Critica (1): | non voglio più vedere il giorno”.
(canzone d’amore macedone)
[...] Nel suo intervento Noi, complici di Milosevic, Jean Baudrillard, parlando «di questa guerra velleitaria che fallisce quasi deliberatamente il suo bersaglio», da un lato consentendo a Milosevic di accelerare la repressione della minoranza albanese nel Kosovo, dall’altra ricompattando i serbi attorno a lui, avanza alcune ipotesi sostanzialmente condivisibili. La prima è che l’Europa sia al fondo connivente col processo di pulizia etnica del dittatore serbo, «a rischio di rifiutarlo come cattiva coscienza e di far finta di punirlo perché egli fa troppo bene (vale a dire troppo male, troppo brutalmente il suo sporco lavoro)[...] Perché Milosevic è l’esecutore della politica europea, la vera, la sola, quella di un’Europa bianca, pulita, depurata di tutte le minoranze, politica negativa, politica esclusiva e integralista. Ma, perché farsi delle illusioni?, l’Europa non ha alcuna idea positiva di se stessa, l’Europa è ossessionata dallo spettro dell’Europa – per tutte queste ragioni facciamo finta di combatterlo, ma sempre troppo tardi e male». La seconda riguarda l’America: «Dopo essere venuta a capo del comunismo[...] dopo aver neutralizzato l’altra potenza che la minacciava più da vicino, il Giappone[...] l’Europa è ormai nel suo mirino e il suo obiettivo è quello di dare scacco per un tempo più lungo possibile alle velleità della coesione multinazionale europea, che costituirebbe una reale minaccia. Il modo migliore di raggiungere questo obiettivo è quello di destabilizzare l’Unione Europea, prendendola nella trappola di una guerra che essa non vuole e che compromette le sue ultime possibilità, venendo eventualmente in soccorso delle minoranze (Bosnia, Kosovo, curdi, eccetera) con cui l’America personalmente non ha nulla a che fare, e di cui tutti vogliono nel loro intimo sbarazzarsi – essendo l’Islam e il fronte islamico, con ogni evidenza, il nemico mondiale numero uno[...] Quindi, si negozierà inevitabilmente con Milosevic, lo si lascerà sopravvivere (esattamente come Saddam Hussein), in parte per consolidare la pulizia etnica e in parte per intorbidare le acque dell’Europa». Ci limitiamo qui a citare l’opinione del sociologo francese [...] per offrire un esempio di quella complessità che la questione dell’ex Jugoslavia [...] continua a rappresentare, almeno per chi non si accontenta delle interessate banalizzazioni dei media.
Merito di Goran Paskaljevic, con i suoi film e le sue dichiarazioni, è di offrirci un punto di vista più autorevole proprio perché interno, oltre che proveniente da un intellettuale rigoroso, coerente oppositore del regime. Cominciamo con le seconde, che, nella loro indignata lucidità, svolgono una funzione in qualche modo propedeutica ed esplicativa rispetto ai primi. Il regista, innanzitutto, giudica negativamente l’embargo, «che, insieme a Milosevic, ha colpito anche la gente, creando una società in cui sopravvive il più forte. [...]». Così, «si sono formate due Serbie: da un lato la classe politica, che fa la bella vita, dall’altro il resto della popolazione, che vive in condizioni miserabili». Quanto ai raid aerei, Paskaljevic parla di clausole inaccettabili per i serbi negli incontri di Rambouillet, di bombe sganciate sulla democrazia, di un popolo in rivolta non contro il dittatore ma contro gli americani. Esprime poi forti dubbi sulla consistenza democratica dell’Uck, si chiede come mai i media occidentali siano prodighi di immagini sulla pulizia etnica nel Kosovo, ma abbiano taciuto su quella praticata dai croati nei confronti dei serbi. E, quasi ad esorcizzare le analisi di Baudrillard, afferma: «La Serbia appartiene all’Europa, sia geograficamente sia culturalmente. E la Serbia vuole far parte dell’Europa, non diventare un Irak dell’Occidente». Entrando poi nello specifico del film, conclude: «Si dice che i Balcani sono la polveriera dell’Europa, ma oggi, in Serbia, è ogni singola persona ad essere una polveriera». Se dunque già Il tempo dei miracoli (1990) e Tango argentino (1992) con il loro impianto metaforico offrivano un’idea, rispettivamente storica e familiare, della disgregazione a venire, con questa sua ultima opera il regista entra più direttamente in medias res. Rimanendo fedele a un’idea di cinema tutto sommato proteso alla registrazione dei moti dell’animo, tende a far implodere la sua apocalisse. [...].
La polveriera è incorniciato da un numero di cabaret (il nome del locale [...] è quasi obbligato: “Balkan”). Si tratta di un procedimento non nuovo, che si giustifica certo con l’origine teatrale della sceneggiatura [...], ma che qui assume una coloritura precisa. Il volto pesantemente truccato di Boris, i fasci di luce radenti, il linguaggio sentenzioso e provocatorio e la recitazione sopra le righe di Nikola Ristanovski rimandano ad esperienze di tipo espressionista, e alle loro innumerevoli letture successive. Tra queste, Paskaljevic dice di essersi ispirato in particolare a Cabaret di Bob Fosse, perché l’atmosfera che si respira oggi a Belgrado è quella di un paese in rapida evoluzione verso forme di fascismo o di nazionalcomunismo, quindi assimilabile alla Germania di Weimar. La cornice ha anche un’altra funzione, quella di creare un certo distacco ironico, per rendere meno insopportabile la tensione delle vicende che si dipanano sullo schermo. Come ha dichiarato ancora il regista, «nelle situazioni disperate, il riso è l’ultima difesa».[...] Non ci pare comunque che di veri e propri “alleggerimenti” si possa parlare: il sense of humour vira a forme di sarcasmo cupo, La polveriera resta uno dei film più angosciosi e disperati che ci sia dato di ricordare.
