Despair - Despair - Eine Reise ins Licht
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Regia: | Fassbinder Rainer Werner |
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Cast e credits: |
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Vladimir Nabokov; sceneggiatura: Tom Stoppard; fotografia: Michael Ballhaus; musiche: Peer Raben; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; scenografia: Rolf Zehetbauer; costumi: Dagmar Schauberger; interpreti: Dirk Bogarde (Hermann Hermann), Andrea Ferréol (Lydia), Volker Spengler (Ardalion), Klaus Löwitsch (Felix Weber), Alexander Allerson (Mayer), Bernhard Wicki (Orlovius), Peter Kern (Müller), Gottfried John (Perebrodov), Adrian Hoven (Inspektor Schelling), Roger Fritz (Inspektor Braun), Hark Bohm (Doktor), Y Sa Lo (Elsie), Liselotte Eder (Sekretärin), Armin Meier (Vorarbeiter / Schauspieler im Stummfilm), Isolde Barth (Frau in Pension), Ingrid Caven (Hotelangestellte); produzione: NF Geria II Film, SFP, Bavaria Atelier; origine: Francia, Germania Occidentale, 1977; durata: 119'. |
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Trama: | Nel 1930, alle soglie dell'affermazione del nazismo, Hermann Hermann emigrato russo che gestisce in Germani una fabbrica di cioccolata, vive un periodo di profonda crisi esistenziale, dalla quale cerca di uscire attraverso un processo di "sdoppiamento" che lo porta ad assumere un'altra identità. Incontrato un uomo nel quale crede di vedere una possibile "controfigura", lo uccide, gli prende abiti e documenti e si rifugia in Svizzera. Ma le sue facoltà mentali sono ormai annebbiate e la persona che lui crede un sosia perfetto gli somiglia solo molto vagamente. |
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Critica (1): | L'accoglienza che la stampa quotidiana riservò a Despair, l'indomani della prima proiezione al festival di Cannes, non fu del le più favorevoli. In tutte si riscontra uno stesso imbarazzo nel centrare il tema reale del film che del resto nemmeno le succesive analisi su riviste periodiche dissiperanno interamente.
Anche Olivier Assayas sui Cahiers du Cinéma parla del romanzo di Nabokov da cui il film è tratto – «incentrato sulla tematica del doppio o piuttosto su quella del doppio immaginario» – come sostanzialmente «estraneo all'universo di Fassbinder». Quasi tutti infine si sono trovati concordi nel contenere la portata dell'opera negli angusti termini di un esercizio di stile: intelligentissimo, elegante, ma in fondo abbastanza fine a se stesso.
[…] È senz'altro vero che il film è prevalentemente «costruito sul rapporto tra punto di vista e messa in scena»; meno sicuro invece che lo spunto germinativo dell'intera opera sia da rintracciarsi nel motivo del "doppio": avvio, questo, dato per scontato da tutta la critica da Cannes in poi. Certo il tema del sosia è propriamente nabokoviano (come non ricordare l'oscuro rapporto che lega Quilty a Humbert in Lolita?) ma si ha l'impressione che la presenza di Bogarde e dello sceneggiatore Stoppard abbia indotto senza eccezioni a vedere il film "du còté de chez Losey", senza appurare per altro se e quali varianti Fassbinder avesse apportato al testo di partenza.
Il libro di Nabokov, scritto ancora in russo (Otcajanie), vede la luce nel 1934; nel '35 viene approntata la prima edizione inglese (Despair); l'anno successivo escono a ruota sia la traduzione tedesca che quella francese: rivedute e controllate dall'autore, il quale verosimilmente vi apporta delle varianti. E diciamo "verosimilmente" in quanto per ovvie ragioni ci è impossibile qui verificare in quali luoghi le edizioni successive si discostino dall'originale. Ma è certo che una almeno appare di importanza fondamentale: la trasformazione del nome del protagonista dallo Hermann Karlovitch dell'edizione originale allo Hermann Hermann del film («Qual è il suo nome signor Hermann?» «Hermann Hermann. O Hermann Hermann. O solo Hermann. Come preferisce»). La simmetria del
nome, la sua specchiatura fonetica (possibile intervento qui del regista, che peraltro ne fa un diretto ascendente dello Humbert Humbert di Lolita) stabilisce già un ordine di relazione che informerà programmaticamente ogni aspetto del film e che vedrà la sua prima connessione narrativa nella sequenza-chiave della sala cinematografica, dove appunto si proietta un film muto sulle vicende di due gemelli – uno fuorilegge, l'altro poliziotto – che andranno incontro a un epilogo tragico.
