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Omicidio al Cairo - Nile Hilton Incident (The)


Regia:Saleh Tarik

Cast e credits:
Sceneggiatura: Tarik Saleh; fotografia: Pierre Aïm; musiche: Krister Linder; montaggio: Theis Schmidt; scenografia: Roger Rosenberg; costumi: Louize Nissen; effetti: Peter Hjorth, Ghost VFX; interpreti: Fares Fares (Noredin), Mari Malek (Salwa), Yaser Aly Maher (Generale della polizia Kamal Mostafa), Slimane Dazi (uomo dagli occhi verdi), Ahmed Seleem (Hatem Shafiq), Mohamed Yousry (Momo), Hania Amar (Gina); produzione: Kristina Åberg per Atmo; distribuzione: Movies Inspired; origine: Svezia-Danimarca-Germania, 2017; durata: 107’.

Trama:Egitto, 2011. Alcune settimane prima della Rivoluzione. Una donna testimone di un omicidio in un hotel di lusso e Noredin, un poliziotto mediocre e corrotto a cui viene assegnato il caso. Presto diventa chiaro che le persone importanti della città non vogliono che si faccia luce sull'omicidio. Si innesca così un gioco sanguinario nel tentativo di insabbiare le prove. Ma, quando Noredin sceglie di spezzare le regole per ottenere giustizia, entra in conflitto non solo con il sistema, ma anche con se stesso.

Critica (1):15 gennaio 2011, Cairo, dieci giorni prima che la protesta in piazza Tahrir rinvigorisca la primavera araba iniziata in Tunisia. Noredin è un capitano di polizia corrotto. Nel suo distretto si respira un’aria di sopraffazione organizzata simile a quella tra i colleghi dello Yorkshire della trilogia di Red Riding. Lui poi è in una botte di ferro perché il caposbirro è suo zio. Ma l’imponderabile accade. In una camera dell’Hilton Hotel viene trovata sgozzata una cantante, amante di un imprenditore importante nonché parlamentare di Mubarak. Una cameriera sudanese vede tutto e Noredin, per una volta, complice anche l’entrata a gamba tesa nella storia di un’altra fanciulla, non si fa corrompere. Il resto è un noir se volete anche tradizionale, benché lo spunto sia ispirato al vero delitto della popstar Suzanne Tamim. A contare sono soprattutto il contesto, il sottofondo politico, la vibrante e inquietante relazione con la situazione attuale, l’intensità di una narrazione “di genere” che attinge a certi codici del polar (l’attore che fa il killer, Slimane Dazi, algerino di Nanterre, viene da lì) ed è solo un bene, naturalmente. Scritto e diretto dal regista svedese di origine egiziana Tarik Saleh, interpretato dall’ottimo Fares Fares, svedese pure lui ma nato in Libano, Omicidio al Cairo rende per noi italiani inevitabile il doloroso richiamo a Giulio Regeni, illustrando le atroci pratiche di polizia e servizi. Ma soprattutto, racconta una realtà quasi distopica per la sua inaccettabile violenza, e invece autentica e contemporanea, dove la “colpa” di tipo kafkiano diventa il più subdolo strumento di controllo sociale.
Mauro Gervasini, filmtv.it, 8/2018

