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Grizzly Man - Grizzly Man


Regia:Herzog Werner

Cast e credits:
Soggetto: Werner Herzog; fotografia: Peter Zeitlinger; musiche: Richard Thompson; montaggio: Joe Bini; interpreti: Franc G. Fallico (se stesso), Amie Huguenard (se stessa), Timothy Treadwell (se stesso); produzione: Discovery Docs; distribuzione: Fandango; origine: Usa-Canada, 2005; durata: 100’.

Trama:Dopo una tranquilla infanzia trascorsa nel grembo di una famiglia piccolo-borghese della provincia americana, Timothy Deadwell esce di casa con una borsa di studio per studiare all'università e inizia a frequentare cattive compagnie che lo portano sulla strada dell'alcolismo e della droga. Tenta di sfondare nel mondo dello spettacolo, ma fallisce. A quel punto, giunto sull'orlo del baratro, scopre l'Alasca e i suoi orsi e trova così una nuova ragione di vita. Dal 1990 al 2003 Timothy passa svariati mesi all'anno nella natura selvaggia, a contatto con i suoi amati animali, tra i quali riusce a riacquistare una qualche serenità interiore e a dar sfogo al suo disagio nei confronti della civiltà. Nell'autunno del 2003, tuttavia, dopo aver inconsultamente prolungato il loro campeggio, Zimothy Treadwell e la sua compagna Amy Huguenard vengono sbranati da un orso.
Herzog fa prevalentemente uso del materiale girato da Treadwell, intervallandolo con riprese sue, tra cui interviste a persone coinvolte a vario titolo in varia misura nella vicenda.

Critica (1):Dopo poche ore ero già in grado di dare indicazioni precise. Una grande percentuale del girato era composta da paesaggi kitsch, orsetti arruffati, la mamma orsa e due cuccioli... Ma io ero alla ricerca di cose molto precise: a volte guardavo il materiale stando alle spalle dei miei assistenti e trovavo immagini che avevano scartato. A volte l'immagine restava vuota, magari per dieci secondi: per esempio l'erba e le foglie mosse dalla tempesta, e sentivo che non si potevano tralasciare cose così meravigliose. Alla fine visionai dieci, quindici ore di girato e mi fu chiaro di che cosa avessi bisogno per il film e che cosa invece avrei dovuto lasciare fuori. E come raccontare il film è venuto fuori quasi a occhi chiusi. (…)
Esiste un confine che non va oltrepassato. Ancora una volta mi sono trovato ad affrontare la questione dei limiti, che ho dovuto gestire già all'inizio della mia vita professionale. Esiste un confine che non deve essere varcato e il confine è costituito dalla privacy e dalla dignità della morte di un individuo.
Werner Herzog in Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro, 2008

Critica (2):In quasi 40 anni di carriera, Werner Herzog non ha mai smesso di usare il cinema per mostrare quello che solitamente i film lasciano fuori dall' inquadratura: la fatica vera, la paura, il rischio, la sfida. Ne ha persino girato uno - Kinski, il mio nemico più caro - per raccontare gli scontri (arrivati ad autentiche minacce di morte) che l' avevano opposto all' interprete di alcuni dei suoi capolavori e che inevitabilmente lo spettatore di quei film non aveva potuto vedere. Non è solo un' idea di narcisismo che ha pochissimi paragoni nella storia del cinema (forse Warhol, forse Stroheim), ma piuttosto il sogno di poter realizzare finalmente l' utopia di tutte le utopie cinematografiche: riuscire a dirigere la vita stessa. Cancellare ogni separazione tra realtà e finzione e mettersi in gioco personalmente usando il cinema come campo di prova per dimostrare che l' ambizione del romanticismo tedesco, far coincidere arte e vita, è finalmente possibile. Per raggiungere questo scopo, Herzog non soltanto si è dato obiettivi che sfioravano la follia (far risalire un battello, con la sola forza delle braccia, su una montagna nell' Amazonia in Fitzcarraldo), se non addirittura il rischio suicida (girare in parete sul Cerro Torre, in Patagonia, per Grido di pietra). Più di una volta si è voluto anche misurare con il titanismo della natura per cercare di «domarlo» con la sua macchina da presa, che si trattasse di un vulcano in eruzione (La Soufrière), dei pozzi di petrolio incendiati dagli irakeni (Apocalisse nel deserto) o di sorvolare la giungla con un pallone aerostatico (White Diamond). Ma