Non toccare la donna bianca - Touche pas à la femme blanche
| | | | | | |
Regia: | Ferreri Marco |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Marco Ferreri; sceneggiatura: Marco Ferreri, Rafael Azcona; fotografia (Panoramico, Eastmancolor): Etienne Becker; costumi: Lina Merli Taviani; consulente militare: Jeff Demange; musica: Philippe Sarde; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Marcello Mastroianni (George Armstrong Custer), Catherine Deneuve (Marie-Hélène de Boismonfrais), Michel Piccoli (Buffalo Bill), Philippe Noiret (il generale Terry), Ugo Tognazzi (la guida indiana Mitch), Alain Cuny (Sitting Bull), Serge Reggiani (Cavallo pazzo), Darry Cowl (Arcibaldo), Monique Chaumette (Lucia), Franca Bettoja (Raggio di Luna), Paolo Villaggio (l’uomo della C.I.A.), Danièle Dublino (addetto alle pubbliche relazioni), Franco Fabrizi (Tom, fratello di Custer), Henri Piccoli (il padre di Sitting Bull), Pierre André Boutang (uomo di potere), Laurent Vedres (uomo di potere), Francine Custer (Hermine, figlia del generale Terry), Solange Blondeau (fidanzata di Arcibaldo), Giammarco Tognazzi (figlio di Mitch e Raggio di Luna), Marco Ferreri (il reporter Kellog); produzione: Mara Film, Les Films 66, Laser Production (Parigi)/Produzioni Europee Associate (Roma); origine: Francia/Italia, 1974; durata: 95'. |
|
Trama: | La presenza massiccia di varie tribù indiane preoccupa molto il generale Terry e alcuni politici americani che, riuniti in un caffé parigino, decidono di chiamare il generale Custer. Questi è un militare sanguinario, puritano e igienista: appena arrivato, vorrebbe subito attaccare con i suoi soldati gli indiani, ma il generale Terry riesce a trattenerlo. Nel film intanto si aggirano vari strani personaggi: un Bufalo Bill pederasta, esibizionista e narcisista, che racconta spacconate passeggiando su di un palcoscenico; un buffo agente della CIA; Mitch il pellerossa traditore, che sogna di essere bianco e di arrivare ad avere una donna bianca, e che intanto continua a ricevere pomodori in faccia. Mentre gli indiani, guidati da Sitting Bull, pensano ad armarsi, Custer imperversa con repressioni ed esecuzioni capitali, e nel tempo libero corteggia la bella crocerossina Marie-Hélène de Boismonfrais. Nel giorno fissato, senza attendere l’arrivo dei rinforzi del generale Grant, Custer e il settimo Cavalleria attaccano gli indiani, ma vengono accerchiati e sterminati. Anche Custer ci lascia malamente la pelle. Saggiamente il generale Terry, che seguiva da lontano la battaglia, si affretta a vendere le azioni della società ferroviaria. Gli indiani, dopo la vittoria, escono in massa dalla grande buca in cui hanno combattuto dirigendosi verso Parigi. |
|
Critica (1): | Il nostro cinema, e forse non solo il nostro ma il nostro in modo più evidente, è un cinema privo di gioventù e privo di maturità. Registi giovani di impeto e di età non ne conosciamo, e i registi maturi sono, da noi, senili. Pensiamo, di recente, alla turistica bétise dell’ultimo Antonioni, al suo immane bagaglio di luoghi comuni, di noia levigata: il suo film è certo il meno interessante di una carriera, morta retrospettivamente ai nostri interessi non turistici con lo sbarco in Sicilia della Vitti a metà dell’Avventura. Pensiamo all’olezzante adunata dell’ultimo Visconti, astenotrofio di lusso e amplessi di tibie e femori. Ma già anche alle “storiche” cavalcate romanesche di Ettore Scola, grate ai sornioni riformisti e in lode al più svaccato neorealismo rosa (non Ladri di biciclette, ma Pane amore e politica). Per questo la presenza di Ferreri, l’unico dei nostri registi e forse dei nostri intellettuali che sa essere anche europeo, ha qualcosa di tonificante. Il suo umor nero è determinato da qualcosa che ci concerne e non da ubbie salottiere, il suo pessimismo trova radici in un’analisi, come si dice, corretta, e le sue vendette hanno sapore e spessore. Questo teatrino didascalico dove non esistono personaggi e psicologie ma emblemi, funzioni sociali, contrapposizioni di ruoli, e dove si scivola con beata rozzezza nell’allegoria senza sacro, è tuttavia troppo sarcastico per essere epico. Il modello è quello di un guignol che si prende sul serio, o di un fumetto da alfabetizzazione a tappe forzate: gioco che ribadisce cose note e ovvie, per la sinistra, ma che le cuce sui fondali di un genere occidentalmente acquisito dai pubblici più indiscriminati e infantili in tutte le sue ficelles. Un regista così naturalmente distanziante non