La presenza di Armin Meier – amico e collaboratore di Fassbinder in quel periodo – che qui interpreta entrambi i ruoli dei fratelli, ci rivela però che ciò che vediamo è un falso reperto d'epoca, girato a lato del film per essere inserito nello stesso con intenti metalinguistici. Ed è a questo punto che il gemello di Hermann ricompare in sala. Ora un conto è parlare di "doppio", un altro parlare di "gemelli". La presenza del primo ha sempre carattere fantasmatico, anche quando presupponga un'entità fisica reale del secondo soggetto (paradigma perfetto è, in questo caso, il Klein di Losey), mentre ciò che connota i gemelli è si un raddoppiamento fisico, a cui fa però riscontro un dimezzamento sul piano psicologico, istituendo cosí un rapporto di interdipendenza, di complementarietà.
[…] Hermann dapprima vede un altro se stesso perché non sa rappresentarsi il proprio complementare che proiettando la propria immagine. Ma lo concapisce non nell'atto di replicare le sue stesse azioni, bensì in quello di compiere ciò che egli appunto non fa: come a esempio soddisfare le esigenze sessuali della moglie, compito che nella realtà lascia d'abitudine al "cugino" di lei, Ardalion. Fassbinder pone l'incontro di Hermann con Felix Weber nel dedalo degli specchi di un luna-park, dove la struttura stessa del "gioco" fa sì che i due si cerchino e "per caso" si incontrino ma mai si pongano specularmente uno di fronte all'altro. Felix è - anche fisicamente - l'esatto rovescio di Hermann: egli ci appare infatti come l'equivalente moderno del "wanderer" (nell'accezione cioè goethiana e schubertiana, peculiare al primo romanticismo tedesco). Hermann d'ora in poi sostituirà all'immagine di un "complementare" con le proprie sembianze, l'immagine di Felix Weber e a sottolineare come quest'ultimo non sia una creazione mentale del protagonista ma una realtà esterna interdipendente, si impone qui da parte del regista l'impiego della contrapposizione dei personaggi sempre per stacco e mai per dissolvenza. Il problema dell'identità del protagonista (così come la "possibilità" di fuga dalla stessa) è strettamente legato a quello del suo ruolo sociale: Hermann è – come gli altri, a eccezione di Felix – calato in una parte già tutta scritta in precedenza: senza il suo consenso ma che lo presuppone.
La vacuità e il decorativismo che informano il suo stile di vita sono continuamente ribadite e amplificate dall'ambiente in cui il personaggio vive e si muove, dagli oggetti di cui si circonda, dalla proliferazione incontrollata di elementi déco: straordinaria ricognizione storica da parte di Fassbinder su oggetti della Deutsche Werkbund di Hermann Muthesius, che avrebbero voluto porsi, almeno nelle intenzioni del proprio creatore, come concretizzazioni di quella ricerca di un'unità metodologica volta a eliminare il conflitto tra arte e industria. La presenza continua di paraventi, lampade, vetrerie di Wagenfeld, bronzetti, specchi ecc. hanno qui funzione drammaturgica poiché, delimitando gli spazi, spezzano i movimenti, creando percorsi obbligati, iterazione di gesti; oppure valore premonitorio rispetto agli sviluppi dell'asse narrativo (il pannello decorativo con paesaggio innevato che campeggia nella sala da té, che diventerà spazio reale dell'impossibile fuga conclusiva di Hermann), mentre sul piano verbale Fassbinder istituisce – attraverso le battute sofisticate e volutamente bête, spesso inclini all'iperbole, scritte da Stoppard – un rapporto strettissimo tra dialogo e scenografia.
[…] Il miraggio di fuga che la presenza di Felix prospetta alla mente di Hermann, la "possibilità" di uscire dalla condizione di uomo reificato, prodotto in serie come le statuette di cioccolato che Hermann stesso fabbrica, è da questi attuato con lo scopo di cancellare sí la propria funzione sociale ma in modo che la propria condizione economica non subisca mutazioni (egli stipula infatti un'assicurazione in caso di morte). La fuga non è contemplata accanto a Felix come momento integrativo di un'unica realtà psichica, bensì in sostituzione di Felix, per mezzo di uno scambio di abiti con conseguente eliminazione di quest'ultimo. Hermann ovviamente tiene il compagno all'oscuro delle proprie intenzioni ma la menzogna che gli oppone non è nient'altro che la verità a lui stesso ancora ignota: il "lavoro" che egli offre a Felix è di fargli da controfigura per alcune riprese cinematografiche. La trappola predisposta non potrà alla fine che scattare su se stesso, perderlo definitivamene, e allora Hermann non troverà altra via d'uscita – nel momento in cui si arrende alla polizia – che quella di aggrapparsi disperatamente alla finzione ("Attenti ... ecco un famoso attore che sta per uscire... Voglio una fuga pulita. E tutto... Non guardate in macchina... per favore... sto uscendo").
