Tre colori: film blu - Trois couleurs: Bleu
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Regia: | Kieslowski Krzysztof |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia: Slawomir Idziak; montaggio: Jacques Witta; suono: Jean-Claude Laureux; musica: Zbigniew Preisner; scenografia: Claude Lenoir; costumi: Virginie Viard; interpreti: Juliette Binoche (Julie), Benoit Regent (Olivier), Hélène Vincent (la giornalista), Florence Pernel (Sandrine), Charlotte Very (Lucille), Hugues Quester (Patrice); produttore: Marin Karmitz; MK2 Paris, CAB Productions Lausanne, TOR Warszawa, France 3 Cinéma Paris, C.E.D. Productions Paris; distribuzione: Academy; origine: Francia, 1992; durata: 99'. |
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Trama: | Julie perde in un incidente d'auto il marito e la figlia. Julie tenta il suicidio in ospedale; si ferma, risputa le pillole. Guarda in televisione i funerali del marito e della figlia. Il marito era un famoso compositore che stava scrivendo un Concerto per l'Europa. Julie nega, alla domanda di una giornalista, che il concerto esista. Si reca nella villa di campagna e ordina di togliere tutto dalle stanze. Julie continua a sentire nella sua testa le note del concerto. Il coperchio di un piano a coda si chiude violentemente. Julie prende gli spartiti con le parti del concerto scritte dal marito e li butta nella spazzatura. Una caramella blu le ricorda la iglia; Julie chiama al telefono Olivier, un collaboratore del marito, e fa l'amore con lui. Julie striscia il pugno chiuso su di un muro. Julie non vuole piangere. Cerca una nuova casa. Un lampadario con dei fili sospesi di pietre blu le ricorda il passato. Julie nuota in piscina. Di notte, per un caso strano, resta chiusa fuori di casa. Conosce Lucille, che abita al piano di sotto e fa la spogliarellista. Un ragazzo, che aveva assistito all'incidente, si rifà vivo, vuole restituirle la catenina che ha strappato al marito in macchina. Julie lo incontra ma gli lascia la catenina.
Julie, per strada, si ferma davanti a un barbone, gli posa la testa su un libro.
In un bistrot con Olivier, Julie sente un uomo suonare al flauto una melodia del concerto. In casa Julie trova dei topi appena nati. Julie fa visita alla madre, in un ospizio. La madre la scambia per la sorella. Alla tv la madre guarda un vecchio che si butta da un'alta incastellatura con i piedi legati da una corda elastica. Olivier torna in possesso degli spartiti del concerto. Julie si procura un gatto e gli fa mangiare i topi. Lucille la chiama al night: il padre di Lucille era lì, tra i clienti. Julie: "Perché fai questo mestiere?". Lucille: "Perché mi piace. Tutti vorrebbero fare questo". Julie vede in tv Olivier che parla del concerto. Olivier ha avuto gli spartiti da una donna che ne aveva fatto delle copie. Julie vorrebbe che Olivier non finisse il concerto. Julie sceglie come testo per il coro finale un passo di san Paolo. Julie chiede ad Olivier chi sia la donna che si vede con il marito su delle foto. Olivier le dice che Sandrine era l'amante di Patrice, stava con lui da molti anni, fa l'avvocato.
Julie la va a cercare. Sandrine è incinta di Patrice. Julie in piscina: sta sott'acqua, esce soffiando. Julie visita di nuovo la madre: in tv si vede un acrobata sul filo. Olivier fa ascoltare a Julie la musica che ha composto. Julie vi apporta delle correzioni. Manca ancora la parte finale. Julie incontra ancora Sandrine; Julie vorrebbe che il bambino avesse il suo nome e vivesse nella sua vecchia casa.
Julie chiama Olivier, se vuole venire da lei, se la ama, se la desidera.
