Motorphsyco! - Motor Phsyco
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Regia: | Meyer Russ |
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Cast e credits: |
Soggetto: Russ Meyer, James Griffith, Hal Hopper; sceneggiatura: Russ Meyer, W.E. Sprague; fotografia: Russ Meyer; montaggio: Russ Meyer, Charles G. Schelling; effetti speciali: Orville Hallberg; musiche: Igor Kantor, Paul Swatell, Bert Shefter, Sidney Cunter; interpreti: Stephen Oliver (Brahmin); F. Rufus Owens (Rufus); Steve Masters (Frank); Arshalouis Aivazian (moglie di Frank); Richard Brummer (autista dell'ambulanza); George Costello (dottore); Russ Meyer (sceriffo); Alex Rocco (Cory Maddox); Holle K. Winters (Gail Maddox); Joseph Cellini (Dante); Thomas Scott (Slick); Coleman Francis (Harry Bonner); Haji (Ruby Bonner); Sharon Lee: Jessica Fannin; produttore: Russ Meyer, Eve Meyer; casa di produzione: Eve Production Inc.; origine: USA; 1965; durata: 74'. V.M. 14 |
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Trama: | Tre ""bad boys"" in motocicletta compiono feroci scorribande a base di sevizie, rapine e stupri. Contro di loro si coalizzeranno un veterinario e una donna cajun, ai quali i delinquenti hanno rispettivamente violentato la moglie e ucciso il marito… |
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Critica (1): | Negli anni seguenti, fra il 1966 e il 1967, il regista diresse quelli che, secondo molti, sono considerati i suoi capolavori. "Motorpsycho", del 1964, nasce sullo spunto di "The Wild Angels" di Roger Corman. Per delineare i personaggi principali del film Meyer fece una estenuante ricerca sulle gang di motociclisti, mentre la trama è il solito concentrato di sesso e violenza, con prevalenza di quest'ultima, non priva di elementi umoristici. Da "Motorpsycho" un nuovo elemento si aggiunge alla personalità autoriale di Meyer, che diverrà una ulteriore costante della sua produzione a seguire: i personaggi femminili, per quanto sottoposti a stupri, maltrattamenti e umiliazioni varie (che hanno portato alcuni critici a considerare il cinema di Meyer misogino e fascista), sono solo apparentemente delle vittime, riuscendo sempre a vincere il confronto morale e fisico con i personaggi maschili, sempre rappresentati sotto una luce negativa con gravi difetti mentali o fisici.
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Critica (2): | Come tutti i fenomeni estetici che più o meno direttamente hanno avuto una qualche importanza sul versante del costume, il cinema di Russ Meyer si presenta terreno di potenziale equivoco. In effetti, quando si parla di esso non è mai ben chiara la ragione della sua importanza: perché ha aperto nuove strade alla rappresentazione erotica in celluloide o perché, nel far questo, ha elaborato modi e modelli personalissimi di immaginario? Non che i due ambiti siano talmente disgiunti da escludersi l’un l’altro. Al contrario, essi sono in certo senso due facce della stessa medaglia. È piuttosto la stampa ad avere operato questa disgiunzione, privilegiando, naturalmente, l’aspetto scandalistico dell’operazione (o meglio, delle operazioni) di Meyer.
Ora, se nel 1959 (l’anno di The Immoral Mr. Teas) questa curiosità poteva essere giustificata, di certo lo è meno ai nostri tempi, che, come denuncia Meyer stesso, hanno visto uno sviluppo talmente eccezionale del hard-core da, svuotare qualunque pellicola soft di ogni potenziale elemento sensazionalistico. Ma il sensazionalismo di Meyer – oggi possiamo dirlo con certezza – è fatto di ben altro che non il solito mito del seno voluminoso o del nudo integrale.
