Cuccagna (La)
| | | | | | |
Regia: | Salce Luciano |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Luciano Vincenzoni, Alberto Bevilacqua; sceneggiatura: Luciano Salce, Luciano Vincenzoni, Carlo Romano, Goffredo Parise; fotografia: Erico Menczer; musiche:Ennio Morricone - le canzoni "Quello che conta" (Morricone-Salce), "La ballata dell'eroe" (Petracchi-Fabrizio) e "Tra la gente" (Morricone-Pilantra) sono cantate da Luigi Tenco; montaggio: Roberto Cinquini; scenografia: Nedo Azzimi; arredamento: Nedo Azzimi; costumi: Danilo Donati; interpreti: Donatella Turri (Rossella), Luigi Tenco (Giuliano), Umberto D'Orsi (Visonà), Anna Baj (signora tedesca), Luciano Salce (colonnello ai tiri), Ugo Tognazzi, Piero Germini, Emilio Barella, Liù Bosisio, Fernando Cerulli, Elvira Cortese, Gianni Dei, Consalvo Dell'Arti, Tony Di Mitri, Vera Drudi, Loretta Gagliardini, Cesare Gelli, Ivy Holzer, Aristide Spelta, Giuseppe Ravenna, Elisa Pozzi, Enzo Petito, Corrado Olmi, Giulio Nella, Franco Morici, Renato Montalbano, Maria Marchi, Jean Rougeul, Salvo Libassi; produzione: C.I.R.A.C., Giorgio Agliani; origine: Italia, 1962; durata: 95’. Vietato 14 |
|
Trama: | Rossella sta cercando un lavoro per evadere e rendersi indipendente dalla famiglia, dove un padre ottuso e brontolone, una madre inetta, una sorella piagnucolosa, con un marito ridicolo nella sua intransigenza, e un fratello avviato alla diversità, danno un tetro squallore alla sua vita. Trova un misero impiego come dattilografa in una copisteria, ma lo lascia presto per fare da segretaria a un arruffone che, presentatosi come un industriale dai mille progetti, finisce in carcere per aver tentato di corrompere un funzionario del ministero. Continuando le sue ricerche di lavoro, accetta l'offerta di un agente pubblicitario, che tra l'altro, vuole approfittare di lei, ma il suo ufficio viene chiuso. Allora si rivolge a un'agenzia fotografica dove un'ambigua signora sorprende la sua buona fede facendola posare per foto pornografiche; infine prova a fare la segretaria di un avvocato lunatico e opprimente. Nelle sue peregrinazioni ha avuto modo di conoscere Giuliano, uno strano tipo di giovane musone e arrabbiato, e, delusa, decide di suicidarsi con lui. Ma questa soluzione viene abbandonata non appena i due si accorgono di amarsi. |
|
Critica (1): | Che bei tempi erano i primi anni Sessanta.
Poteva succedere perfino che un regista estroso e intelligente, anche se non geniale, se ne infischiasse del Technicolor e girasse il suo bravo film in bianco e nero; che snobbasse il solito circo degli attori di grido o, magari, delle star internazionali imposte dalla produzione, per ingaggiare invece dei perfetti sconosciuti o dei giovani cantanti di talento, privi tuttavia di esperienza cinematografica; che si mettesse a fare un buon film con pochi soldi ma con molte idee, solido mestiere e una invidiabile freschezza.
Cosa ancor più straordinaria, poteva succedere che perfino la critica più esigente fosse costretta a fare i conti con questi film anomali, che poi non erano affatto delle rarità; e che il pubblico decretasse un buon successo a quel coraggioso regista che aveva lavorato senza budget miliardari, senza cast affollatissimi, senza effetti speciali e, addirittura, senza il colore: segno che il buon gusto era ancora una merce diffusa nelle sale nostrane.
Ma accadeva pure che si prendesse, questo regista, i tecnici più bravi, i migliori direttori della fotografia, i musicisti più originali per la colonna sonora: gente che lavorava anche per il guadagno, certo, ma non solo per quello; che aveva una grande, una grandissima passione e una voglia straripante di creare qualche cosa di bello, se non di nuovo.
E voilà, il gioco è fatto.
È così che Luciano Salce, romano, classe 1922 (scomparso nel 1989), che tutti ricordano non solo come regista, ma anche come attore brioso, ironico ed estremamente efficace, ha girato nel 1962 il film La cuccagna, graffiante (ma anche un po' dolente) ritratto in controluce dell'Italia del boom economico, degli imprenditori improvvisati, dei loschi finanzieri, dei capitalisti falliti, degli arrivisti senza scrupoli e di tutti i cialtroni, grandi e piccoli, che cercano di arrampicarsi su per la scala sociale, sfruttando il vento in poppa di una congiuntura favorevole.
