Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! - Deuxième souffle (Le)
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Regia: | Melville Jean-Pierre |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo "Morire Due Volte" di José Giovanni; sceneggiatura: Jean-Pierre Melville; fotografia: Marcel Combes; musiche: Bernard Gérard; montaggio: Michèle Bohème; scenografia: Jean-Jacques Fabre; arredamento: Guy Maugin; costumi: Michel Tellin; interpreti: Lino Ventura (Gustave Menda, detto 'Gu'), Paul Meurisse (Ispettore Blot), Raymond Pellegrin (Paul Ricci),Christine Fabréga (Manouche), Marcel Bozzuffi (Jo Ricci), Paul Frankeur (Ispettore Fardiano), Denis Manuel (Antoine), Jean Négroni (poliziotto), Michel Constantin (Alban), Pierre Zimmer (Orloff), Pierre Grasset (Pascal Legnetti), Raymond Loyer (il notaio), Albert Dagnant (Jeannot Franchi), Jack Léonard, Nina Michelsen, Roger Perrinoz, Régis Outin, Albert Michel, Betty Anglade, Roger Fradet, Jean De Beaumont, Marcel Bernier, Jean-Claude Bercq, Pierre Gualdi; produzione: Charles Lumbroso e Andrea Labay per Les Productions Montaigne; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Francia, 1966; durata: 150’. Vietato 14 |
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Trama: | Mentre Gustave Minda, detto Gu, evade dalla prigione il fidanzato di sua sorella Manouche viene ucciso per una resa dei conti. Gu raggiunge Manouche proprio mentre lei è fatta oggetto d' una visita ricattatoria da parte di due uomini di Jo Ricci. Gu uccide i due uomini con una tecnica che per il commissario Blot è più che una firma ed è quindi obbligato a nascondersi e a pensare alla fuga oltre frontiera. Gu si reca a Marsiglia ed accetta di collaborare con Paul Ricci nell'assalto ad un furgone carico di un ingente bottino. Il colpo riesce ma Gu cade nelle mani della polizia marsigliese che si mette sulla pista degli altri partecipanti alla rapina. A questo punto Jo vuole vendicare il tradimento. |
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Critica (1): | La storia inizia in una fredda giornata di fine novembre. Tre detenuti tentano la fuga. Due ci riescono, uno cade e muore nel silenzio più assoluto. Un treno merci raggiunto con una corsa disperata li porta lontano dalla caccia all'uomo. La coppia si divide e non sapremo mai cosa accade all'altro evaso. Ma d'altronde la storia non è sua ma tutta di Gustave "Gu" Minda, interpretato da un gigantesco Lino Ventura. Gu torna a Parigi per ricongiungersi con Manouche (un'algida ma sensuale Christine Fabréga), la sua donna prima della galera. Arriva nel bel mezzo di una guerra tra malavitosi parigini e marsigliesi ed è costretto a tornare a usare la pistola per salvare Manouche, appena divenuta vedova di Jacques "il notaio". Minda si rifugia a Marsiglia in attesa di espatriare, ma un vecchio amico gli propone una rapina a un furgone portavalori, e il bottino è uno di quelli che capitano raramente nella carriera di un professionista del ramo. Altri morti, il colpo riesce alla perfezione, ma il resto della storia è solo un'inesorabile caduta agli inferi di buona parte dei protagonisti come nella migliore tradizione del noir.