Il rimando che questo epilogo effettua con il finale del film muto visto precedentemente e il vertiginoso "regressus in infinitum" che si viene a creare, svelano d'improvviso la portata del disegno del protagonista, la sua mostruosità e segnano il punto in cui uomo e maschera definitivamente coincidono. Un altro Hermann Hermann, ora fra gli spettatori, potrà partire di qui per considerare ancora una volta le proprie "opportunità".
r. d'a., Cinema Nuovo n. 288, aprile 1984 |
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Critica (2): | Con un ritardo di cinque anni,- circostanza non troppo rara nel panorama cinematografico di Rainer Werner Fassbinder - è uscito in Italia un suo film, già presentato al Festival di Cannes nell' '82, Despair, che proiettato in,
estate, pur se con un approccio celebrativo, subito dopo la sua morte, non ha riscosso il favore del pubblico, il quale d'altronde nella stagione estiva tende volentieri a trascurare le sale cinematografiche. Il film è tratto da un romanzo di Vladimir Nabokov, in cui il celebre autore di "Lolita", racconta la crisi di un industriale sui quarant'anni e il suo tentativo di uscirne con una decisione anomala che finisce per portarlo alla rovina.
Il regista tedesco si è avvalso della raffinata sceneggiatura del commediografo inglese Tom Stoppard e dell'interpretazione, insieme stravagantemente lucida e ricca di pathos, Dirk Bogarde nel ruolo del protagonista Hermann Hermann e di Andrèa Ferrèol in quello della moglie. Attorno a loro ruotano attori più abitualmente legati all'universo di Fassbinder come Klaus Lowitsch (era il marito di Maria Braun nel celebre film, appunto, Il matrimonio di Maria Braun), Bernard Wicki, Volker Spengler, Peter Kern, Gottfried John. L'impostazione registica ha un carattere spiccatamente teatrale che per tale aspetto fa pensare a Bolweiser (un suo racconto televisivo del '76, uscito anch'esso da poco in Italia) e batte sull'angoscia di un uomo maturo e consapevolmente affascinante che incontra sempre maggiori difficoltà di convivenza con se stesso e si muove in una sorta di raziocinante allucinazione che lo induce a organizzare piani complicati e sostanzialmente insidiosi per quella che lui invece crede sia la sua salvezza. Inoltre, lo Hermann Hermann di Bogarde ha in se una specie di illuminante, profetica e neanche troppo vaga idea sul futuro della Germania (la storia si svolge a Berlino nel periodo tra la crisi economica e il nazismo) e avverte l'imminente precipitarsi di una serie di eventi, tra i quali il peggior disastro sarà il nazismo. Coinvolgendo se stesso in una spirale di follia, che tenta inutilmente di usare a proprio vantaggio, egli si crea un alter ego individuato in un vagabondo (lo interpreta Klaus Lowitsch) e che convince ad assumere un ruolo di dipendenza dandogli nel medesimo tempo l'impressione di potersi esprimere liberamente. Gli fa indossare i suoi vestiti e poi lo uccide con l'illusione che tutti riconosceranno nel morto Hermann Hermann. Ma il nostro protagonista si è sbagliato sulla somiglianza con lo sconosciuto e, mentre dentro di sè coltiva l'aspirazione a utilizzare il denaro dell'assicurazione e trovare da qualche parte un sicuro rifugio con la moglie, vine improvvisamente smascherato. Egli, che con la povera vittima delle sue cervellotiche macchinazioni si era assunto tra l'altro il ruolo di attore, finisce per essere davvero tale nell'ultima sequenza della pellicola, quando pretende che la sua uscita di scena sia girata esattamente con tutte le indicazioni necessarie a girare un film.
Fassbinder, pur usando peri personaggi principali attori che non fanno parte del suo clan abituale, come Bogarde e la Ferrèol, riesce a ottenere dalle loro prestazioni il giusto punto di convergenza col suo mondo espressivo di autore, pur mantenendo intatte ciascuno degli interpreti le proprie naturali inclinazioni. Bogarde articola la sua recitazione fatta di pause, sguardi, lampi improvvisi; la Ferrèol si serve di una gamma di possibilità d'incontro col suo ruolo che si appoggiano su una impressione di vacuità, dandoci l'immagine di una donna che si aggira a suo agio in un'atmosfera fittizia. Fassbinder, splendido narratore, cala il suo racconto in una pesante, oppressiva successione di scene che appaiono come una sorte di teatro dell'angoscia, dove ogni sfaccettatura dell'animo umano è rivelata parzialmente dai suoi personaggi con una incompleta sincerità che si lascia dietro tante altre implicazioni. Al tempo stesso si inseriscono naturalmente nella storia siparietti e sequenze in cui sono particolarmente incisivi l'ironia, il paradosso, la genialità di un autore che un suo personalissimo modo di essere romantico vivendo contemporaneamente, fino in fondo e tragicamente tutte le condizioni dell'uomo di oggi, è stato un acutissimo testimone della meschina ipocondria della classe borghese.
Rossella Fanali Cinemasessanta N. 51982 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Rainer Werner Fassbinder |
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