Il punto di vista di questa "storia semplice", quasi minimalista, sullo sfondo della rampante corsa al benessere e allo stile "americano", è quello di una giovane ragazza della capitale, Rossella (l'esordiente Donatella Turri), che non ne può più della sua famiglia e che vorrebbe trovarsi un lavoro, per raggiungere l'agognata indipendenza economica.
In tasca ha solo un diploma di stenodattilografa, ma è decisa a trovare un impiego qualsiasi, perché non riesce più a sopportare un padre brontolone e di vedute ristrette, una madre insignificante, una sorella che piange sempre, un cognato missino che ostenta una fermezza ridicola e, per finire – ma è l'unica presenza con cui va un po' d'accordo – un fratello che oggi si direbbe gay, mentre allora si chiamava finocchio ed era la pietra dello scandalo.
In tanto squallore non c'è un solo raggio di calore umano, un solo rapporto interpersonale che sia soddisfacente; nessun amico o fidanzato con i quali sfogarsi: in breve, sembra che tutto il cinismo e tutta l'indifferenza di una piccola borghesia egoista e mediocre siano concentrati sul capo della povera fanciulla, per avvelenarle la vita giorno dopo giorno e per soffocare ogni sua aspirazione alla libertà e alla giovinezza.
La ricerca del posto di lavoro si rivela ben presto una autentica Odissea, un lungo e defatigante peregrinare, nella calura estiva della grande città, da una situazione assurda e deprimente all'altra, da una delusione all'altra. Tutta una galleria di palloni gonfiati, di personaggi improbabili e caratteriali, di arrivisti senza morale e di satiri vogliosi di approfittare di lei, si snoda davanti allo spettatore in un clima fra il satirico e il grottesco, strappandogli un sorriso venato, spesso, di malinconia, se non addirittura di amarezza.
La prima tappa della tragicomica Odissea di Rossella è quella di dattilografa in una copisteria, impiego che lascia ben presto per diventare la segretaria di un equivoco imprenditore, il dottor Giuseppe Visonà (l'attore Umberto D'Orsi) che partorisce innumerevoli progetti, più o meno campati per aria, e alla fine si ritrova in manette, con l'accusa di tentata corruzione nei confronti di un impiegato del ministero, senza peraltro smarrire la sua vena d'inesauribile, debordante vitalità istrionesca.
A Donatella, che lo vede portar via e rimane lì in ufficio, come istupidita, non resta altro da fare che riprendere la sua affannosa ricerca di un lavoro, passando successivamente dal ruolo di segretaria d'un agente pubblicitario che vorrebbe portarsela a letto, ma il cui ufficio, a un certo punto, viene chiuso; poi a quello di involontaria modella per riviste pornografiche, a causa delle subdole manovre della losca proprietaria di un'agenzia fotografica, che gioca sulla sua ingenuità e buona fede, facendola spogliare davanti all'obiettivo; infine a quello di segretaria di uno stranissimo tipo di avvocato, sgradevole e lunatico.
A questa serie impressionante di disavventure, Rossella reagisce con stoica forza d'animo, anche per mancanza di alternative. Nei frettolosi ritorni a casa, trova sempre la famiglia imbambolata davanti al televisore, a guardare, in religioso silenzio, Carosello e i giochi a quiz di Mike Bongiorno (quanto poco è cambiata l'Italia, in tutti questi anni…) e più che mai lontana dalle sue aspirazioni, dai suoi problemi e dalle sue frustrazioni.
L'unica nota diversa e, per certi aspetti, gratificante di tutto quel vagabondare, è la conoscenza con Giuliano (Luigi Tenco), un giovanotto solitario e misantropo, arrabbiato con il mondo intero, il quale ostenta un cinismo che non gli appartiene perché, in fondo, è una persona semplice e di buon cuore, che nasconde il suo disagio esistenziale e la sua cronica timidezza dietro la maschera del ribelle a tutto campo.
Nei suoi confronti Rossella nutre un sentimento contraddittorio: è, al tempo stesso, attratta e spaventata da quel ragazzo che non è come tutti gli altri; che ama la vita, pur dicendo di odiarla; che si presenta con disarmante autenticità, invece di nascondersi dietro le mille maschere suggerite dalla furbizia e dall’arrivismo. Anche Giuliano è attratto da Rossella, ma preferirebbe farsi spellare vivo, piuttosto che abbandonarsi a una confessione d’amore, lui che afferma di non credere in niente e che professa un nichilismo tanto estremistico quanto forzato.
