Gabbiano (Il)
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Regia: | Bellocchio Marco |
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Cast e credits: |
Soggetto: del testo di Anton Cechov; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Sandro Petraglia, Lù Leone Broggi, Stefano Rulli; fotografia (eastmancolor): Tonino Nardi; scenografia: Amedeo Fago; montaggio: Silvano Agosti; musica: Nicola Piovani; interpreti: Giulio Brogi (Trigorin), Laura Betti (Irina), Pamela Villoresi (Nina), Remo Girone (Costantin), Gisella Burinato (Mascia), Remo Remotti (Dorn), Antonio Piovanelli (Medvedenko), Mattia Pinoli (Sorin), Clara Colosimo (Polina), Gaetano Campisi (Sciamraev); produttori: Lù Leone, Roberto Levi, Enzo Porcelli, per la RAI, Rete 1; origine: Italia, 1977; durata: 132'. |
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Trama: | Dal dramma (1895) di Anton Cechov: Costantin, figlio di Irina, celebre attrice, mette in scena nella tenuta materna del Veneto un suo dramma per conquistare l'amore della ricca e giovane Nina che, invece, segue in città un letterato maturo, già amante di Irina, e ne sarà abbandonata. |
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Critica (1): | Cechov è un autore al quale spesso il cinema si è rivolto. Sono stati soprattutto i sovietici a trasporne sullo schermo racconti e pièces teatrali, sin dagli anni venti, e in genere l'hanno fatto irreprensibilmente: da Cariche e uomini (1929) di Protazanov a La signora con il cagnolino (1960) di Keifitz, la filmografia cechoviana testimonia di un amore per il grande scrittore russo, trasfuso in adattamenti ligi ai testi originari e al loro spirito e inventivi sul piano del linguaggio. Nelle assidue frequentazioni che la cinematografia sovietica ha avuto con la letteratura russa dell'Ottocento, Cechov costituisce un caso a sé per l'originalità e per la freschezza di rinvii, il più delle volte lungi dal concludersi in paludate commemorazioni e in accademici saggi illustrativi. Sporadici sono stati gli incontri delle altre cinematografie con Cechov: anche in Italia a qualche sua novella c'è chiesto lumi in alcune circostanze calcolabili sulle dita di una mano. Il primo regista italiano che si riaccosta a Cechov è Marco Bellocchio che, per conto della Rai-Tv, ha desunto da Il gabbiano un film dinanzi al quale inorridiranno le vestali della tradizione. Temerarietà ce ne vuole abbastanza per un cineasta, che non sia tentato di scomodare gli archetipi più ammirati. Bellocchio non ne è sprovvisto e gli è di giovamento l'irremovibilità nell'impuntatura di cancellare dalla mente il ricordo dei film cechoviani finora prodotti e di non assimilare influssi dalle regie teatrali che, nel nome di Cechov, hanno associato fervidi ingegni: da Visconti a Strehler. Un bell'atto di coraggio, sta nel vietarsi di ritagliare una fetta di Russia in qualche pianura del Settentrione e pretendere di renderla credibile al cento per cento. Sia perciò lodata l'approssimazione scenografica, sia lodato ne Il gabbiano il partito preso di non ricreare, appoggiandosi ai documenti iconografici, una vetrina di museo e sia benvenuto l'antiviscontismo di Bellocchio, la mancanza di scrupolosità filologica e di pignolerie che altrimenti avrebbero facilitato il cristallizzarsi della materia cechoviana, se non la sua riduzione a una sfilata di quadretti calcografici. E non ci sembra che disturbi un paesaggio inconfondibilmente nostrano e tuttavia nella sua mestizia mediatore ideale di un mondo poetico; un paesaggio armonizzato alla pittura cechoviana che negli sfondi, nelle comici dell'azione drammatica, nelle ricostruzioni ambientali ricercava più che l'immagine esatta e fotografica della quotidianità il segno corrispondente, nelle cose e nella natura, di un malessere che invade gli esseri umani. L'azzardo, commesso a carte scoperte da Bellocchio, non si giustifica quindi in ragione di esigenze pratiche, ma trae motivi da una lettura non riduttiva e pedestremente storicistica di Cechov e da una regia che bandisce i registi naturalistici. Suggerita più che ricostruita minuziosamente, la Russia di Bellocchio non rappresenta la collocazione storico-geografica di un dramma, ma adombra una condizione generalizzata. Un modo questo per togliere Cechov dagli altari e dalle teche e di farcelo sentire a noi contemporaneo, descrittore di inquietudini non relegabili nella memoria letteraria né in circoscrizioni temporali distanti dalle nostre. Una profanazione delle pedanterie naturalistiche questa che libera Cechov dalla vocazione archeologica dei registi che lo rivisitano, prevalentemente in teatro, con ossequiosa condiscendenza ai modelli di Stanislavskij e Dancenko, peraltro eccelsi ma ormai mummificati e generatori involontari di operazioni mimetiche e ripetitive. Bellocchio rinnova Cechov e non si ferma alla superficie. la struttura del lavoro teatrale è ritoccata tutta: i ritmi dell'andamento scenico vengono ristretti, scompaiono i silenzi, i tempi morti, le pause allungate, è sfoltita la partitura che ha permesso di fraintendere Cechov e di scam
biarlo per un atmosferista incline a crepuscolari immalinconimenti. La macchina da presa non si allontana dai personaggi per tenerli sospesi in uno spazio da occupare con notazioni che diano la preminenza alla distillazione di un clima; anche i suoni e i rumori che, sulla scena, musicalizzano la drammaturgia cechoviana sono impaginati con criteri di massima funzionalità e realismo, non per produrre risonanze ed echi suggestivi. Il primo piano è il campo visivo dominante ne Il gabbiano di Bellocchio, e vi si trattengono i protagonisti, per ritrovare nella vicinanza dei volti all'obiettivo cinematografico e nell'isolamento dei singoli visi la misura particolarissima dei dialoghi cechoviana, in cui chi parla interroga se stesso più che interloquire con gli altri e rimugina soliloqui e rincorre riflessioni solo occasionalmente correlate a quelle dei partecipanti ai conversari. È come se ognuno stessa a guardarsi allo specchio e dinanzi al pubblico si incrociassero monologhi, che di una comunicazione colloquiale hanno le parvenze. La disarmonia e le dissociazioni delle battute cechoviane, la fissità dei personaggi e il loro monadismo escono ribaditi dal film di Bellocchio, financhè dalla inflessione trasognata e un po' stonata con la quale alcuen figure del contorno intervengono. Bellocchio non addolcisce ciascun ritratto e ciascuna confessione e non li inquadra nel commento di una pena intenerita; non v'è posto per struggimenti e svenata tristezza in questo Gabbiano che trasuda angoscia, disperazione, sentore di morte e ribolle di tensioni che si addensano e stanno per prendere fuoco.
Mino Argentieri, Cinemasessanta, n. 121 maggio-giugno 1978 |
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