Sulla musica del coro finale con le parole di san Paolo, si vedono Julie e il ragazzo della catenina, la madre, l'ecografia del bambino che nascerà. Julie sembra piangere. Schermo blu. |
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Critica (1): | Subito le carte in tavola. Abbiamo il sospetto che Krzysztof Kieslowski ci stia attirando in una trappola. Abbiamo il fondato sospetto che Film blu. Libertà non sia un film ma due film. Che sotto il film che abbiamo visto tutti ce ne sia un altro. (Lo speriamo per il bene di KK e nostro). Ma procediamo con ordine. Istruiamo il caso. Prima, i dati di fatto. Poi, il primo film. Poi, il secondo.
Dati di fatto. KK è un rigido pianificatore, lascia poco spazio al caso (ragiona sul caso ma non fa film a caso). Lo dimostra il suo curriculum: è partito, nel lontano 1966, come oscuro documentarista di opposizione (grandi risultati: La fotografia, 1968; L'ospedale, 1976; Dal punto di vista del guardiano notturno, 1976; Sette donne in età diverse, 1978; Le teste parlanti, 1980), è passato a mescolare documentario e finzione (tra i tanti lavori, un discreto risultato: Il personale, 1975), è approdato a duri film di finzione alla polacca (grandi risultati: Il cineamatore, 1979; Il caso, 1981; Senza fine, 1984); si è inventato, lui e il suo avvocato sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz, un cinema polacco che potesse funzionare in tutto il mondo (grande risultato: i dieci casi, giudiziari, clinici, morali, del Decalogo, 1987-1989), ha costruito poi un film diviso in due, dal brusco inizio polacco e dall'elegante, misterioso sviluppo francese (La doppia vita di Veronica), arriva adesso ad una terna di film nel segno dell'Europa (disunita), non senza aver rafforzato la sua squadra vincente (che non si cambia: Krzysztof Piesiewicz alla sceneggiatura, Slawomir Idziak alla fotografia, Zbigniew Preisner alla musica) con il suo nuovo acquisto, franco-europeo, Marin Karmitz alla produzione (una sicurezza, un mecenate degli autori).
KK, studioso di Caso e di casi, quando pensa ai suoi film, è un freddo calcolatore, è attratto dalle concatenazioni e dalle collane: i tre racconti di un film come Il caso, i dieci comandamenti, le due Veroniche, i tre colori della bandiera francese e le tre parole della rivoluzione. (Questa numerologia Kieslowskiana è uno dei tanti indizi che ci inducono a sospettare - ci inventiamo una critica indiziaria, come la storia e le storie di Carlo Ginzburg - che Film blu. Libertà, prima anta del trittico, non sia un film ma due). KK, stratega del marketing cinematografico d'autore europeo, annuncia tre film, crea una sapiente suspense (non chiarisce quale sia il filo sotterraneo che li lega, dichiara nelle interviste che ritroveremo i tre film nella scena finale del terzo - "ma non vi dico come"), li regala, per non far torti, uno a Venezia, uno a Berlino, uno a Cannes (e così per un anno si parlerà di lui: che sia questa la vera ragione della scelta ternaria?), ne gira il primo in Francia, il secondo (Bianco. Egalitè) in Polonia, il terzo (Rosso. Fraternité) in Svizzera. Se c'è un regista poco casuale, questo è KK. Chi andava in cerca di autori all'europea, ne ha trovato il campione: fa serial d'autore, cólti, sovranazionali, sa guardare ai festival, al mercato, al pubblico alto, risponde insomma con una strategia almeno a scala continentale alle campagne planetarie americane. Regista metamorfico (documentario, finzione documentaristica, finzione polacca, finzione francese, finzione europea), KK è dunque arrivato a praticare quell'oscuro oggetto dei desideri di autori e critici (e pubblico?) che è il cinema all'europea (e, come ha sempre fatto con tutti i tipi di cinema che ha attraversato, KK ci ragiona sopra, ne svela la fragilità, la vuotaggine di bronzo risonante e di cembalo che tintinna: ma qui siamo già al film sotterraneo e a san Paolo. Calma. Prima parliamo del primo film).