Critica (2):Stabilite le opportune proporzioni, c'è qualcosa che ricorda l'impatto della Storia nel cinema di Pablo Larraín in questo Omicidio al Cairo, terza fatica di Tarik Saleh, svedese di origini egiziane e collaboratore, nel recente passato, del documentarista Erik Gandini. Una Storia che permea la vicenda con il suo clima disfatto e opprimente e diventa punto di approdo, laddove, invece, il contesto di Larraín corre spesso in parallelo rispetto alle traiettorie dei personaggi. Saleh ambienta la sua storia operando una sorta di conto alla rovescia narrativo della durata di dieci giorni che culmina il 25 gennaio 2011, all'inizio della cosiddetta Primavera araba per le strade del Cairo. Il caso raccontato, ispirato a un vero fatto di cronaca precedente la rivoluzione, che vide protagonista un uomo d'affari accusato di essere il mandante dell'omicidio della sua amante, celebre cantante, nelle mani di Saleh diventa un thriller allegorico sugli abusi del potere e sulla corruzione endemica degli apparati dello Stato, che intascano mazzette come regola e insabbiano casi ritenuti sconvenienti. Nel marasma di una città in cui le forze di polizia si preoccupano più di mantenere gli equilibri precari in via di disgregazione che di difendere l'ordine, si staglia sensibilmente dall'insieme la figura sofferta di un investigatore (interpretato da Fares Fares), che ricorda un po' Solfrizzi, un po' Chiellini, ma che discende direttamente dagli antieroi dolenti e silenziosi di Jean-Pierre Melville. Non è diverso dagli altri, anche lui è coinvolto nel clima generalizzato di concussione, però prende a cuore il caso, ed è probabilmente – questo arbitrario ribaltamento di aspirazioni, lo scrollarsi di dosso improvvisamente il consueto torpore – l'occasione più debole del film. È tuttavia un personaggio coerente con gli altri protagonisti del cinema di Saleh (ed è anche più compiuto degli altri), e la sua decisione di affrontare un intero sistema avverso ha qualcosa dell'hamartia classica, che in questo caso assume i contorni dell'errore sociale e politico, più che dell'indole da loser del noir.
Su un plot piuttosto consueto – che si traveste da mystery solo fino a quando si comprende che lo sguardo scambiato dall'uomo d'affari con il killer nella hall dell'hotel non è casuale ma un voluto gesto d'intesa – Saleh cura i singoli dettagli per fornire l'atmosfera satura che è l'autentico valore aggiunto della storia narrata. Lo squallore degli interni e, di contro, lo sfarzo dei luoghi esclusivi, l'acidità di un'illuminazione notturna sempre claustrofobica, l'insistenza sugli obiettivi di riscatto sociale che solo i proventi della corruzione possono garantire, l'anarchia dei dipartimenti di polizia, lo sguardo del protagonista perennemente piegato dall'umiltà di fronte ai maggiorenti della nazione, pur nel coraggio di affrontarne le reazioni, sono l'emblema di una cura dei particolari che è valsa a Saleh il Gran Premio della Giuria al Sundance dello scorso anno. Ed è su questa densa caratterizzazione che il thriller si trasforma in discorso politico, illustrando criticamente l'Egitto disassato del regime di Mubarak e alludendo a un futuro altrettanto fosco, nonostante l'illusione dei giorni di gennaio. La televisione con problemi di sintonia che una volta sostituita trasmette solo canali europei (i tafferugli della Primavera araba sono visti dal detective sul TG3) ha i presupposti della commedia di costume eppure è un preciso riferimento a una nazione ormai inadatta ad accordarsi alle frequenze prestabilite e i cui drammatici sviluppi sono osservati attentamente dall'esterno. L'enorme manifesto su cui campeggiano l'immagine pubblica dell'uomo d'affari sospettato dell'omicidio e il motto dell'azienda di costruzioni che gestisce («Stiamo costruendo il futuro del Cairo») è sì un'esca narrativa in funzione dell'indagine, ma anche – e soprattutto – un monito rispetto alla nuova nazione che si sta edificando. Così come il finale, amarissimo, che allude drammaticamente a un successivo trasformismo già incipiente, in cui il potere si limiterà ad avvicendare se stesso modellando le sue vecchie prerogative.
La forza di Omicidio al Cairo, che è un titolo agathachristiano scialbo, perché ignora la natura dell'evento occasionale volto a palesare il verminaio soggiacente evocato invece nell'originale, è in questo gioco di riflessi e rimandi a un insieme più vasto della crime story messa in scena. Un senso che si metaforizza lungo i suoi snodi decisivi, s'intrappola all'interno degli specchi segreti utilizzati per il ricatto, si rivela attraverso la loro distruzione, illude su una possibile soluzione ma si blocca nella frustrazione dell'impari lotta con la protervia di uno Stato disposto a mutare forma per preservare i propri privilegi.
Giampiero Frasca, cineforum.it, 21/2/2018

Critica (3):

Critica (4):
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