Giuliano, che suona la chitarra con passione, ha ricevuto da poco la cartolina-precetto e dovrebbe andare sotto le armi; ma non ne ha alcuna voglia, anche perché ciò contrasta con tutte le sue convinzioni più radicate. Perciò, dopo un lungo peregrinare, con Rossella, come in cerca di qualcosa che sfugge loro, non senza una punta d’invidia per i ricchi borghesi tanto detestati (come nell’episodio in cui sui fermano ad ammirare uno yacht di lusso e chiedono al marinaio di poter salire a bordo per osservarlo meglio), entrambi delusi, giungono alla risoluzione di porre in atto un doppio suicidio.
Le modalità da loro scelte per compiere il gesto estremo sono involontariamente comiche e stemperano la tensione drammatica della scena, che oscilla sapientemente fra il tragico e il satirico: si metteranno distesi in un campo, dietro il bersaglio di un poligono di tiro militare, e aspetteranno così di morire insieme.
Ed ecco giungere un impettito e grottesco generale – impersonato dallo stesso regista del film, Luciano Salce –, che si sente una specie di Napoleone e ordina ai suoi uomini di aprire il fuoco nel corso di una esercitazione. È una scena assai gustosa e decisamente umoristica (non comica: umoristica nel senso pirandelliano del termine, perché induce anche a riflettere), che pare quasi un intervallo pubblicitario nel contesto della vicenda, mentre il pubblico si consuma nell’ansia per la sorte dei due giovani nascosti dietro il bersaglio.
Ma quando le granate cominciano a fischiare, Rossella e Giuliano comprendono, di colpo, di non avere affatto voglia di morire, perché in quelli che credevano gli ultimi istanti della loro vita si erano resi conto di amarsi. Perciò, rialzatisi, fuggono mano nella mano, e riescono ad allontanarsi senza venire colpiti.
In pratica non c’è un finale consolatorio; o, se si preferisce, il finale è aperto, condito in salsa agrodolce.
I problemi dei due giovani restano tutti lì, in sospeso, ma intanto essi hanno scoperto il segreto che potrebbe metterli in grado di superare qualsiasi ostacolo: l’amore reciproco, che è una forza più grande, forse, del mondo ostile o indifferente che li circonda (…) La cuccagna è un film indubbiamente valido, anche se non è un capolavoro. Nella carriera di Salce regista, si colloca a mezza strada (e non solo cronologicamente) fra il memorabile La voglia matta, sempre del 1962, con Ugo Tognazzi e Catherine Spaak, e Le ore dell'amore, del 1963, con Ugo Tognazzi ed Emmanuelle Riva, formando una specie di trilogia sull'Italia del boom economico, sui suoi miti e sulle sue miserie nascoste (e non).
Alla sceneggiatura hanno collaborato Alberto Bevilacqua e Goffredo Parise; le bellissime musiche sono di Ennio Morricone, che già aveva collaborato con Salce al suo precedente Il federale(film-rivelazione di Ugo Tognazzi):
Le parole delle canzoni Fra tanta gente e Quello che conta sono dello stesso Luciano Salce, musicate da Morricone e interpretate, poi, per la Casa discografica Ricordi, che le incise nello stesso 1962.
La canzone di Fabrizio De André La ballata dell’eroe, eseguita da Tenco, accompagnandosi con la chitarra, in una delle scene più toccanti del film, fu quasi imposta al riluttante Salce dal giovane cantante-attore. Forse si deve al testo della canzone, apertamente anti-militarista, il fatto che la censura ministeriale decise di vietare la visione del film ai minori di quattordici anni (a meno che sia stato per la scena del mancato suicidio: ipotesi, l’una e l’altra, abbastanza deprimenti, tanto più che, nel film, non compaiono violenze o volgarità di sorta). (…)Anche i caratteristi che affollano la galleria di mostri, cialtroni e mandrilli, con i quali deve sbrigarsela la povera Donatella, sono tutti molto azzeccati e perfettamente in sintonia con la vena comico-grottesca della storia.
Una menzione particolare spetta all'attore Umberto D'Orsi nei panni, riuscitissimi, di un industrialotto veneto che cerca di farsi strada distribuendo bustarelle, ma deve concludere in carcere la sua velleitaria scalata al potere: una via di mezzo fra il simpatico ma stravagante signor Micawber del dickensiano David Copperfield e il solito palazzinaro d'assalto di cui son piene le cronache, anche di oggi. Con questa interpretazione, D'Orsi si è aperto la strada verso una carriera intensissima, fatta di decine di film più o meno di successo, nei quali ha imposto le sue buone qualità di caratterista.