ha il problema di Brecht, e così raffinato nel suo peculiare narcisismo non ha il problema di Godard e del suo invadente autobiografismo: ma neanche quello dell’alta mediazione brechtiana e dell’invenzione godardiana. Si soddisfa qui – dopo le sue grandi metafore sul vuoto borghese da riempire – di una rapida carrellata in un genere, cercando di delinearvi un ribaltamento dei significati, attraverso però il rispetto di convenzioni scrutate con occhio malevolo. Ci sono così la banca e la ferrovia, l’avanzata del “progresso” e la sua controfaccia di “reazione” (Custer). Lo spietato e l’umanitario, il paternalista e il fascista non sono mai simboli, sono definizioni di ruoli e di divise all’interno di un sistema ugualmente coinvolto, quello dell’imperialismo e del capitale. Abbiamo il Banchiere e il Politico, il Militare e l’Attore, lo Scienziato e il Pedagogo del Sistema. Dall’altra parte, lo scout venduto, il saggio, il teorico, il vecchio, i guerrieri sono non divisioni di ruoli economico-sociali, ma atteggiamenti nei confronti della rivoluzione, posizioni all’interno di un blocco degli oppressi di cui non si intende analizzare meglio la struttura sociale interna, in quanto accomunati da un’unica oppressione. E Ferreri si colloca ovviamente e coerentemente all’interno del primo contesto, come fotografo-giornalista di corte, vedendosi ironicamente e coscientemente come parte del sistema. La falsa coscienza del quale è maggiormente esplosiva nel personaggio femminile di una Catherine Deneuve tranquillamente coadiuvante nel massacro di musi rossi, “bella come Maureen O’Hara in Via col vento”. Tutto questo Ferreri lo colloca, e qui è la sua più lucida trovata, nella buca scavata dalla distruzione delle halles, al centro della città di Parigi, che diventa la Città mondiale del capitale, stabilendo automaticamente, e via via poi definendola un’equivalenza sottoproletariato urbano-Terzo Mondo, dalla quale egli si aspetta il riscatto, nelle cui masse egli vede non solo gli oppressi maggiori, ma anche gli unici possibili portatori di rivoluzione oggi nel mondo. Il “collettivo”, il “tutti insieme”, predicato dal jolly-consulente Reggiani, riguarda loro e solo loro, secondo un’ottica che ci pare mediare Fanon con gli slogans di LC ai tempi di “Prendiamoci la città”. Non più la “campagna che assedia la città” ma in qualche modo “la campagna che è dentro la città” e fa scoppiare la città. La suggestione operata da questo paesaggio straordinario e da questa ideologia è forte, ma ci sembra riveli ancora la dimensione “borghese” del regista. Che contrappone all’autodistruttività borghese dell’Abbuffata la millenaristica rivoluzione (Millenaristica nonostante gli inviti alla strategia della lunga lotta, della lunga durata) degli oppressi, con risultati d’analisi certo non preoccupanti (Ferreri non fa proposte politiche dirette, giustamente e abilmente) ma comunque rivelatori di una continuità, di un atteggiamento ancora scarsamente maturante. Poiché è infatti quasi provocatoria la sicurezza di questo film, la sua assenza di dibattito tra i veri “nostri” che non sia di atteggiamenti e non di posizioni politiche, colla conseguenza di deludere le nostre esigenze più interne. D’altro canto, anche la demistificazione del west lascia alla fine perplessi. L’obiettivo da distruggere sembra essere per Ferreri il più mieloso degli western classici fordiani (diciamo quelli della “trilogia della cavalleria”), ma ci pare che il western, nella sua evoluzione di genere rappresentativo, di largo riflesso di una vicenda culturale americana (imperialistica), sia più contraddittorio di così, perfino con Ford, senza contare le revisioni recenti di Penn, Peckinpah, ecc. Ferreri non aggiunge molto a ciò che il western recente ha già detto: la differenza è che l’occhio ferreriano non può accontentarsi dell’aura comunque di falsa coscienza che il western come genere classico americano si porta sempre addosso, anche nei suoi critici-rinnovatori. Quest’occhio ha i vantaggi della lontananza geografica, della tradizione culturale europea con quel tanto di marxismo che la pervade. Ma non è certo un caso che i momenti più belli del film siano, nonostante tutto, quelli più classici, quelli in cui il genere trionfa, e qui anche con un commosso aggancio epico: la battaglia, e il ritorno degli indiani nella città, sullo sfondo gessoso di una buca-canyon degna in tutto della Monument Valley.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Marco Ferreri |
| |
|