Uscito nelle sale italiane con il peggior titolo possibile: Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide!, Le deuxiéme souffle è considerato anche dagli scrittori di poliziesco e noir un vero capolavoro del genere. Non solo per la straordinaria regia di Jean-Pierre Melville, ma soprattutto per la qualità della storia scritta da José Giovanni. La critica italiana ha spesso omesso l'importanza di questo elemento nella realizzazione del film. E si tratta di un grave errore, perché non si può scrivere di quest'opera tralasciando la fortissima connotazione di realismo e verità. Il romanzo, di cui Melville comprenderà le potenzialità filmiche alla prima lettura, esce nel 1958, due anni dopo la concessione della grazia al suo autore, quello stesso José Giovanni che curerà la sceneggiatura insieme al regista e diventerà romanziere, sceneggiatore e regista di successo del polar francese, divenendone l'innovatore per eccellenza. Giovanni è al suo secondo libro, il primo, Le trou, un classico diario penitenziario, gli è servito a convincere il presidente della Repubblica a evitargli vent'anni di lavori forzati. Il condannato aveva già sfiorato la ghigliottina, pena comminata nel primo processo per una rapina andata male, con tanto di conflitto a fuoco, dove avevano trovato la morte il fratello e lo zio. Il José Giovanni della prima delle sue vite è un giovanotto cresciuto troppo in fretta nell'ultimo anno di occupazione tedesca, a cui piacciono le armi e l'azione. La vicenda che lo porta in galera nasce e si sviluppa in un ambiente molto simile a quello di Le deuxième souffle. José Giovanni è di un verismo impressionante quando nel romanzo e nella sceneggiatura descrive i rapporti tra i malavitosi, le sparatorie, il modo di vivere e morire di professionisti del crimine. Non solo, il verismo giovanniano arriva a raccontare il mondo degli sbirri come nessuno aveva mai fatto. Infatti il vero protagonista è il commissario Blot (un disinvolto Paul Meurisse), volto moderno di una polizia che deve mutare profondamente il proprio agire, alle soglie di un '68 che sta per travolgere la Francia e poi il mondo. Blot è raffinato nei modi e nell'eloquio, culturalmente in grado di "capire" il sociale, ma è anche crudele e implacabile nel suo essere "Stato". Il suo intento è davvero sorve-
gliare e punire, e la sua discrezione è assoluta. A Manouche, che gli chiede se Gu ha detto qualcosa prima di morire, risponde un no netto, mentre il bandito in realtà era spirato mormorando il suo nome. Blot punisce la donna del gangster, e un attimo prima ha fatto cadere un taccuino tra i piedi di un giornalista per mettere in cattiva luce un collega, ucciso da Gu, colpevole di essere rimasto ai vecchi metodi della polizia.
Blot è la modernità che avanza in un mondo impermeabile alle novità come quello del gangsterismo e destinato infatti a una prematura scomparsa, fagocitato da una nuova criminalità, indubbiamente meno affascinante, anche dal punto di vista cinematografico. L'intuizione di Melville di ritrovarsi tra le mani un capolavoro del verismo criminale è immediata, e tutto il suo lavoro sarà quello di rendere visibile una materia tanto controversa per la morale dell'epoca (infatti il film si apre con una scritta in sovraimpressione che "distingue" tra regista e personaggio). Molto spesso la non conoscenza del passato di Giovanni ha portato la critica a interpretare la regia di Melville come un abile saccheggio delle cose migliori dei film di genere americani, riproposte in salsa francese. Nulla di più sbagliato. La distanza, in realtà, è enorme. Tutto è assolutamente francese, come il pâté che un Gu solitario e braccato mangia la notte di capodanno prima che la sveglia gli ricordi l'arrivo dell'anno nuovo, che lui festeggerà strappando una pagina dal calendario. Esattamente come aveva fatto in prigione negli anni precedenti, giusto per ricordare che per certi uomini il destino è ineluttabile. Melville aveva un materiale molto ricco in cui affondare le mani, eppure per