Si è detto spesso che la grande novità del sue cinema risiede nella coerenza e nella coordinazione narrativa che giustificano la provocatività delle sue inedite immagini di nudo e di sesso. Questo è vero, ma sarebbe riduttivo intenderlo come un tratto caratterizzante, dal momento che la sua opera non è rappresentativa in alcun modo della produzione hard (senza contare, oltretutto, che l’affermazione non vale comunque per l’ultima parte della sua produzione, come vedremo). In altre parole, se il cinema di Meyer fosse hard, allora questa sua caratteristica ne farebbe un autore unico in quell’ambito. Ma il fatto è che Meyer, a rigore, non appartiene a quell’area di operazioni; e dunque il suo cinema deve essere osservato indipendentemente da quella struttura di riferimento.
In genere nel cinema hard soggetto e scenografia, costumi e location – quand’anche siano curati – vengono pensati in funzione delle sequenze strettamente sessuali (esattamente quel che avviene, poniamo, con Gerard Damiano). In Meyer è invece il contrario: è il sesso, o meglio il nudo, ad essere inserito in una cornice consapevole e accurata. Ho detto cornice e non storia perché diversamente nulla differenzierebbe Meyer da, che so?, I tranquilli giorni di Clichy di Claude Chabrol. Meyer cioè non bara, non pretende di sovrapporre immagini di nudo a un discorso sociale, storico, culturale, o altro. Nei suoi film si comprende bene che quelle scene di nudo e/o di sesso sono primarie per la pellicola; ma proprio in questo modo le sue eventuali componenti critiche – o semplicemente ricostruttive – emergono senza ambiguità, senza doppio gioco, senza fraintendimenti. Laddove, ad esempio, proprio nel film di Chabrol l’ambiguità porta al frainten-dimento, e quello che doveva essere un film d’ambiente e di costume (e addirittura di critica storica) ne vien fuori soltanto come un’operazioncina che con più sguaiataggine avrebbe potuto fare il Tinto Brass di questi anni: un porno smaltato nel quale ogni intenzione si stempera nella paccottiglia sensuale. Meyer però è troppo intelligente per accontentarsi di questo livello di comunicazione, e costruisce a suo piacere mondi inverosimili che ammiccano regolarmente verso lo spettatore colto: il Caldwell dichiarato di Mudhnoney (1965) – a mio parere una delle sue cose migliori fra quelle del primo periodo – nel quale abbondano sia i riferimenti letterari (c’è anche una nomenclatura faulkneriana: la bella Eula, che rimanda alla saga degli Snopes, ad esempio in Il borgo) sia quelli fumettistici, come nell’immagine della madre, evidentemente ripresa pari pari da Li’l Abner di Al Capp; la satira del best-seller di costume nel celebrato Beyond the Valley of the Dolls (1970); quella del noir d’azione in Finders Keepers, Lovers Weepers (1968), che però a me non pare proprio quell’omaggio a Don Siegel che tutti dicono; e naturalmente la sequela di pellicole incentrate sulla parodia di alcuni modelli sociali e culturali americani, il poliziotto duro e sadico, i tagliaboschi, i ranger, le infermiere, le go-go girls, ecc., ma soprattutto l’ossessione in chiave S&M del nazismo e dei suoi fantasmi che aleggiano sull’immaginario americano di cui film come Supervixens (1975), Up! (1976), Beneath the Valley of the Ultravixens (1979) sono fedele specchio.
D’altra parte confinare il cinema di Meyer nell’angolo-ripostiglio per intellettuali non sarebbe corretto né produttivo (sarà bene ricordare che nel 1970 l’Università di Yale organizzò una retrospettiva dei film di Russ Meyer). Esso, voglio dire, presenta certamente un livello di lettura apprezzabile dagli addetti ai lavori, un atteggiamento tongue-in-cheek molto allusivo, ma anche un’elaborazione cinematografica che va al di là del gusto satirico, della parodia, ecc. Tuttavia, per delineare questa componente della sua opera è necessario operare una distinzione fra le pellicole meyeriane: a) quelle che vanno dall’inizio a Mudhoney; b) quelle che vanno sino a The Seven Minutes (1971); quelle che costituiscono la sua ultima produzione. Nel primo periodo il cinema di Meyer si affida a un grottesco molto critico, sì, ma ancora influenzato dalla letteratura, dall’iconografia e dall’ossessione autobiografica stessa degli anni Trenta. Si tratta tuttavia del periodo più aperto di Meyer, quello in cui qualunque suggerimento venisse da altre esperienze cinematografiche trovava udienza presso di lui, a patto naturalmente che si dimostrasse adeguato ai suoi primari interessi di regista erotico.
