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Storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi - Istorja Asja Kljacina, Kotoraja Ljubila, Da ne Vysla Zamuz


Regia:Koncalovskij Andrej

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Jurij Klepikov; fotografia: Georgij Rerberg; suono: Raisa Margatscheva; scenografia: Michail Romadin;montaggio: Andrej Koncalovskij; interpreti: Ilja Savvina (Asja Kljacina), Ljubov Sokolov (il trattorista), Aleksandr Surin (Stepan), Gennadij Egorycev (abitante del kolkhoz), Ivan Petrov(abitante del kolkhoz); produzione: Mosfil’m; origine: URSS, 1967; durata: 92'.

Trama:È la storia di una giovane contadina di Kolchoz, ragazza madre, amata da due uomini: Stepan, un fannullone, poco di buono e un trattorista, onesto lavoratore. Asja rimane incinta di Stepan che non ne vuole sapere, ma rifiuta anche l'offerta di matrimonio del secondo. Decide di tenersi il figlio, sfidando l'ambiente gretto e moralista del suo paese.

Critica (1):[...] C’è un film mitico negli anni Sessanta Asino Scast’e (Felicità di Asja). Molti cineasti, l’hanno visto in visioni private, ma il film non è mai uscito sugli schermi. È il film “maledetto” per eccellenza del decennio, anche più dell’Andrej Rublëv.
Va detto anche che Tarkovskij ha avuto delle difficoltà, ma non ha mai visto un suo film proibito, a me invece hanno proibito questo mio secondo film, che uscirà finalmente dai depositi nel 1988, secondo le nuove direttive. Devo solo trovare il tempo di andare a Mosca, restaurarlo secondo la prima idea del film, che assumerà anche il suo primo titolo: Istorija Asii Kljaciny, kotoraja ljubila da ne vysla zamuz (Storia di Asja Kljacina, che amò e non si sposò). La sceneggiatura del film esisteva ancora prima del Primo maestro. Ma quando sono andato sul posto per girare un film basato su quella sceneggiatura, un anno e mezzo più tardi, sono rimasto sconvolto dalla disparità che vedevo fra vita e testo scritto. Ho capito che se avessi girato il film così com’era sulla carta sarebbe venuto fuori il solito “kino-kolchoz, la solita campagna edulcorata dai nostri schemi cinematografici. Non volevo un altro film così e ho deciso che era il momento di osare. E ho cominciato dalla scelta degli attori, rifiutando gli attori professionisti e cercando gente “normale”. Una pratica rivoluzionaria per il cinema sovietico di quegli anni.

La protagonista però è una attrice professionista ben nota: Ija Savvina, l’eroina dellaSignora col cagnolino.
Ci sono solo due attori nel film, e uno dei due non era poi neanche un attore, era il figlio del direttore generale della Mos-film. Surin un aspirante regista, che aveva una bella faccia russa. Con la Savvina le cose sono andate così. L’ho chiamata e le ho detto: “Le parlo in tutta franchezza. Io vorrei per il ruolo un’attrice non professionista. Se lo troviamo non prendiamo lei. Se non la troviamo, vorrei proprio che fosse lei a interpretare Asja la zoppa”. La Savvina ha accettato la sfida. Le abbiamo fatto dei provini, dove mi venne in mente di “provocare” l’attrice, dentro l’inquadratura, per così dire, durante le riprese. La Savvina aveva un copione molto preciso da seguire, e io d’un tratto le dicevo, da dietro la macchina da presa: “Asja dov’è il sale?”. La Savvina reagiva con prontezza, divertendosi: “È lì, prendilo da te”. Si poteva inserire perfettamente nel programma di “improvvisazione” che volevo mettere in opera nello stile recitativo del film, era proprio il contrario delle contadine da kinokolchoz tradizionale. E così quando tornai da lei, dopo la vana ricerca di una non-attrice per la parte, Ija Savvina, beltà nordica, fragile, bella come un bucaneve, un’intellettuale vera, che in teatro recitava Casa di bambola, accettò di fare al cinema la parte di una contadina, accento dialettale compreso. E si inseriva benissimo nel tessuto del film, dove abbiamo lasciato largo margine alle scene e alle battute improvvisate da contadini veri, presidenti di kolchoz veri, gente che non aveva mai avuto niente a che fare col cinema. Raffiche di verità.