Vediamolo questo film blu (troppo blu). KK ci aveva avvertiti (nell'ottobre del 1988, in una intervista su "Positif"): "Mi interessa il modo in cui la vita di un essere umano è intaccata da un avvenimento e come possa prendere tutt'altra direzione qualora invece succeda un'altra cosa. Gli individui sono legati gli uni agli altri da fili invisibili. In questo momento noi stiamo parlando qui. In un altro luogo l'operaio di una fabbrica di aerei sta litigando con la moglie. Nessuno di noi lo conosce, e non lo incontreremo mai. Ma ha strapazzato la moglie, è furioso, non avviterà bene il bullone dell'aereo, anche se è il lavoro che fa abitualmente tutti i giorni. Forse sarete voi, o forse io, o forse le nostre mogli che prenderanno quell'aereo tra cinque anni, e l'aereo precipiterà. Siamo legati a quest'uomo, anche se ora non possiamo saperlo. Nelle zone più profonde si agita il pensiero che in qualche luogo si delinei un evento che avrà le sue conseguenze nell'avvenire. Il problema è come trovare il filo".
Sono passati esattamente i cinque anni preannunciati da KK. La fabbrica di aerei sarà stata chiusa; l'operaio è finito in mobilità ed è stato trasferito ad Arese. Film blu si apre con un'Alfa Romeo (cinema europeo, no?) che si schianta contro un albero. Un bullone non era ben avvitato (e KK ci ha mostrato la goccia che cola). Il Caso, quando vuole, sa colpire duro. Muoiono il marito e la bambina di Julie. Assiste all'incidente un ragazzo autostoppista (si fossero fermati a farlo salire, l'incidente sarebbe successo?) che sta giocando con un bilboquet (una palla di legno forata che si fa saltare e nella quale si tenta di infilare un bastoncino; l'autostoppista ci riesce: non ci fosse riuscito, l'incidente sarebbe ugualmente successo?). Il crudele KK ci ha gettati di brutto dentro quella misteriosa meccanica della casualità che ormai domina dappertutto (anche in tanti film: nella Los Angeles di Altman come nell'Australia di Bad Boy Bubby, per citarne due premiati a Venezia insieme a KK. E anche in Jurassic Park si tira fuori il ritornello del battere delle ali della farfalla a Pechino che, di passaggio in passaggio, fa piovere su Central Park. Di questa storia noi conoscevamo una versione ancora più streitosa; la farfalla vola sui prati di io e provoca un ciclone in Florida. KK e il suo Caso si sono imposti a livello planetario. Il Caso ci domina. A noi piacerebbe che adesso i personaggi schiacciati dal Caso imparassero ad accettare, come dicono i buoni filosofi, la loro finitezza ed aspirassero ad una tranquilla saggezza. E invece no).
E invece no: Julie, rimasta sola al mondo, decide di troncare col passato, butta via i fogli con il lavoro incompiuto del marito compositore che insieme a lei stava scrivendo un Concerto per l'Europa, vende tutto, anche i mobili della stanza blu. Senza versare una lacrima, senza elaborare nemmeno un po' il suo lutto, Julie cancella quello che è stato (e KK non ci concede il minimo flashback). Quando, all'agenzia dove cerca una casa, le chiedono quale sia la sua occupazione, lei risponde: "Niente, non faccio niente nella vita". Ma nella vita non si può fare niente; una volta vivi ci tocca per forza fare qualcosa. E il passato non lo si può cancellare: bastano le ietrine di un lampadario, la carta blu) di un leccalecca (blu) (basta una madeleine) per riportare a galla i ricordi. Ed anche nella nuova casa Julie si trova risucchiata dentro la vita e il passato al termine di una molto programmatica e kieslowskiana trafila casuale di avvenimenti (dalla farfalla al ciclone) inanellati uno all'altro: un uomo è picchiato per strada, sale le scale, bussa con violenza alla porta di Julie, ne viene strappato via, Julie esce a vedere, la porta sbatte, Julie resta chiusa fuori, passa la notte sulle scale, si accorge che la donna del piano di sotto, Lucille, riceve degli uomini, ne diventa amica, finisce (dopo altri passaggi che qui tralasciamo) nel night dove Lucille lavora come spogliarellista e lì, al night, Juliegu ardando per caso la tv scopre che il marito aveva un'amante.