il film sceglie alcuni temi e linee guide. Una delle più affascinanti è quella, apparentemente secondaria, della donna del gangster, una vedova bianca che cerca di salvare la vita al proprio amato, ma non si permetterebbe mai di metterne in discussione la scelta scellerata di andare incontro alla morte per difendere il proprio onore di malavitoso. Manouche ha il destino segnato come tutte le donne di quell'ambiente, circondate da uomini violenti e prive di amicizie femminili. Melville non smette mai di raccontarci quell'universo femminile attraverso le ballerine di night che mostrano le proprie grazie esibendo un sorriso falso e freddo, in un paio di scene anche magicamente riflesse nello specchio del bar. Il regista ha rispettato la scelta di Giovanni di sacrificare la simpatia dei personaggi per rispettarne la realtà. Nessuno, tantomeno Gu, rimane nei nostri cuori; anzi, come spettatori vogliamo mantenere una distanza dai loro crimini efferati, ma è la storia nel suo complesso a esercitare un fascino irresistibile. Uno degli aspetti più controversi del film è la voluta assenza di spiegazioni di alcuni nodi di trama. Il regista ha scelto di sviluppare una storia lineare senza preoccuparsi di spiegare perché Cu è amico di Alban (un laconico Michel Constantin) e cosa condivida del passato con Paul Ricci (Raymond Pellegrin). Non una sola parola è sprecata per raccontare l'amore tra Gu e Manouche, e lui non pare turbato che lei spartisse il letto con Jacques il notaio. Alcuni critici hanno sottolineato negativamente queste assenze, che nel cinema americano di genere sono sempre accuratamente spiegate, senza cogliere l'aspetto di maggior verismo del film. Melville ha voluto calarsi fino in fondo nell'universo gangsteristico francese, dove non ha senso risalire all'origine di amicizie e amori perché, come il passato, sono custoditi con evidente omertà. Meno cose si sanno, meglio è. E questo non vale solo per i reati ma anche per le cose belle della vita, perché Gu e i suoi amici e nemici non possono ricordare nulla davanti a un bicchiere di vino, per non sconfinare in territori personali difficilmente gestibili per gente che gira con il colpo in canna. L'amore e l'amicizia valgono tanto quanto la morte che hanno dato e danno senza pensarci un secondo. Gu ammazza per necessità con freddo distacco; si lascia andare solo con l'odiato sbirro che lo ha torturato ma, un minuto dopo, il fatto è sepolto in un angolo della memoria. La pistola spara ed è un attimo. Melville non indugia un secondo di più nella descrizione dei conflitti a fuoco e delle esecuzioni, al contrario di tutto il cinema di genere che su quelle scene aveva costruito momenti di grande effetto. Le deuxième souffle è un film davvero importante. Certamente lo è stato per gli scrittori di almeno due generazioni, che hanno fatto propri alcuni aspetti e il modo di raccontarli. Lo è stato certamente per gli amanti del cinema noir. Personalmente ritengo sia stata l'opera più coraggiosa di Melville, ma è anche vero che il pubblico era ormai maturo per vedere qualcosa di diverso, per sporgersi finalmente sull'orlo dell'abisso.
Massimo Carlotto, “Facce da milieu (Le deuxième souffle)”, in Jean-Pierre Melville, a cura di Mauro Gervasini, Emanuela Martini, Il Castoro-Torino Film Festival, 2008 |
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Critica (2): | A una versione del romanzo di José Giovanni, Melville pensava da tempo. (…) Ex galeotto, autore di libri sul mondo del milieu, sceneggiatore di film diretti da Sautet, Deray, Enrico, regista di La loi du survivant, Le rapace, Le gitan e altri ancora, José Giovanni aveva trentacinque anni quando, nell'aprile '58, fu pubblicato Le deuxième souffle. Il romanzo, costituito da due storie che secondo Melville «non avevano nulla in comune», spaventava chiunque osasse cimentarsi a farne un film. Il problema di fondo era quello di legare insieme le due storie – una ambientata a Marsiglia e l'altra a Parigi – in modo da formarne una sola, «incastrando la