Ma la vera rivelazione del film è il cantautore e jazzista Luigi Tenco, che interpreta la parte del ribelle introverso e anarcoide, ma dotato di un fondo di sano buon senso, con molta naturalezza, come se vi si trovasse perfettamente a suo agio.
Pare che fosse in predicato per interpretare il ruolo del protagonista, l'anno dopo, ne La ragazza di Bube di Luigi Comencini, tratta dall'omonimo romanzo di Carlo Cassola. Il provino era andato benissimo, ma poi la parte venne affidata a George Chakiris, accanto a Claudia Cardinale; e la carriera cinematografica di Tenco si fermò lì. (…)
Francesco Lamendola, ariannaeditrice.it |
|
Critica (2): | Senza contare quelli diretti in Brasile, Luciano Salce è al suo quarto film. Che idea ci siamo fatti di questo regista? Una intelligenza amara e ironica, un temperamento conversativo e socievole, un inquisitore della realtà nel quale il gusto dell'osservazione, di per sé spesso acuta, frantuma un po' la riflessione. Uno sperpero di fantasia è il difetto di La cuccagna, che per voler dire troppe cose sulla imprevedibilità della vita risulta una collana di macchiette, tutte assai ben disegnate ma forzate nel segno e nel colore. Teneva meglio, nella struttura narrativa, La voglia matta. Ma il film si vede volentieri.
Ne è protagonista Rossella, una graziosa ragazza del ceto impiegatizio romano, che annoiata di vivere in famiglia, in un mondo grigio e ottuso, animato soltanto dalle prepotenze del cognato missino, dal fratello effeminato e dalle stupidaggini della televisione, decide di cercarsi un lavoro. «Diciottenne offresi», doveva intitolarsi dapprima il film; ed era titolo più pertinente, perché La cuccagna rispecchia uno solo dei motivi toccati dal film. Nel quale Rossella comincia come dattilografa a venticinquemila lire al mese, prosegue come intervistatrice di inchieste di mercato con la speranza di ottantamila, passa in un'azienda pubblicitaria con la promessa di centomila, si prova come giovane di studio di un avvocatuccio che gliene offre 19.500, ripiega su fotografie «artistiche» a 2500 per prestazione, finisce, delusa e scoraggiata, cacciata di casa dopo una sosta in questura, alle soglie del suicidio insieme a Giuliano, un ragazzo «arrabbiato» che a suo modo le ha voluto bene, e col quale riprende gusto alla vita. Tutti lo considerano un matto: Rossella preferirà darsi a lui, che non le ha mai chiesto niente.
Il filo conduttore del film erano le peregrinazioni di una ragazza italiana che oggi voglia trovare lavoro, i pericoli e gli equivoci ai quali va incontro. Poi il filo si è arruffato in una matassa di casilimite; le difficoltà e le sorprese della vita si sono incarnate in personaggi grotteschi (il confusionario industriale del Nord, i commendatori galanti, la turpe mercantessa nazista, l'avvocato visionario) di estrazione surreale, nei quali Salce sbriglia la sua fantasia da cabaret più che sviluppare un discorso. La sua ambizione, di satireggiare il miracolo economico, il mito della ricchezza, si è persa per via, distratta dagli aspetti buffi della vita, dal suo gusto del descrivere. Lo stesso Giuliano, che doveva fare da contrappeso, è una caricatura. Accade così che il film difetti di approfondimento psicologico (il tentativo di mettere in contatto, in tram e in famiglia, Rossella con le pene degli altri è soltanto abbozzato), che la decisione finale di Rossella e Giuliano di lasciarsi uccidere, durante un'esercitazione militare, per protesta contro la società, tocchi davvero l'assurdo, di fronte al quale le battute di chiusura («Per noi di vero in questo momento non c'è altro che noi due», «Sono contenta che siamo ancora vivi») stridono come un trattato sull'esistenzialismo in una collana di libri umoristici.
Con queste riserve, che non si sarebbero avanzate se La voglia matta non avesse fatto presagire un regista di idee oltreché di costume, La cuccagna è un film godibile: allegro nel suo nero pessimismo sulla natura degli uomini, pungente verso uomini e fatti della cronaca contemporanea, svelto in molti sketches, anche ben girato con la macchina a mano, che coglie la vita nella sua autentica dimensione. E ben recitato da attori esordienti: Donatella Turri, giustamente poco espressiva come conviene a una ragazza qualunque; Luigi Tenco, un «cantautore» ribelle che vede ovunque sfruttatori; Umberto D'Orsi, che venendo dall'avanspettacolo è pieno di verve. In particine di contorno appaiono anche Tognazzi e lo stesso Salce, in una gustosa parodia dell'esercito.
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, Editori Laterza, 1980 |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|