Ogni individuo, dunque, a Belgrado, è una carica pronta ad esplodere ad ogni minima scintilla: un banalissimo incidente stradale, le reciproche confessioni di tradimenti incrociati, il dirottamento “simbolico” di un autobus (com’è lontana la leggerezza buñueliana dell’illusione che viaggia in tram!), il furto di qualche litro di benzina. Le ideologie si sono pervertite in sozze caricature, il sadismo è merce corrente, la biblica legge del taglione ha sostituito quella dei codici. In questa giungla buia e senza speranza, sono pochi i personaggi a conservare un barlume di umanità: Mané, l’esule di ritorno, forse un alter ego del regista, condannato a morte dal suo stesso sentimentalismo slavo, oltre che dallo spiazzamento in cui lo ha relegato la lontananza; il giovane che, sequestrando il mezzo pubblico, cerca di “svegliare” istericamente i pochi passeggeri, variamente rappresentativi di un “popolo” narcotizzato dal fatalismo; lo stesso autista, un professore serbo-bosniaco (tipo di profugo su cui i nostri media ci hanno dato scarse informazioni e versato poche lacrime) che rifiuta il proprio ruolo sociale per fierezza e moralità, salvo poi farsi coinvolgere dall’aura malefica, lasciandosi andare ad un gesto di allucinata insensatezza [...]. In questo tourbillon sordido, su cui la radio incombe martellante, presenza defilata ma avvertibile di una istituzione in lucido delirio, ciascuno è condannato di volta in volta al ruolo di carnefice e a quello di vittima, ma Paskaljevic si guarda bene dall’esprimere giudizi di tipo orale, siano essi di condanna o assolutori. [...] Il regista sembra limitarsi ad un’attonita contemplazione del baratro, ma il tipo di coinvolgimento va ben oltre il punto di equilibrio. La polveriera è infatti un viaggio al termine della notte in cui Paskaljevic si chiama a correo della patologia di un popolo e della sua cultura. Per noi, che pure viviamo in una quotidianità di altre tensioni e devastazioni, questo paesaggio prima e dopo la battaglia funziona come cartina di tornasole di una falsa coscienza che gli eventi rendono ogni giorno più insostenibile.
La struttura del film [...] autorizza di primo acchito un parallelo con l’Altman di America oggi, analogia che riguarda anche una generalizzata mancanza di senso nei comportamenti. Ma è lo stesso Paskaljevic a sottolineare le differenze: «Volevo parlare del modo in cui i piccoli destini di ciascuno si incrociano. Il mio destino influenza il vostro, e così di seguito. E nessuno può sfuggire a questa spirale di violenza. Questa costruzione è molto desueta. In America oggi di Altman, i destini sono paralleli e non sono davvero riuniti che alla fine, dal terremoto».
In questo film notturno, è la linea divisoria sull’asfalto, illuminata dai fari del taxi e ritmata dalla colonna sonora del solito, impeccabile Zoran Simjanovic, a fungere da elemento di stacco e continuità, [...] Seguendone le scansioni, il racconto cresce di temperatura, con un giro di vite che ben presto lo survolta nel parossismo. Talvolta, però, si apre a intrusioni in cui lo humour nero trascorre in ironia garbata, quasi tenera. È il caso della magnifica sequenza in cui Mané, per convincere la ex fidanzata a tornare con lui, noleggia un’intera orchestra che, ad un suo gesto commovente per sproporzione epica, compare quasi per incanto dal buio del lago intonando una struggente melodia sotto la direzione di un Ljuba Tadic umiliato e offeso al quale è concessa solo una battuta di dialogo, a testimoniare dell’afasia, quando non della derisione alla quale è costretto l’intellettuale nella Serbia di oggi [...]. Oppure, il tempo si sospende, come nel crudele e tesissimo momento del suicidio del boxeur che trascina con sé nella morte la giovane vedova facendo esplodere la bomba a mano lasciatale come ricordo dal marito caduto in guerra. Altrove, viceversa, i toni vengono forzati fino all’insopportabile, come nella (troppo) lunga sequenza dello stupro e della tortura della giovane, mentre il fidanzato è costretto a cantare la canzone macedone i cui due versi più significativi riportiamo in exergo.
Film di salutare sgradevolezza per le nostre coscienze narcotizzate, tour de force di inusuale coerenza linguistica, oltre che esibizione di un cast che non esitiamo a definire strepitoso [...], La polveriera non è tuttavia, a nostro avviso, esente da difetti. Il parossismo, ancorché giustificato dall’orrore degli eventi, prende talvolta la mano a Paskaljevic, forzandolo a simbologie un po’ troppo sottolineate, quando non a scorciatoie esplicative [...]. Forse, però, non era possibile evitare queste impasse in un’opera così “difficile” da realizzare, per l’argomento, le circostanze in cui è stato affrontato e la preoccupazione di evitare nel pubblico serbo reazioni di tipo viscerale. Anche Underground, che costituisce un termine di paragone attendibile pur nella sua più esibita ambizione storico-metaforica, soffre di squilibri analoghi nella sua meravigliosa impurità. È un argomento di cui dovrà tenere conto chiunque vorrà collocare questo film ammirevolmente “giusto” nell’ambito di uno dei percorsi d’autore più rigorosi e “morali” di questa fine di millennio.
Paolo Vecchi, Cineforum n. 384, maggio 1999 |