Il Caso toglie, il Caso dà. E Julie si riapre all'esistenza, risponde alle sollecitazioni del Caso. Decide di vivere amando (a più non posso) il prossimo: regala una casa a Lucille, incontra l'amante del marito, incinta di lui, la aiuta. Riprende la partitura incompiuta, trova un testo per il coro del Memento finale, porta a termine la stesura del concerto insieme all'amico del marito e suo collaboratore, Olivier, che da sempre la ama. Raccontata in questo modo provocatorio, la storia del film sembra poco kieslowskiana, sembra romantica, filantropica. KK riesce a farla passare per sua usando i trucchi più sperimentati. Conosciamo bene la sua perizia nel cogliere, nello scoprire o nell'inventare le figure concrete, sonore e visive, di ogni idea astratta, di ogni sentimento. Chi ha visto i suoi primi film ricorda il martello che si rompe in mano al medico che sta aggiustando una gamba rotta in L'ospedale (il più incredibile e casuale intervento del Caso in un film di KK), o l'inchiostro versato nel Decalogo 1 o l'ape nel bicchiere del Decalogo 2. E attraverso questi segnali, attraverso l'affinamento delle sensazioni visive (il dottore visto nella pupilla di Julie, i puntini blu che le ballano sul viso) che KK ci fa entrare in un altro mondo, quello dove si instaura un rapporto empatico tra i personaggi del film, tra noi e i personaggi. ualunque caso sia questa comunanza (KK ci lascia liberi di darle il nome: vita, grazia, sensibilità, amore, feeling) è su di essa che, già nel Decalogo ma soprattutto in La doppia vita di Veronica ed ora in Film blu, KK sembra essersi messo a costruire i suoi film. KK sembra (sottolineato) aver dato una possibilità ai suoi personaggi (e a noi). Il Caso è sempre potente ma non è più padrone assoluto e cieco. Nella scala mitologica kieslowskiana, sopra al Caso è venuto a porsi il Mistero e nel Mistero si riaprono delle possibilità. Ai colpi del Caso si può rispondere: con la forza misteriosa della donazione, dell'amore per le persone che il Caso ci fa passare vicino. (Questo sembra dirci il Film blu ufficiale).
Sono le donne a sfidare il Caso e a introdurci nel Mistero: attraverso la morte (Veronica, Julie) e sperimentando la chiusura totale al mondo e agli altri (impossibile, inefficace), Julie intraprende un percorso iniziatico che la porta ad incontrare il senso dell'esistere nella donazione. Julie si trova più volte a dover scegliere quale strada prendere. Quando, ad ogni biforcazione del sentiero, Julie deve esercitare la sua libertà, KK si ritrae. Lo schermo si fa nero (in un caso, bianco). Il suo cinema non sa arrivare o non vuole arrivare così in fondo (e perché non vuole? per rispettare le scelte di Julie? o perché questi buchi neri ci risucchierebbero dentro l'altro film? ci metterebbero in comunicazione con un'altra Julie e con l'altro film, quello nascosto, non girato, non trionfalista, non europeo?). Le sospensioni della visione celano misteri. La prima sospensione arriva quando una giornalista chiede a Julie cosa ne è del concerto e se è vero quel che si dice, che fosse lei a scrivere le musiche per il marito. Siamo ancora all'inizio del film. Il passaggio in nero sembra dirci che Julie vuole tagliare ogni rapporto col passato, che non vuole più tornare sulla sua vita di prima. Una seconda sospensione, luminosa però, in bianco, coglie Julie ai giardini, mentre osserva una vecchietta piegata in due dall'età, che infila una bottiglia dentro la campana per la raccolta del vetro. L'immagine è kieslowskiana, pregnante. Dice la volontà di continuare a vivere anche piegati in due dalla vita. Julie guarda il sole e lo schermo si fa bianco, come se Julie capisse tutto e tutto le fosse ora chiaro (ma che cosa diventa chiaro? quello che deve fare? o quello che è stata la sua vita prima dell'incidente?). Ancora sospensioni in nero. Julie ha trovato in casa una mamma topo con dei topini appena nati e li ha