mai aveva toccato gli estremi affrontati in Grizzly Man. Il film - chiamarlo documentario sarebbe davvero riduttivo e ingeneroso - racconta la vita di Timothy Treadwell, uno strano ecologista che passò quattordici estati, dal 1990 al 2003, tra gli orsi selvaggi dell' Alaska. Per difenderli, sosteneva lui, anche se gli unici «disturbatori» erano pochi turisti che si tenevano a rispettosa distanza da questi pericolosi animali. O per uno strana pulsione autodistruttiva, pensa Herzog, che spinse Treadwell a «misurarsi» con gli orsi sul loro stesso terreno e che potrebbe essere all' origine della sua straziante morte: sbranato insieme alla sua fidanzata nell' ottobre del 2003. Ad aumentare il fascino di questo strano personaggio contribuiscono poi le riprese video che Timothy fece nei suoi ultimi soggiorni in Alaska: una specie di auto-messa-in-scena, dove «recita» se stesso davanti a un video lasciato acceso su un treppiede, quasi una parodia delle origini del cinema (dove non esiste regista) ma vivificato dall' irruzione della realtà (l' orso in secondo piano non recita certo e in gioco c' è sempre la vita).In Grizzly Man Herzog utilizza questo materiale e lo alterna a interviste con le persone che avevano conosciuto Treadwell o avevano lavorato con lui. Ma si capisce subito che quello che lo interessa davvero non è il ritratto di una specie di «martire» della natura, né la ricostruzione di una disgrazia. È come se in quella storia Herzog vedesse se stesso e la sua filosofia di cineasta e, interrogandosi, chiedesse allo spettatore di riflettere sul cinema e sui suoi limiti. Pur se girate in maniera scolastica o peggio, le riprese di Treadwell possedevano quello che filmati molto più elaborati non sfioravano nemmeno: la forza della realtà. Ma denunciavano anche l' unicità e l' irripetibilità di quell' esperienza, tanto «estrema» da finire (inevitabilmente?) con la morte. Arrivando così a ribadire che il cinema ha dei limiti che neppure un cineasta come Herzog può superare. Tanto è vero che dopo aver ascoltato la registrazione sonora dell' attacco dell' orso assassino e delle grida di Treadwell, lo stesso Herzog non solo sceglie di non metterla nel suo film, ma consiglia chi è in possesso di quei nastri di distruggerli. Questione di morale della visione, certo, ma senza perdere di vista il senso del cinema. Altrimenti perché imbarcarsi in questo film? Perché, come dice la voce off del regista, «mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vive
re, nella loro grazia e ferocia, un' idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura, quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura». È qui che il cinema può ritrovare il suo senso e ce lo dice con tutto lo strazio e l' angoscia possibile. Come è già accaduto in passato, Herzog finisce quasi per scontrarsi con il soggetto dei suoi film, per tenerlo a distanza. È un po' il destino di quei pochi, grandi cineasti che non vogliono percorrere strade risapute, e corrono il rischio del vicolo cieco. Come in Grizzly Man, dove c' è il fascino dell' evento irripetibile (quale altro «attore» morirebbe davvero?) ma anche la speranza, parlando di morte, che lo spettatore possa capire un po' di più le ragioni della vita.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 24/11/2006

Critica (3):In Grizzly Man il rapporto con gli orsi si dà in due modi apparentemente inconciliabili e discrepanti: da una parte c'è il protagonista della vicenda - il "biografato" Timothy Treadwell - che vive in stretta comunione con gli orsi, che avverte un'affinità elettiva nei loro confronti, che trova al loro cospetto quella felicità che nessun uomo o abitudine sociale è in grado di dargli; dall'altra c'è il regista che confessa che lui nelle orbite vuote, liquide, degli orsi bruni non vede altro che l'istinto predatorio e la fame. Quegli occhi non nascondono una profondità abissale. Sono una superficie piatta, inespressiva: non guardano, piuttosto colpiscono anch'essi come zampe o addentano come mascelle. Sono occhi senza spessore, occhi come sottili membrane su cui il dentro e il fuori non hanno tempo per distinguersi: subito s'incontrano nella pulsione animale, nel puro appetito che cerca il proprio appagamento.
