Marchesa Von... (La) - Marquise d’O... (La)
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Regia: | Rohmer Eric |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura e dialoghi: Eric Rohmer (da Die Marquise von 0 ... di Heinrich von Kleist); fotografia: Nestor Almendros; montaggio: Cécile Decugis; suono: Jean-Pierre Ruh; scenografia: Roger von Möllendorff; arredamento: Rolf Kaden, Halo Gutschwager; costumi: Moidele Bickel; interpreti: Edith Clever (la Marchesa), Bruno Ganz (il Conte), Edda Seippel (la madre), Peter Luhr (il padre), Otto Sander (il fratello), Eduard Linkers (il medico), Ruth Drexel (la balia), Bernhard Frey (Léopardo), Hesso Huber (il portiere), Eric Schachinger (il generale russo), Richard Rogner (l’ufficiale russo), Thomas Straus (il messaggero), Volker Prächtel (il prete), Marion Müller, Heidi Möller (le cameriere), Franz Pikola, Theo de Maal (borghesi), Petra Meier, Manuela Mayer (le bambine); produzione: Les Films du Losange, Gaumont, Janus Film Production, Artemis, United Artists; origine: Francia, 1976; durata: 107'. |
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Trama: | Seconda metà del Settecento, Italia del Nord. Truppe nemiche assediano le città. La figlia del governatore viene salvata da un conte che la sottrae a un gruppo di soldati. La giovane donna rimane inconsapevolmente incinta. Ripudiata dalla famiglia, fa un'inserzione su un giornale per conoscere il responsabile. |
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Critica (1): | Nel 1799 i cosacchi assaltano una cittadella dell’Italia cisalpina, conquistando il castello comandato dal marchese von O. Sua figlia Giulietta, è aggredita da alcuni soldatacci, che tentano di violentarla. La salva l’intervento del conte di F., che – qualche tempo dopo – si presenta al castello chiedendo la mano della giovane marchesa, ma ottiene un fermo anche se condizionato rifiuto. Passano i giorni, e Giulietta ha la certezza di essere incinta. Noncurante dello scandalo, pur di dare un padre al nascituro, Giulietta pubblica un annuncio su un giornale, invitando l’ignoto responsabile della sua gravidanza a presentarsi, promettendogli di sposarlo. Con sua enorme sorpresa chi risponde è il conte, il quale confessa d’avere approfittato di lei la notte stessa in cui l’aveva strappata alla soldataglia. Malgrado la sua profonda indignazione, e purché il conte rinunci ai suoi diritti coniugali... Una volta terminata la realizzazione del lungo e maniacale progetto dei sei contes che avrebbe fatto Rohmer? La curiosità era giustificata. Ecco, il film successivo – La Marquise d’0 ..., tratto (ma vedremo come sia improprio il termine, per difetto) dall’omonima novella di Heinrich von Kleist – imporrà il cineasta a un vasto pubblico senza mancare di sorprendere piacevolmente i suoi. amici affezionati. Anzitutto affronta un testo non suo e perdipiù un testo letterario che lo costringerà ad abbandonare l’ambientazione contemporanea dei contes per cimentarsi con un film in costume: necessità che si svela desiderio a lungo coltivato, e che risponde alla capacità stessa del cinema di giocare con il tempo, di permettere evocazioni di epoche diverse e remote, ricostruzioni, sovrapposizioni, messe in scena di miraggi. "In ogni cineasta sonnecchia il desiderio di ricostruire mondi diversi da quelli reali, sia che si tratti di un mondo lontano, di uno futuro o di uno passato. Ma è un lusso che per lungo tempo non ho potuto permettermi perché giravo film con budgets molto limitati, mentre adesso posso girare dei film in costume":
(Entretien avec Eric Rohmer, a cura di Guy Braucourt, "Ecran 76", n. 47).
Ancora. Rohmer abbandona per la prima volta la lingua francese e dirige in tedesco un cast d’attori non più amatoriali ma addirittura teatrali presi in prestito dalla Schaubuehne di Berlino di Peter Stein (Edith Clever, Bruno Ganz, Peter Luhr, Otto Sander). Anche questo dell’altra lingua è desiderio: desiderio di affrontare un significante il più possibile puro (come può esser appunto quello prodotto da una lingua sconosciuta, o almeno straniera), di fare i conti con una lettera garantita proprio nella sua letteralità (non dimentichiamo che Rohmer sta già pensando a confrontarsi con i versi medioevali del Perceval di Chrétien de Troyes): "Desideravo girare in una lingua che non fosse quella di tutti i giorni. Desidero fare un film in versi: la prosa m’infastidisce, il prosaicismo m’infastidisce, volevo uscire da un cinema prosaico. Attualmente vorrei andare oltre un linguaggio corrente, e passare attraverso una lingua straniera è un modo per allontanarmi dal francese quotidiano tramite una lingua che inoltre sia completamente scritta, una lingua da testo classico del quale non bisogna cambiare nulla. Avevo bisogno di mettere in scena un testo che potessi rispettare, ciò che non potevo fare con quelli di cui mi ero servito finora, per due ragioni: prima di tutto perché erano miei e poi perché, essendo un po’ improvvisati, permettevo agli attori di modificarli. Avevo voglia di sentirmi veramente regista. Al contrario di quei registi la cui ambizione è di essere autori, io ero un autore che soffriva per essere tale e che desiderava trovarsi di fronte ad un testo da non toccare" ("Ecran 76", cit.).