Qual’è il tipo umano più straordinario che ha usato nel film?
Una volta eravamo in un club contadino, durante una serata di dilettanti, e sul palco qualcuno leggeva Puskin. D’un tratto sento una voce dall’alto che borbotta: “Non si recita mica così Puskin”. Alzò la testa e vedo un elettricista su una scala che stava aggiustando un lampadario. “E come si dovrebbe recitare?”, dico io. E lui, a mezza voce, mi recita Puskin. “Vieni giù dalla scala”, gli ho detto, “ti faccio fare un film”. Era un tipo incredibile, un avventuriero, appena uscito di galera, faceva l’elettricista per sbarcare il lunario. Passava da una prigione all’altra. Nel corso delle riprese si è sposato, divorziato e risposato un’altra volta. Un giorno si è messo a torso nudo e abbiamo visto che sul petto aveva tatuato da una parte Lenin dall’altra Stalin. Così ho inventato una scena dove un ragazzo punta il dito sul petto dell’uomo e dice: “questo è Lenin, e questo chi è?”. Né il regista, né l’operatore, e a volte neanche l’attore-non-attore sapevano spesso cosa sarebbe venuto fuori dalle scene che si apprestavano a girare. Certi non si accorgevano neanche che stavamo riprendendoli.

Come ha influito questo lavoro di “improvvisazione” con gli interpreti sullo stile del film?
In Asja ho deciso di rifiutare la “messa in scena”, ho smesso di ragionare in termini di inquadrature. Mi sono reso conto che le indicazioni minuziose riportate sulla sceneggiatura definitiva: “primo piano, due metri” e così via è follia, grafomania. Abbiamo girato con due, a volte con tre macchine da presa contemporaneamente: a volte la seconda macchina da presa era solo per fare scena, quella che girava davvero era l’altra, “nascosta”, o quasi. Avevo pensato inizialmente a qualche soluzione stilistica sofisticata, poi mi sono accorto che stonavano con il progetto generale. La vera scoperta non era il procedimento espressivo che scoprivo io, ma quello che dicevano i non-attori, gli uomini semplici che avevamo scritturato e che portavano nel film il soffio della vita, una sincerità, un comportamento che non si era ancora visto sullo schermo. Asja è, programmaticamente, un film senza stile.

Qual è il motivo principale dell’ostracismo decretato al film?
Quando il film è stato presentato alle autorità, Filipp Ermas, che allora era nel Comitato centrale, e poi doveva diventare il presidente del goskino, sostituendo Romanov, e segnare una grande stretta di freni nella autonomia creativa degli autori cinematografici, mi ha detto che era ancora più bello e più umano del Primo maestro. Due settimane più tardi era tutto cambiato. Arrivarono a dire: “Questo film ha potuto farlo solo un agente della Cia” (Semicastnyi). Il guaio è che avevo girato il film nella regione di Gor’kij e a Gor’kij il film non piacque. Niente di male, si dirà, al segretario di un comitato regionale non piace un film. Pazienza. E invece le cose andarono diversamente perché quel segretario si chiamava Katysev, e Katysev era stato compagno di corso di Dubcek, abitavano nello stesso pensionato, nella stessa stanza. Era l’unico, si pensava, a cui si poteva affidare il compito delicato di convincere Dubcek a recedere dalla sua “fuga in avanti”. Ma, non essendo possibile immaginare che un oscuro segretario regionale dialogasse a tu per tu, ufficialmente, con Dubcek, Katysev venne promosso dall’oggi al domani, e il suo nome cominciò ad avere un peso notevole. E così il mio film andò a gambe all’aria. Oggi però chi si ricorda più di katysev, di Semicastnyi? Non ci sono più. Asja invece c’è, grazie a Dio. [...]
intervista ad Andrei Koncalovskij in Al di là del disgelo. Cinema sovietico degli anni Sessanta a cura di G. Buttafava, Milano, Ubulibri, 1987


Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Michalkov Koncalovskij
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