Occhi ciechi, indifferenti.
Come possono, questi occhi, ispirare un sentimento, comunicare qualcosa? Il rapporto di Treadwell con gli orsi diviene così un mysterium tremendum. Cosa cerca l'uomo nella bestia? Che rapporto c'è tra i peluche a forma di orso con cui Timothy usava giocare da bambino e i mastodontici animali con cui trascorre le sue giornate da adulto - animali che alla fine, quasi a conclusione di una parabola fatale, ribaltano i ruoli e riducono Timothy a qualche libbra di carne?
L'uomo è bensì un animale, ma - per dirla con Ernst Cassirer - un animale simbolico, che tenta di investire di senso la realtà intorno a sé. Gli orsi per Timothy non si riducono al grado zero dell'istinto; significano qualcosa.
È un'esperienza che in modo più mediato accomuna tutti noi a partire dall'infanzia, quando appunto l'orso è innanzitutto il nostro pupazzo: un prodotto culturale e ludico che soppianta quasi in toto quello naturale. Anche per Timothy le cose sono cominciate così: con un orso di peluche quale compiuta espressione di una realtà piccolo-borghese della provincia americana - una realtà che poco si distingue, in linea di principio, dal mondo ordinato, ovattato, color pastello di certo cinema di David Lynch (Velluto blu, Blue Velvet, 1986) o di Tim Burton (Edward mani di forbice, Edward Scissorhands, 1990). Timothy cresce all'interno di un recinto protettivo, di un guscio avvolgente, di uno schermo rassicurante; vive la sua giovinezza secondo i valori americani, e non manca di assaporare la sua piccola porzione di sogno a stelle e strisce (il successo sfiorato, prima nello sport e poi nello spettacolo). Timothy sembra l'emblema dell'all american boy, del sunny boy, il bambino gioioso, solare: uno stereotipo a cui i suoi capelli biondi come raggi di luce paiono con dannarlo.Tuttavia l'irrequieto Timothy tenta l’ inaudito: tenta di far coincidere il peluche borghese con il grizzly selvaggio, il simbolo culturalmente depotenziato con la strapotenza della fiera in carne e ossa, la "parola" con la "cosa". E si genera così una scissione, una sfasatura, uno slittamento tra il segno e il suo referente. Lo scarto, come accennato, viene evidenziato da due diverse prospettive sulla natura, di cui si fanno carico rispettivamente Treadwell e Herzog. La voce over di
quest'ultimo spiega in un passaggio: «La perfezione apparteneva agli orsi. Ma ogni tanto Timothy si confrontava con l'aspra realtà della natura selvaggia. Questo strideva con la sua visione sentimentalistica secondo cui tutto là fuori era buono e l'universo era in equilibrio e in armonia. A volte gli orsi maschi uccidevano i cuccioli per far smettere alle femmine di allattarli e averle così a disposizione per la fornicazione. (...) Qui mi discosto da Treadwell. Egli sembra ignorare che in natura ci sono i predatori. Io credo che il denominatore comune dell'universo non sia l'armonia, ma il caos, l'ostilità e l'omicidio». Altrettanto insopportabile per Treadwell è la constatazione che gli orsi, quando ridotti alla fame, divorano i loro stessi piccoli. In definitiva, se Treadwell è convinto che la natura sia pervasa dall'amore e dall'equilibrio, Herzog scorge in essa soltanto una volontà assassina, un bellum omnium contra omnes (secondo la definizione hobbesiana dello stato di natura). Quello di Herzog - contrariamente a numerosi luoghi comuni della critica - è un cinema lucido e duro, che non indulge al facile sentimentalismo di sublimi trasporti. In questo senso appare evidente che Treadwell per Herzog non è un eroe d'altri tempi. Ma cosa intende farne allora il regista? Ridicolizzarlo? Guardare con un senso di pietà e con un sorriso amaro a un personaggio che ha pensato di trasferire la sua visione arcadica e pacificata della natura negli scenari spietati dell'Alaska?