fatti mangiare da un gatto. Subito dopo Julie torna in piscina (sempre tanta acqua e tanti liquidi nei film di KK), racconta all'amica del gatto e dei topi; Julie sembra piangere (o è l'acqua?) e lo schermo si fa nero: è perché Julie si accorge di essere ancora capace di fare il male? è perché ha dentro qualcosa di cui non è facile liberarsi come dei topi col gatto? E infine: quando Julie viene a sapere dell'amante del marito, di nuovo appare il nero, di nuovo Julie è sola a decidere e decide di incontrarla. Tutti questi neri nascondono i momenti in cui Julie si trova ogni volta a scegliere di fare il bene o coprono qualcos'altro? E cosa? Il nero - eccoci al punto - nasconde il mistero del film che non vediamo; nasconde il passato di Julie che amava un uomo che scriveva della brutta musica, che con questa musica aveva successo e che amava un'altra donna. La storia, non raccontata, del film nascosto è questa. Questa, la trappola di Kieslowski. Almeno: noi speriamo che questo film sia una trappola. Se Film blu fosse solo il film che vediamo e non anche l'altro film che noi sospettiamo sia nascosto sotto il primo, avrebbero (almeno in parte) ragione quelli che l'hanno poco amato o rifiutato del tutto. Come Gérard Lefort e Olivier Séguret su "Libération" (7 settembre): "È grande il rischio che l'esercizio di stile abbia la meglio sullo stile... La grancassa ben presto fa scomparire il violino... Un film blu come l'acqua della piscina dove lei va regolarmente a bagnarsi, il che (a due passi da Obao) è francamente pubblicitario". Come Roberto Silvestri sul "Manifesto" (stessa data), sotto il titolo "Sonata woytiliana per giovane donna delicata e debole": "Siamo contro Krzysztof Kieslowski e questo Trois couleurs: Bleu. Liberté... Lo abbiamo interpretato come la visualizzazione della concezione woytilina del sesso debole... Il guaio è che, papalinamente o laicamente, il film è esibizionista, kitsch, pomposo e orpelloso... Urla, erutta, questa sinfoniaccia tonale e celibe, come i sentimenti dell'eroina"; Come Vincent Ostria sui "Cahiers du Cinéma" (n. 471): "C'è poi un retroterra culturale che finisce per togliere ogni credibilità al film: quello della musica. Il Mac Guffin del film è la scomparsa di un Concerto per l'Europa... La musica è di una falsità assoluta, degna di un cartone animato... Quel che più irrita è la volontà nascosta di Kieslowski (o di Marin Karmitz, il produttore) di fare un cinema europeo... Blu ha in realtà tutto del prodotto generico, senza un ancoraggio geografico reale, un prodotto che sembra commissionato dalla CEE".
Kieslowski ha fatto delle strane dichiarazioni nelle interviste (ad esempio, su "Positif", n. 391), come se neppure lui sapesse districarsi dentro il suo film. O (ed è più probabile) come se volesse nascondere qualcosa (molto). Dice a proposito di Julie e della musica: "Lei corregge la musica, certo. Ma non so neanch'io quale sia il suo vero ruolo. Secondo Marin Karmitz è lei che scrive la musica; secondo me, no... Che cosa resta del lavoro di Julie e di quello di Olivier? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la parte finale di questa musica, il Memento, non era nella partitura originale. Sul foglietto che Julie trova sul piano sono scritte solo poche note. Chi ha scritto poi il concerto?". E su Julie e la sua scelta: "Lei ama veramente alla fine? Secondo me, no. È amata, ma non penso che ami; il suo solo vero amore era suo marito". Julie non sa amare, dice Kieslowski. Julie non ha composto quella musica, dice Kieslowski. Julie amava il marito che la tradiva. E Julie sceglie come testo per il Memento il tredicesimo capitolo della prima lettera di Paolo ai Corinti, il brano in cui Paolo parla dell'agàpe, del vincolo della tenerezza e della pietà, un vincolo che dà pace e consolazione. L' agàpe: "che è paziente, che è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si insuperbisce, non