dice – ma gli storici non sono concordi – che sia una trasformazione avvenuta intorno alla fine del XIII° secolo degli esempi di teatro greco che alcuni frati cistercensi, risaliti dalla Magna Grecia e stabilitisi sui monti pisani in quegli anni, hanno portato con sé. Alcuni musicologi ai quali ho sottoposto le registrazioni delle musiche e dei canti hanno riconosciuto in quei motivi la struttura originale della scala musicale dorica greca. Nei secoli il canto del Maggio si è spostato valicando gli Appennini fino in Emilia, dove ancora si canta in certi luoghi con alcune varianti, sia nella costruzione poetica che nella recitazione. L’esempio del teatro del Maggio di Buti, pertanto, è il più antico e il più vicino all’origine medioevale. La sua sede più consona dovrebbe essere la piazza o la corte o un declivio tra gli ulivi, dove gli attori che in quel momento non sono sulla scena possono tornare a sedersi tra i compagni del pubblico. Questo rapporto importantissimo tra scena e pubblico è morto col morire del Maggio, per cui quello che oggi possiamo vedere nel film è solo la rappresentazione del fatto scenico, che è solamente una delle componenti di quel fenomeno. Quando nel 1832, a Buti, viene costruito il teatro, Pietro Frediani, un pastore di pecore, autore dei più importanti Maggi oggi pervenuti e autore anche della Medea, si scaglia violentemente contro tutti coloro che vorrebbero trasportare il Maggio dalla piazza al palcoscenico e, cosa importante da sottolineare, quelle persone sono proprio i maggiorenti del luogo, appartenenti cioè ad un’altra classe sociale. «Il Teatro è la scuola dell’errore / che insegna a bazzicar le vie più storte»..., sostiene il Frediani fino alla propria morte, ma avvenuta questa nel 1852 il Maggio è condannato al palcoscenico, e ovviamente messo a confronto con le opere di Verdi o di Rossini. Da qui il suo declino stilistico che, aggiunto successivamente alla trasformazione di quei paesi a prevalente economia agricola in economia industriale, ne ha determinato inequivocabilmente la morte. Il Maggio non aveva scenografie: uno sgabello su cui si sedeva il personaggio coronato diventava la sala del trono, dove gli orpelli, gli arazzi e i marmi erano ricreati dalla fantasia di un pubblico partecipe; per annunziare al pubblico i cambiamenti di scena qualcuno annunciava volta per volta con un cartello e a voce come l’azione avesse cambiato luogo; i costumi non avevano niente di realistico, erano variopinti con elmi e loriche di piume e di stagnola e ricavati dagli oggetti più svariati e appariscenti. La rappresentazione cominciava con l’apparizione del «corriere» con in mano una lunga bacchetta, estrema sintesi del ramo fiorito del calendimaggio medioevale. Giunto al centro della scena e rivolto al pubblico, cantava il prologo della rappresentazione facendo per sommi capi il sunto della storia e invitando tutti a prestare attenzione. Le quartine, in versi ottonari e dal linguaggio aulico erano intervallate dalla musica di un flauto. Dopo di che aveva inizio il dramma, anch’esso cantato in quartine ottonarie ma senza l’accompagnamento musicale. Il Maggio della Medea scritto da Pietro Frediani verso la fine del 1700 è una delle sue opere minori, ha una durata di circa 40 minuti – invece delle 2 o 3 ore che di solito durava una di queste rappresentazioni – e non presenta alcune caratteristiche del Maggio, come le scene di duelli o di battaglie che ricordano, per la cadenza e per il ritmo con cui gli attori si muovono, un vero e proprio balletto dalla composizione assolutamente rigorosa. La tragedia, reinventata dalla fantasia dell’autore, ricorda vagamente quella più nobile di Euripide; è apparentemente più semplicistica, ma la descrizione dei personaggi e dei loro rapporti presenta una vena di sottile ambiguità, sottolineata con maestria dalla composta recitazione degli attori, che fa essere questo Maggio, alla luce di una più attenta lettura, una delle opere più moderne di Frediani.
Paolo Benvenuti |
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