In realtà Herzog mette in scena quella discrepanza per procedere a una riflessione vertiginosa sulle dinamiche del senso. Egli, lungi dallo screditare un senso particolare (nella fattispecie, il senso attribuito da Treadwell), mostra come ogni senso scaturisca da e si sporga su un'insensatezza. Che è innanzitutto l'insensatezza dell'animalità. «Probabilmente per noi, fra tutti gli enti, l'essere-vivente è il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, e dall'altro è a un tempo separato da un abisso dalla nostra essenza e-sistente».
«Pare che la linea tra l'uomo e l'orso sia sempre stata rispettata dalle comunità native dell'Alaska», spiega Herzog. E poi chiede al curatore del museo di Kodiak (Alaska), Sven Haakanson: «Cosa ne pensa della storia di Timothy Treadwell. » . E l'uomo risponde: «E tragica perché lui è morto ed è morta anche la sua ragazza. Lui tentava di diventare un orso, di comportarsi come un orso. A nostro avviso non si deve fare così. Non puoi invadere il loro territorio. Quando sei nel loro territorio sai che sei lì e quando sei vicino ti assicuri che sappiano che sei lì. Il suo tentativo di comportarsi come un orso è per me il modo peggiore di disonorare gli orsi e ciò che rappresentano». «Ma lui cercava di proteggere gli orsi, o no?», replica Herzog. «Penso e ne abbia più che altro danneggiato gli orsi», continua l'interlocutore «Perché quando abitui un orso alla presenza umana, tutti pensano che gli uomini siano al sicuro. Dove sono nato io, gli orsi ignorano noi e noi ignoriamo li orsi. Non sono abituati a noi. Timothy Treadwell ha varcato un confine che abbiamo rispettato per 7000 anni. E un confine tacito, sconosciuto, ma quando ci rendiamo conto di averlo superato, paghiamo il fio». Sam
Egli, pilota di elicottero accorso sulla scena dell'uccisione, denuncia il fatto che Treadwell si comportava con gli orsi come se si fosse trattato di persone travestite da animali. «Alla fine ha ottenuto ciò che andava cercando, ciò che meritava. La tragedia è stata portare la sua ragazza con sé». Treadwell, che accarezzava gli orsi come dei peluche, «non si rendeva più conto di ciò che stava realmente accadendo». E Herzog, a sua volta, rifacendosi ai diari di Treadwell, fa notare come in lui persistesse la linea di demarcazione tra orsi e uomini, ma anche come fossero questi ultimi a perdersi in lontananza e gli orsi a divenire i suoi compagni, i suoi "simili".