(...) Arriviamo così alla novità che fa de La Marchesa von... una delle operazioni più originali nella storia dei rapporti tra cinema e letteratura: la fedeltà assoluta al testo, a un testo preso "alla lettera".
Intento dichiarato di Rohmer è quello di mostrare come il racconto di uno scrittore di due secoli addietro (la pubblicazione di Die Marquise von 0... risale al 1810), che ovviamente ignorava il cinema, fosse "tecnicamente" una sceneggiatura quale può concepirsi, e scrivere, solo per il cinema. Nelle Notes sur la mise en scène (cfr. "L’Avant-Scène Cinéma", n. 173, 1976) insiste sulla radicale mancanza di introspezione del narratore kleistiano che "si impone di non menzionare affatto i pensieri intimi degli eroi. Tutto è descritto dall’esterno, contemplato con la stessa impassibilità dell’obiettivo della macchina da presa (...) Meglio del più minuzioso sceneggiatore, Kleist ci informa con la più esatta precisione sugli atteggiamenti, i movimenti, le espressioni dei suoi eroi. Sappiamo in ogni momento se un personaggio è in piedi, seduto o inginocchiato". E non solo. Rohmer giunge ad attribuire a Kleist una scrittura che sembra presagio della riproduzione tecnica a venire, della quale il cinema rappresenterà appunto il trionfo: il fatidico episodio del guanto, lasciato cadere dal medico che si congeda dalla marchesa, "ha senso – dichiara – solo in rapporto a un possibile film" ("Cinématographe", n. 19, cit.). Ma non è tanto la promozione di Kleist a profeta che ora interessa, quanto l’assunzione di un testo di partenza a testo "intoccabile", che Rohmer denomina possibile e necessaria "resistenza" con cui deve confrontarsi il cineasta (Ecran 76, cit.). In tal modo egli qui esaspera quella nozione del testo cui si è attenuto nel progetto dei sei racconti morali, rispetto ai quali, tuttavia, come abbiamo visto, si riservava la licenza di integrazioni e modifiche di dialoghi e passaggi, convinto che la sua narrazione non fosse mai del tutto completa né compiuta, e che c’erano dunque "cose da aggiungere" (ibidem). Da "aggiungere", invece, non ci sarebbe nulla in Kleist: "Dopo il colpo di pistola si sarebbe potuto seguire la marchesa, ma ciò avrebbe. obbligato a mettere in scena un momento in cui non c’è testo. Ciò sarebbe quindi equivalso ad aggiungere qualcosa, a "fare del cinema"" (Cinématographe, n. 19, cit).
Nei sei contes moraux, l’altra identità, quella riflessa e garantita dall’autore del testo-romanzo, è stata finora l’elemento di equilibrio su cui poteva proporsi l’identità stessa di Rohmer regista. Nel momento in cui il programma in sei capitoli si rivela esaurito, all’autore, che non rinuncia certo alla sua politica (anzi, intende esasperarla fino all’assolutezza), non rimane che assumere nel luogo dell’altra identità, nell’altro discorso, un altro autore. E lo fa per poter fondare il proprio discorso. Kleist, per i motivi esposti nonché per la maniacale precisione descrittiva, ben si presta allo scopo. Ma allora è evidente come non bastava "ispirarsi" al testo letterario, e far dunque "del cinema" (cioè rinunciare – arrendendosi al modo di produzione, standardizzato – a quel discorso d’autore che Rohmer moralmente – persegue ed esteticamente rende assoluto). Occorreva invece prendere il testo alla lettera, perseguendo quel presupposto ontologico del cinema che altrove il regista aveva sempre sostenuto (cfr. a proposito di questi problemi di costituzione del soggetto-autore, E. Donda, "Nell’ontologia della fiction", Fiction, n. 2, 1977-1978). Così, paradossalmente, dal caparbio rispetto della lettera del testo non è Kleist che finisce con l’emergere e l’imporsi, ma proprio Rohmer, come autore che si valorizza nel momento in cui dichiara e pratica quella sorta di rispettosa neutralità che informerebbe la messa in scena del testo.