Questo spiega la giustapposizione filmografia di opere come Erotica (1962) e Europe in the Raw! (1963) ad altre come Wild Gals of the Naked West (1962) e Heavenly Bodies! (1963). per non dire di Lorna (1964) e Mudhoney. Non è però possibile liquidare questa produzione sottolineandone semplicemente la variegatura. Mr. Teas è un film importante non solo per le strade che ha aperto al cinema osé, ma anche per il coraggio autoriale di concezione e realizzazione. Intendo dire che una cosa è mostrare delle ragazze nude nel 1959 e un’altra è farlo all’interno di una struttura narrativa strana, onirica, decisamente nevrotica come quella divisata dal regista. Mr. Teas, dunque, non è soltanto un film audace sul versante del nudo, ma un’opera compiuta per concezione e realizzazione. Forse non comparabile alla ricchezza critica delle pellicole del decennio successivo, ma certo piena di promesse per chi avesse voluto vedere in essa qualcosa di più del semplice succès de scandale.
Senza trascurare l’interesse di Wild Gals of the Naked West – non foss’altro per il fatto che anticipa alcuni momenti di Supervixens – è però con Lorna e Mudhoney che Meyer raggiunge il meglio della sua produzione di questo primo periodo. Non a caso opere imparentate per terreno culturale, ambientazione e direzione critica, la seconda è la trasformazione comica del quoziente di drammaticità della prima. Lorna trasuda cultura americana: non solo il riferimento caldwelliano, e più largamente anni Trenta, ma la componente biblica – tutt’altro che velleitaria appendice moralistica – le fughe razziste del dialogo, la quotidianità del lavoro frustrante che si intuisce alla base dell’abiezione, della violenza ed anche dell’impotenza sessuale dei personaggi. Essi sono così veri che, misurati sulla base della retorica hollywoodiana, paiono falsi: si comportano come nessun eroe, nemmeno negativo, farebbe nel cinema main stream. Quando uno di loro ghigna, quel ghigno non ci parla in termini di codificazione: no, è proprio uno sgradevole sorriso di una persona sgradevole (formidabile in questo senso la maschera di Hal Hopper). Solo, ognuno di loro si carica di verità a un punto tale da raggiungere il grado appena inferiore a quello che li porterebbe ad essere parodia. E un po’ come con i celebrati seni meyeriani: enormi, certo, ma assolutamente credibili, e comunque non comparabili a quellii veicolati dalla cultura pornografica delle big tits di riviste e filmati.
La indiretta verifica di quanto sopra è leggibile persino nei titoli della sua filmografia: circa un terzo di loro è seguito da un punto esclamativo (o più). Ecco, quel punto esclamativo vuol dire realtà; eccessiva sinché si vuole, ma pur sempre realtà. Nel momento in cui essa passasse al grado di parodia quei punti esclamativi perderebbero ragion d’essere, diventerebbero inutile sottolineatura di qualcosa che per sua stessa definizione è già esclamazione. Ed esclamativa è senza dubbio la qualità di pellicole come Motor psycho! (1965) e Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1966).
Francamente non riuscirei mai, come invece qualcuno fa, a comparare il primo al posteriore (di un anno) Hell’s Angels di Roger Corman. I tre giovani se ne vanno in giro su un motorino scorazzando per il deserto, quando qualunque turista sprovveduto sa benissimo che il capace serbatoio della sua compact noleggiata dalla Dollar Rent-a-Car può non bastare facilmente in certe topografie fra la California, il Nevada e l’Arizona. E poi, come diavolo possono far paura tre tizi su un 48 cc.? Questo naturalmente non garantisce che i tre non sian pericolosi. Semplicemente, che non è il caso di prendere alla lettera eventuali possibili rimandi cinematografici.