storia di Marsiglia in quella di Parigi, la prima all'interno della seconda», come si legge nel libro-intervista di Nogueira (Rui Nogueira, Il cinema secondo Melville, ndr.). L'incastro riuscì bene. Il regista si occupò, come di consueto, dell'adattamento, della sceneggiatura e insieme con Giovanni scrisse i dialoghi. Le deuxième souffle incuriosiva Melville come documento sugli usi e costumi della malavita parigina e marsigliese. «È la memoria enciclopedica di tutto ciò che lui (Giovanni, ndr.) ha conosciuto in prigione; la scheda segnaletica degli eroi-leggenda, degli Charrière-Papillon... di cui si raccontano le vite esemplari. (...) Del libro ho conservato solo ciò che era melvilliano. Tutto il resto l'ho buttato via». La materia del romanzo era dunque un punto di partenza. Come del resto con gli altri testi letterari (per ognuno di essi vale l'espressione «libero adattamento»), Melville badò soprattutto alla qualità «visiva» che un libro come Le deuxième souffle offriva a un regista ricco di immaginazione.(…)
L'inizio è splendido. La fuga dei tre detenuti avviene nell'ora che precede l'alba. La luce è scarsa, si intravvedono appena i loro movimenti, come se fosse una stilizzazione gestuale. Il muro su cui sono a cavalcioni appare come una linea che taglia in obliquo l'immagine. Si odono rintocchi di campana, un rumore di passi, un cane che abbaia lontano. Si passa ai titoli, sovrimpressi sulla corsa a perdifiato dei due evasi in un bosco (il terzo è caduto nell'atto di spiccare un salto). Terminano i titoli, la corsa degli evasi si conclude. Il più giovane salta sul vagone di un treno che transita nei paraggi e aiuta il compagno a fare altrettanto. L'uomo di mezza età tenta più di una volta di aggrapparsi. Alla fine ce la fa, sfinito. Si accende una sigaretta (e si passa alla sequenza successiva con una dissolvenza in nero e uno stacco nel commento musicale). Melville non sfugge dunque alla regola di abbozzare in apertura i tratti di un personaggio e di inserirlo in un contesto di per sé trascurabile. Gu Minda, eroe negativo di questo noir è sostenuto dall'istinto di sopravvivenza – che Lino Ventura scolpisce sul suo volto di pietra – nel non desistere dal salire sul treno. Gu non rinuncia a fidarsi delle proprie capacità, nonostante gli anni (ne ha 46) perché appartiene a una generazione di «duri» che non si arrendono. Rientrato nel giro grazie a Orloff, è considerato uno della «vecchia guardia», un sorpassato, da truands della generazione attuale come Antoine Ripa e Pascal Leonetti. Ferito nell'orgoglio, sarà costretto a tirar fuori gli artigli.
Tutta la storia si impernia nella escalation del personaggio. Gu possiede una energia distruttiva che si comunica agli altri sconvolgendone la vita.
Melville concentra il suo interesse su questa figura statuaria, rispettosa di un codice d'onore che i più hanno dimenticato per accettare nuove regole del gioco. Chi sia davvero Gu lo si comprende anche da una scena di raccordo (mentre in solitudine consuma un pasto frugale, si alza da tavola e strappa con noncuranza il foglietto del calendario: è la notte di S. Silvestro), ma è quando maggiore esplode la tensione, che il carattere viene in piena luce: durante l'interrogatorio al posto di polizia, nel finale e allorché la sua identità di complice leale rischia di essere irrimediabilmente compromessa (la finta confessione escogitata da Fardiano). Da Gu, dunque, si irradiano i fili del racconto. Come Silien, egli fa muovere le altre pedine di un impietoso gioco al massacro. Ma quella di Le deuxième souffle è una storia a più voci e l'effetto corale s'impone. Attento rifinitore, Melville è un meticoloso direttore di attori. Da Alban a Orloff, da Blot a Manouche, da Paul Ricci a Fardiano, protagonisti di un tragico balletto tra poliziotti e delinquenti dove la posta in gioco è solo la morte, il noir francese attinge un livello qualitativo raramente eguagliato in seguito. E non è solo merito di una recitazione di prim'ordine. Si ha l'impressione che