desidera quel che non è suo, non si irrita, non pensa male, non gode dell'iniquità, gioisce della verità, tutto serba in silenzio, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta". L'agàpe: che è l'amore rivolto non all'umanità (tutta) o agli uomini (tutti), ma "l'amore per il prossimo di cui si conosce il volto e la pena" (così Sergio Quinzio nel suo Commento alla Bibbia). La lettera ai Corinti, cristiani divisi, litigiosi, incestuosi e idolatri, è tesa, contraddittoria, lacerata tra il richiamo alla legge (che è morta ma ancora necessaria) e la proclamazione della libertà dei figli del Dio che viene, che sta arrivando (la lettera si conclude con il saluto ebraico Maràn athà, Il Signore viene). Nel capitolo 13, Paolo dimentica ogni cautela e proclama la superiorità dell'agàpe, dell'amore sulla legge, sulla fede, sulla speranza. Sono queste le parole che Julie sceglie per la musica che sarà attribuita al marito: "Quand'anche io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho la carità, io sono un bronzo che suona o un cembalo che squilla" (13,1). E poco più avanti si legge: "Se distribuissi tutti i miei beni ai poveri e dessi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità,tutto questo non giova a nulla" (13,3).
Le parole di Paolo sui bronzi che suonano e sui cembali che squillano sono cantate nel finale di un concerto attribuito ad un morto ma non composto da lui, sono scelte dalla sua donna che sa di esser stata tradita, che ha distribuito i suoi beni e che (Kieslowski ce lo assicura) non è capace di amare. Per questo il Concerto per l'Europa è gonfio, retorico, tronfio, vuoto. È un concerto per un'Europa che non c'è (e anche se ci fosse? Kieslowski ha sempre dichiarato di "non credere che esista un'idea per la quale convenga immolarsi"), scritto non si sa da chi, attribuito ad un morto che tradiva la molie, con delle parole scelte dalla veova, parole che condannano il morto e la vedova. Il Film blu nascosto (ma non poi tanto) è la storia di una vendetta e di un fallimento. A rivedere il film molte cose cambiano. Julie chiama Olivier e fa l'amore con lui nella stanza blu, svuotata di tutto salvo che del materasso: una profanazione. Julie non piange mai. Julie vuole dimenticare tutto del suo passato. Julie ordina di vendere tutto ciò che apparteneva al marito. Olivier le chiede cosa le resta per vivere. Julie: "Il mio conto". Previdente, no? E quei topi fatti ammazzare per procura dal gatto: non potrebbe essere quella la vera faccia di Julie? E tante altre cose. Il nostro paradigma indiziario ci sembra funzioni. Ci sembra che Kieslowski abbia costruito un film perfettamente doppio: un film all'europea, retorico e caricato, che nasconde un film kieslowskiano, crudo e cattivo. C'è un film tutto con le Maiuscole: il Caso, il Mistero, il Concerto, l'Europa, l'Amore. E c'è il film delle minuscole, del sospetto, del banale fallimento di un matrimonio borghese, della falsità. Questo (doppio) film è una polpetta avvelenata.
Abbiamo usato spesso, come si conviene in un processo iniziario, dei sembra, dei forse, dei verbi al condizionale, quando abbiamo parlato del film nascosto. Se Kieslowski è ancora lui, se sta ancora giocando al gatto che si pappa noi topini, questo film esiste e non abbiamo avuto le traveggole. Sennò, se il nostro (come si diceva in certi casi giudiziari) è un teorema, se abbiamo avuto le traveggole, allora KK si avvia a diventare anche lui un bronzo cavo e un cimbalo tintinnante di un'Europa fasulla. Un altro bravo cineasta finirebbe bollito in questo maledetto brodo che è il cinema europeo. Ci spiacerebbe. Ma no, non può essere, scommettiamo di no. La roulette kieslowskiana sta ancora girando. Puntiamo tutto sul Rosso e sul Bianco.
Bruno Fornara, Cineforum n. 327, 9/1993 |
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| Krzysztof Kieslowski |
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