L’effetto di "raddoppiamento", che una tale pratica di messa in scena produce, non manca di suscitare nello spettatore una sorta di primitivo – stupore, la sensazione d’assistere, come per la prima volta, a uno spettacolo inedito che si offra pudicamente, eppure senza veli, allo sguardo: Frédéric Vitoux arriva addirittura a parlare di rivelazione (cfr. "Positif", n. 183-184), che è un termine non certo sconosciuto alla mistica (sarebbe allora più opportuno parlare direttamente di quell’epifania epifania del reale attraverso il cinema – che Rohmer ha invocato e difeso contro il nuovo corso dei "Cahiers").
Va notato come pure la promozione e il lancio del film siano stati centrati su questo aspetto di fedeltà assoluta e di provocatoria presa alla lettera del testo kleistiano. E perciò non si è esitato a sbandierare, come eccezione che rafforza l’assunto, l’unica licenza "poetica" che Rohmer si sarebbe concesso nel momento fatidico in cui l’inconsapevole Marchesa subisce la violenza carnale: in luogo di lasciarla svenuta Rohmer ha preferito vederla preda del pesante sonno provocato da un estratto di papavero (fra le cosiddette "licenze" va annoverato anche il ricorso ad un flash-back che contrasterebbe la pratica della "cronologia" che Rohmer persegue ma a cui è stato costretto dall’assunto di nulla aggiungere al testo).
Stralci fedeli del testo sono stati impiegati per i cartelli che scandiscono il film mentre, per i dialoghi, Rohmer ha trascritto i discorsi indiretti dell’opera kleistiana in dialoghi di stile diretto (operazione cui peraltro è ben esercitato visto che tutti i racconti morali sono in gran parte scritti in stile indiretto). Ne riportiamo uno stralcio per dar conto della meticolosità della operazione. Quando, ad esempio, il testo di Kleist suona: "Essa rispose, gettandogli le braccia al collo, che allora non le sarebbe apparso come un demonio se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo", la corrispondente battuta della Marchesa interpretata da Edith Clever suonerà: "Non mi saresti sembrato un diavolo se, alla tua prima apparizione, non ti avessi preso per un angelo". La trascrizione ha generalmente comportato una condensazione del dialogo e una conseguente impressione di rapidità, di esasperata essenzialità. Il tutto ripropone gli arcaismi di una scrittura ricca di espressioni e vocaboli in disuso nel tedesco di oggi, che Rohmer ha difeso dalle pressioni della produzione tedesca che avrebbe gradito una certa "modernizzazione" del linguaggio. Le difficoltà dei dialoghi richiedevano peraltro un alto livello professionale, e anche questo è stato determinante per la scelta della Schaubuehne di Berlino.
Era prevedibile che il proporre sugli schermi – al di là dei codici dei generi dominanti, compresi quelli cui ci ha abituati una certa produzione d’autore – una messa in scena talmente rispettosa non solo degli arcaismi del dialogo, ma soprattutto dei gesti prescritti da una letterarietà romantica (quale per certi aspetti potrebbe essere definita quella di Kleist), avrebbe provocato letture di tipo estraniante, se non addirittura suscitato, come di fatto è avvenuto, ilarità e sorrisi. Ilarità e sorrisi da Rohmer stesso previsti e non temuti, come non aveva temuto quelli, in verità più contenuti, che provocò il comportamento di Trintignant in La mia notte con Maud: "La recitazione non dovrà cadere nel patetico, ma restare naturale, una naturalezza che secondo le norme attuali certamente non è tale, ma neanche è mai esistita. Eviteremo ogni spirito di parodia. Se il riso esiste, è di diversa specie: deriva dalla distanza in cui Kleist si situa per narrare la sua storia e che noi intendiamo mantenere interamente, senza allungarla o ridurla artificialmente. Speriamo che il fatto di marcare bene l’interpretazione comica, in un passo che l’autore ha voluto divertente, stemperi nello spettatore del film il riso beffardo che, più oltre, potrebbe coglierlo davanti all’arcaismo di certe espressioni: parole, gesti o mimica. Si dirà che camminiamo sul filo, ma è così che fa lo stesso Kleist" (Notes sur la mise en scène, "L’Avant-Scène Cinéma", cit.). Come per i contes anche per La Marchesa, difatti, l’economia di un certo piacere filmico si realizza soprattutto nello scarto tra le enunciazioni del personaggio e il suo comportamento, tra l’enfasi della situazione e la parsimoniosa amministrazione della recitazione. Un sottile gioco di differenze s’innesta nell’ambiguità dei registri (patetico, ironico, comico) che è propria del testo di Kleist e nell’ambiguità su cui si fonda, e si mantiene, il personaggio stesso della Marchesa nel corso di tutto il racconto.
Michele Mancini, Eric Rohmer, Il Castoro cinema, 1988, La Nuova Italia |
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