Melville, ignorando i modelli preesistenti, abbia creato un archetipo di individuo in lotta con se stesso e con un'identità spesso scomoda ma vissuta sino alle estreme conseguenze. L'ha fatto tendendo la psicologia dei suoi truands e flics sino all'astrazione e pervenendo a un'analisi «fredda» della logica dei sentimenti opposti, ingrediente base della narrativa noir. Il cinema e la vita sono come due facce di una stessa medaglia e l'uno ha in sé qualcosa dell'altra. Melville, che sin dal primo film ha affrontato il problema e l'ha messo al centro della sua attenzione, qui fonde cinema e vita trasformando i suoi personaggi in «statue», la cui interiorita emerge attraverso i rituali del Gesto e dello Sguardo, mentre la Parola ha una funzione quasi sempre accessoria (ciò si avvertirà particolarmente nelle ultime opere e in Le samouraï). Figure come Manouche, Blot, Alban, Orloff e, naturalmente, Gu hanno un grande spicco, dominano l'inquadratura pur rivelando i caratteri di una rigorosa asciuttezza. Pezzi di bravura come il monologo di Blot nel ristorante di Manouche, dopo che i killer hanno ucciso Jacques «il notaio», o la signorile compostezza di Orloff caratterialmente agli antipodi di Gu e degli altri truands («È un indipendente e ci tiene a questa prerogativa», afferma Paul Ricci: e Melville allude a se stesso) non sono fini a se stessi, sviluppano sino in fondo il discorso pessimistico del regista. Come lo è la maschera imperturbabile di Alban, il fedelissimo di Gu e Manouche, e più ancora lo sono la lieve ironia e la sensibilità di un Blot.
Film di attori di classe, Le deuxième souffle è stato accusato da qualche critico di essere monocorde e arido in maniera eccessiva: buoni contro cattivi, gente d'onore contro la meschinità dei moderni truands, sentimenti allo sbando e giustizia trionfante. Insomma, il solito Melville affetto da determinismo innato. Ma il discorso cambia se si esamina la struttura narrativa. Fino al momento in cui si compie la rapina, sino al fatidico 28 dicembre, il racconto procede alternando le scene parigine con quelle marsigliesi. Ciò rende più agevole l'integrazione delle due storie, che era il problema principale dell'adattamento, e permette di non confondere i diversi personaggi e i fatti che precedono la rapina. Nell'attesa del colpo, l'azione segue una precisa scansione temporale, contrassegnata da un uso insistito di date e di ore (la distribuzione italiana non ha perso l'occasione di stravolgere in maniera enfatica un titolo che voleva dire ben altro: «Il secondo soffio», «Il secondo anelito». La sequenza della rapina al furgone (un esempio del miglior cinema melvilliano) costituisce, ancor più del finale, l'acme del racconto, perché mette in gioco i sentimenti di «rivalsa» che due uomini così distanti tra loro (Antoine e Gu) nutrono verso se stessi. Antoine si esercita col fucile ad alta precisione, poi, al momento opportuno, rinuncia al mirino e fa fuoco a occhio nudo. Gu ha un compito più arduo perché deve dimostrare di essere ancora «quello di un tempo» e di saper dominare l'emozione. Il gusto melvilliano della scenografia spoglia e priva di attrazione spettacolare ambienta la sequenza tra pietre bianche, sole a picco e personaggi oppressi dalla calura (sembrano, con un effetto non voluto di finzione nella finzione, attori sul set in un momento di pausa). Prima che il crimine si compia, tutt'intorno regna un silenzio glaciale, interrotto solo da qualche rumore. La tensione dell'attesa è creata attraverso un montaggio implacabile: dettagli frontali del furgone in movimento alternati a primi e primissimi piani dei quattro complici, carrelli con il cameracar sui poliziotti di scorta, mentre leggeri movimenti di zoom in avanti isolano il fucile e l'occhio di Antoine Ripa nel mirino. Echeggiano gli spari che centrano i corpi dei poliziotti. Un attimo, ed ecco l'assalto al furgone. (…)
Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, Il Castoro cinema, 3-4/1990 |
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