A prescindere dagli accenti di queste affermazioni (benevoli o critici), si può nota- , re come ogni volta si riproponga la questione della linea divisoria tra humanitas e animalitas - e non un'animalità qualsiasi, bensì quella distante, indifferente e impenetrabile degli orsi, refrattari all'addomesticamento. Cosa rappresenta per Herzog Timothy Treadwell, cioè colui che vuole rendere tale linea divisoria un confine poroso? Se non è un eroe, cos'è allora? Un idiota, un illuso, forse persino un malato di mente (come sembra insinuare il pilota)? Il fatto è che per Herzog la stupidità di Treadwell è tutt'altro che vuota. L'animale, la natura tout court, sono ambiti di confine in cui il senso, il linguaggio si avvicinano ai loro estremi limiti, e riescono a dar forma a questi limiti solo per viam negationis, portandone sul proprio corpo le ferite, le lacerazioni, le cicatrici - testimonianza di un linguaggio e di un senso che non si chiudono autoreferenzialmente su se stessi e al contempo non possono dire e determinare compiutamente il punto cieco verso cui si aprono. Rimangono così spezzoni di parole, barlumi di visioni, echi sotterranei di melodie. La natura, l'animale sono il Finis terrae della rappresentazione. E Herzo viaggia su queste terre perdute, ai bori, ai margini del senso, laddove il senso si fa e si disfa, laddove le parole e le immagini pulsano ed esplodono a contatto con il magma primigenio, e restano quale traccia di ciò che non può essere detto. Il significato di cui Treadwell investe gli orsi non viene meramente annullato o sconfessato da Herzog; diviene per lui un ne scio quid: il non-soche come sfondo obliato e irrappresentabile della rappresentazione, come il suo humus se gr eto, che si dis-loca continuamente nella rappresentazione e che disloca la rappresentazione quando quest'ultima rivendica un'eccessiva consistenza.
Tuttavia, se ci si affaccia interrogativamente sull'animalità, se non si sa bene dove collocare la linea di confine tra orso e uomo, è anche perché l'uomo stesso (quest'animal rationale) è divenuto enigmatico. Se Timothy vuole trasformarsi in orso, è per interrogare l'umano.
Timothy, l'all american boy, a un certo punto deraglia, incomincia a frequentare cattive compagnie all'università, abbandona gli studi, tenta di intraprendere la strada insidiosa dello spettacolo e alla fine si sRezza, cade preda dell'alcol e della droga. E a questo punto che egli tenta di reinventarsi: si costruisce un nuovo personaggio per prendere le distanze dal passato, da se stesso: si sdoppia. Ciò non toglie che egli continui a portare dentro di sé il suo atro, i suoi demoni, il maelstrom delle sue passioni. E l'abisso invoca l'abisso. Il paesaggio estremo e inospitale dell'Alaska è - nota Herzog - uno specchio dell'animo turbolento di Timothy. Avventurandosi nell'estremo Nord egli cerca un luogo in cui stare a ridosso dei suoi fantasmi, un luogo in cui poterli interrogare e in cui poter mettere in discussione (sul modello della disobbedienza civile di Thoreau e del conservazionismo di Muir) l'ordine sociale e la civiltà. Timothy non è ingenuo, sa quanto rischia a contatto con gli orsi, e ripetutamente allude all'idea di morire, di essere assalito, fatto a pezzi e decollato. Ma egli sa anche che solo sull'orlo di questo baratro può fare i conti con se stesso, con la sua interiorità già frantumata e sempre attratta dal caos. «Amo i miei amici animali», dice «Amo i miei amici animali. E sono pieno di problemi». In un caso fa un gioco di parole in cui parla di una volpe come di un «wild animal» e di sé come di una «wild person». Qui, all'insegna della wilderness, sta il nesso, il ponte che sembra consentire di instaurare una comunicazione. Spesso Timothy si confida con i suoi "amici animali", spiega loro che era alcolizzato, che ha tentato di tutto per smettere di bere, ma che è riuscito a farlo solo quando ha scoperto gli orsi e l'Alaska, solo quando gli animali - la difesa e lo studio degli animali - gli hanno dato una ragione di vita. Egli ha offerto loro il suo aiuto, a patto che loro aiutassero lui, instaurando un'occulta e impronunciabile corrispondenza.
