Taxi Driver - Taxi Driver
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Regia: | Scorsese Martin |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Michael Chapman; musica: Bernard Hermann; montaggio: Tom Rolf, Melvin Shapiro, suono: Frank E. Waener; interpreti: Robert De Niro (Travis Bickle), Cybill Shepherd (Betsy), Peter Boyle ("Mago"), Jodie Foster (Iris Steensma), Harvey Keitel (Matthew "Sport"), Leonard Harris (Senatore Charles Palantine), Albert Brooks (Tom), Martin Scorsese (passeggero); produttori: Michael e Julia Phillips; produzione: Bill Phillips; origine: USA, 1976; durata: 113’. |
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Trama: | Travis, reduce del Vietnam, soffrendo di insonnia, si fa assumere come taxista per i turni di notte. Il contatto quotidiano con il peggio di New York porteranno Travis - già fortemente segnato dall'esperienza bellica - a ripiegare sulla violenza: armato fino ai denti organizza una spedizione punitiva in un sordido bordello, dopodiché ritorna a coltivare la sua solitudine. |
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Critica (1): | Dopo l’escursione nel Sud Ovest con Alice non abita più qui, Martin Scorsese recupera con Taxi Driver gli ambienti familiari della sua New York. Il ritorno sull’East Coast avviene attraverso la mediazione di una sceneggiatura non sua e, più significativamente, attraverso il filtro di una narrazione compatta. Il tassista Travis è solo un lontano parente di Charlie e Johnny Boy, gli psicopatici protagonisti di Mean Streets. In lui le annotazioni psicologiche sono o rarefatte o assenti. Charlie e Johnny Boy si definivano in rapporto a un gruppo etnico, tanto più coerente in quanto minoritario; vivevano le frustrazioni e le speranze di una comunità. Travis, invece, non ha radici né passato: viene da una città non identificata, ha dietro di sé il passato errabondo del marine, lavora di notte e di giorno non dorme. “Presi in una rete di tabù e di obblighi, Charlie e Johnny Boy avevano un’eredità sulle spalle: se andavano incontro alla morte, era per aver infranto il codice tribale e voluto forzare le barriere del ghetto. Travis, invece, sconta la colpa di non essersi integrato da nessuna parte”.
Scorsese non si limita più a calare le proprie intuizioni in un contesto realistico, ma confronta il suo tassista con avvenimenti che hanno o vorrebbero avere uno spazio e un tempo loro propri. Questo impegno libera il film dal lirismo e dall’aneddoto, dall’autobiografia e dalle suggestioni, dalle metafore e dalle folgorazioni variamente presenti in Mean Streets. Il rispetto di una tessitura esterna esige uno sforzo di concentrazione, una verifica alla luce di dati esterni. L’Empire State Building, contro cui Johnny Boy indirizza il suo revolver è sempre e solo l’oggetto imperioso e misterioso dell’immaginario; i grattacieli di Taxi Driver sono invece simbolo di un ordine altro: sfide di cemento o lame d’acciaio. La Little Italy di Johnny Boy è lo spazio mentale dei deliri del protagonista; la New York di Travis vuole essere anche presenza autonoma.
Taxi Driver non resta costantemente fedele a quest’impegno. La contraddizione irrisolta tra la vocazione documentario-narrativa e la soggettività del protagonista cui in definitiva è ricondotto ogni giudizio è l’indice involontario, e in quanto tale autentico, del malessere sociale registrato con la macchina da presa. Lo spettatore è chiamato a surrogare il regista. Scorsese ci fornisce di New York un quadro espressionista, con forti vibrazioni di colore, nel quale ognuno, per appropriarsene, deve rintracciare i tratti fondamentali del disegno, selezionare le tinte, filtrare i suoni. Taxi Driver non ha la pretesa di esaustività di Nashville, né offre la metafora rigorosa di Zabriskie Point, ma resta fedele all’impegno di andare a fondo, impietosamente, nella propria ricognizione. Scorsese non ha paura di aggregare materiali all’apparenza eterogenei. Le escursioni notturne di Travis tra i marciapiedi e i soffioni infetti della città sono una discesa agli inferi del vizio e della droga, orchestrata in scene potentissime e eccezionali. Si pensa a Raskolnikov o agli anti-eroi di Wahrol, a M. o alle fogne di Parigi. L’auto gialla, colta immobile attraverso alcuni suoi elementi (il parafango, lo specchietto laterale ecc.), mentre il nodo stradale si staglia sullo sfondo, ha la fisicità di un allucinante totem di un nuovo potere; comunica, nel suo anonimato, la paura metafisica dell’irrazionale. Scorsese accumula sensazioni e subito dopo le sottopone a verifica. La casa di Iris, nella scena del massacro, dapprima viene percorsa dalla macchina da presa attraverso brevi e convulsi piani dalle più estemporanee angolature; subito dopo, compiuta la strage, da piani sequenza che mostrano lo stesso itinerario in senso inverso, scandendo con ieratica lentezza, quasi a ripercorrere a ritroso le tappe di una tragedia consumata troppo in fretta.
La regia ama le citazioni e i contrasti. Le mani di Travis, inquadrate dall’alto contro la scrivania di Betsy, squarciano lo spazio come quelle del Pickpocket bressoniano. L’obiettivo talvolta inquadra, attraverso un gioco di occhi e di specchi, una miriade di piani, talvolta provocatoriamente si sofferma su uno (l’Alka Selzer, le pistole sulla valigia) dandogli la fisicità di un quadro iperrealista. Anche la grammatica viene abbandonata: la macchina da presa coglie immobile, da una stessa angolatura, con soluzione di continuità, Travis che percorre a piedi la propria strada. Il materiale di repertorio degli anni Quaranta è consumato senza parsimonia. Per dare l’impressione di una compattezza indissolubile, Scorsese usa e abusa di dissolvenze incrociate, sonore e visive. Anche la musica di Bernard Hermann, musica enfatica e dissonante, con strumenti a percussione e arpeggi, classica di un thrilling più che esprimere la confusione psicologica del protagonista o offrire il presentimento di una catastrofe imminente, disorienta lo spettatore. Last but not least, la commistione dei generi: Taxi Driver dapprima si propone come reperto sociologico, dopo commedia, poi dramma sociale, quindi tragedia, infine apologo sarcastico. Tutti questi elementi eterogenei segnano veramente, nel loro naturale e compatto fluire, il trionfo della regia, dello stile, del virtuosismo tecnico. Rileva giustamente Jack Kroll, tra i meno rozzi apologeti americani di Taxi Driver: “…l’autentica poesia del film è nella sua ricca tessitura. Scorsese e il direttore della fotografia Michael Chapman creano una paurosa e fatiscente New York che è come un incubo che Travis non può allontanare da sé”.
Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 160, dicembre 1976 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Martin Scorsese |
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