Timothy accende la telecamera. Voleva essere un attore: nella sua insistita presenza di fronte all'obbiettivo si può leggere un impulso esibizionistico, rispetto al quale lo spettatore si trasforma in voyeur. Ma al di là di questo compiacimento nella propria messa in scena, Timothy è innanzitutto un testimone che rende conto della sua esplorazione di sé; appartiene idealmente a quella folta schiera di artisti impegnati per mezzo dell'autorappresentazione a sondare il proprio mistero - il mistero che si è. Timothy non vuole prendere antidepressivi, preferisce essere reda degli alti e bassi del suo umore, preferisce abbandonarsi al suo ottovolante emotivo e, sentendo, conoscere se stesso. Riprendersi è per Timothy un tentativo di fissare la sua sfuggente fisionomia. Egli è impegnato a dirigere un film (Herzog fa notare come ripeta le scene, scelga le inquadrature, si prepari per comparire): il proprio film su se stesso. Per questo motivo le n rese di Treadwell si pongono - precisa Herzog alludendo alla sua polemica con il Cinéma vérité - ben al di là di qualsiasi documentario sugli animali selvaggi, così come al di là di ogni ideologia ambientalista e animalista.
Ma Timothy in Alaska ci va con il suo peluche a forma di orso. Senza quel peluche l'abisso dell'origine diverrebbe puramente distruttivo. Il depotenziamento, la disattivazione culturale, sono quanto di più prezioso in possesso del1 uomo. Eppure tale patrimonio, nel momento in cui si ripiega su se stesso, si svuota. Di qui il tentativo di Herzog (e di Timothy, seppur inconsciamente di restituire al linguaggio e all'immagine il brivido della loro origine. E ciò accade soffermandosi su una soglia, a ridosso dell'indicibile che sta nel dicibile: vuoi che sia il suono sottratto dello scontro mortale con il grizzly, vuoi che siano le immagini negate del massacro. Lo scatenamento animale e il grido primigenio di terrore dell'uomo fanno parte di una preistoria irrappresentabile, da cui la storia (culturale innanzitutto) ha provveduto a staccarsi. Quel grido disarticolato, se urlato di nuovo, segnerebbe la fine della civiltà. Ma se non se ne captasse più il riverbero, la civiltà sarebbe sradicata. E il peluche di Timothy, anziché commuovere, tornerebbe a essere uno scipito e slavato reperto borghese. (…)
Francesco Cattaneo, Cineforum n. 460, 10/2006

Critica (4):Non è facile dire dove potrà arrivare il documentario. Verso quali obiettivi, quali orizzonti potrà spingersi questo genere che, dopo anni di oblio, sta riscoprendo da qualche tempo a questa parte una nuova dimensione e rinnovate forme espressive e sta prepotentemente entrando a far parte dell'immaginario cinematografico collettivo. L'hanno dimostrato in prima istanza i film di Michael Moore, che ne hanno consentito lo "sdoganamento", poi sono arrivate altre opere, anche italiane, e hanno fatto il resto.
E ora sono i registi che per primi tentano palesemente di sovvertire le regole del gioco, o quantomeno di modificare le ristrette griglie estetiche ed interpretative che ne costituiscono il sostrato. Lo ha dimostrato Grizzly Man di Werner Herzog, presentato nella sezione "Americana" del 23° Torino Film Festival. Il regista tedesco, noto fin dai primi anni Settanta per le sue opere di rara efficacia emotiva e sperimentale, ha compiuto con questo film un ulteriore passo verso la codificazione del genere, seminando una serie di idee che aspettano solo di essere raccolte e sviluppate.
Grizzly Man racconta la vita di Timothy Treadwell, ambientalista e studioso di animali, che per scelta personale viveva diversi mesi all'anno in Alaska, a contatto con i grizzly, i temibili e pericolosi orsi grigi. Treadwell, dopo molti anni passati a studiarli, aver stabilito con loro un'affinità emotiva impensabile per un essere umano ed essere diventato persino un personaggio pubblico (ospitato nientemeno che al David Letterman Show), è morto in circostanze misteriose il 6 ottobre 2003, insieme alla fidanzata Amie Huguenard. Il film mescola in un efficace contrappunto i video originali girati dai due protagonisti con le interviste più recenti, realizzate da Herzog, alle persone che conobbero e amarono Treadwell, condividendone (anche se non sempre con la stessa intensità) le passioni. L'obiettivo di Herzog registra così le impressioni e le testimonianze di genitori, amici d'infanzia, collaboratori ed ex fidanzate, componendo un ritratto profondamente umano e carico di pietas, e raffigurando un uomo pervaso interamente dalla propria ossessione, sebbene non fino al punto da trascurare del tutto i rapporti con i propri simili. Ciò emerge ancor più dai filmati originali, dai quali traspare l'innata capacità di Treadwell di "comunicare" con gli orsi, entrando nel loro mondo e vivendo in stretta armonia con essi: immagini molto spesso ravvicinatissime, che ci trasportano all'interno della comunità dei grizzly e mostrano con impressionante realismo gli sforzi dell'ambientalista di farsi accettare da loro. Esemplari e splendide, nella loro esplosione di potenza animale, sono per esempio le sequenze di lotta, che non disdegnano di mostrare la crudeltà dei combattimenti e le profonde ferite che gli animali accusano alla fine di essi.
La rappresentazione della vita degli orsi grigi (che a tratti non può non ricordare L'orso di Jean-Jacques Annaud), pertanto, priva com'è di didascalismo e tesa invece a captare "in presa diretta" tutto quanto avviene sotto l'occhio attento di Treadwell, raggiunge vertici di verosimiglianza e aderenza al reale che poche altre volte si erano visti al cinema. La progressione narrativa, che ci avvicina sempre più al momento della tragica e misteriosa morte del protagonista, è condotta esemplarmente e, pur intervallando immagini di archivio e interviste, senza soluzione di continuità. Il film è un lento scivolare verso la scontata (perché nota fin dall'inizio) e terribile fine, la morte di Treadwell, avvenuta con tutta probabilità a opera di un orso estraneo alla comunità che egli stava cercando di studiare.
A ben vedere, tuttavia, la vera forza di Grizzly Man non sta in questo; né nella potenza evocativa delle immagini, né nel magistrale impatto drammatico delle interviste. Sta invece nella capacità di Herzog di procedere costantemente sulla linea di confine tra realtà e finzione, elaborando, con un film che solo apparentemente, parafrasando un saggio di Roland Barthes, è fermo al "grado zero della visione", un'attenta e acuta analisi sulle dinamiche che regolano la sovrapposizione dei piani narrativi e l'estetica della rappresentazione filmica. Solo in apparenza un passo indietro rispetto al celebrato "mockumentary" (documentario in cui si mescolano realtà e finzione), ma a ben vedere un passo avanti, perché in grado di cogliere l'essenza del problema: la verità della materia mostrata.
Siamo ormai così abituati a credere alle immagini che troppo spesso sospendiamo la nostra capacità di giudizio e ci abbandoniamo a loro; e al tempo stesso siamo ormai così abituati a farci ingannare dalle immagini che quando vediamo qualcosa di vero non ci crediamo più. Herzog gioca continuamente su questa aberrante dicotomia, suggerendo che ciò che vediamo non sia vero, ma di fatto consegnandoci un'opera struggente e mai così vera, il racconto di ciò che realmente è avvenuto, sulle montagne del Katmai National Park, a un uomo che cercava se stesso e ha trovato la morte quasi senza accorgersene.
Fabio Tasso, Drammaturgia.it, 21/11/2005
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