Ciò che caratterizza il cinema di Meyer è il realismo del segno, non certo della concezione e della tessitura. Tutto nella sua opera assume la qualifica di corpo. I suoi teppisti sono veri come lo sono i dettagli anatomici delle sue broad. Cioè: tutto è vero, ma tutto è eccessivo. A qualcuno pare credibile che il mondo sia davvero fatto solo e soltanto delle maggiorate meyeriane? È possibile che se una donna compare nei suoi film debba per forza essere sempre una stanga formosissima e provocante? E quindi il “realismo” di Meyer deve essere inteso nella sua giusta dimensione: ciò che vediamo della sua selezione è mostrato nella gloria del particolare esemplare, iperrealisticamente proposto. La difficoltà con Meyer è che è davvero impossibile far risalire la sua opera a una precisa, dominante matrice. Le influenze, i rimandi, le ispirazioni vengono da diverse direzioni, sia storico-sociali che letterarie e massmediologiche, senza peraltro raggiungere la felice condizione della sintesi, ma proiettandosi tutte su quell’ideale (e concreto) piano che è lo schermo. Non c’è dubbio che un personaggio come la Varla di Faster, Pussycat! derivi dal fumetto erotico underground, così come la famiglia nel deserto dello stesso film risponde ai richiami letterari più diversi (dal solito Caldwell fino a, ma sì, Tennessee Williams). Chissà, forse c’è persino una piccola parentela con certe coppie di ingenui del horror film anni Trenta (e dunque anche un’anticipazione del Rocky Horror...). Ma quel che è nuovo e personale si riassume nella violenza, nella crudeltà, nel sadismo, oculatamente retoricizzati con un abile lavoro di piani di ripresa. Una pellicola violenta in un’epoca ancora censoria avrebbe sfruttato il più possibile lo spazio dell’azione, avrebbe mostrato quel che c’è da mostrare in un quadro il più ampio possibile. Meyer no; anzi, con padronanza superiore il regista dedica non poca pellicola al campo americano e al primo piano in una sorta di esaltazione del malvagio e del carnefice non solo colto nell’atto sadico e perverso, ma nell’imponenza e nel magnetismo della sua gratuità morale, perfettamente espressa sia dalla foggia e dal colore scuro degli abiti, sia dalla prorompenza di forme che di per sé appaiono violente (questa “violenza delle forme” precipiterà poi nel terzo periodo meyeriano sino a giungere all’inquietante parodia di Margot Winchester, che in Up! usa il seno come arma contundente).
È questo il tipo di sadismo che se l’autore desume dall’S&M del porno che presto, dopo i movimenti di liberazione sessuale, sarebbe divenuto vera e propria voga, gli viene però anche per altra via dalle sue ossessioni nei confronti del nazismo (la sequenza d’apertura di Up! parla chiaro). Quel che non si capisce bene è quale componente abbia per lui più importanza dell’altra: probabilmente nemmeno Meyer potrebbe rispondere.
In ogni caso, il secondo periodo vede ancora un cinema caratterizzato da una storia organica (o almeno organicamente concepita) e da presenze femminili che rasentano la morbosità, quando addirittura non sfocino nella perversione. Non tanto - esempio sin troppo ovvio - la Verla di Faster, Pussycat!, ma anche la Ruby di Motorpsycho!, la cui bellezza provocante suggerisce inquietudine e sconcerto indipendentemente dal suo comportamento tutto sommato abbastanza normale. Certo Meyer si diverte a giocare con le metafore (la sequenza del veleno succhiato dalla gamba di Cory è anche troppo eloquente), ma - appunto - sono solo giochi, che peraltro concorrono a soddisfare l’attesa che il peccaminoso tipo fisico della protagonista solleva. Fino a questo punto, dunque, quello di Meyer si propone come cinema dell’incertezza, nel senso che lo spettatore - e non necessariamente soltanto lo spettatore maschio - non è mai ben sicuro del polo dominante del film: è la prorompente bellezza della ragazza o la linea dura della storia? È quel che potrebbe succedere fra i due protagonisti o la violenza convogliata dai tre ragazzi? Naturalmente non c’è risposta, poiché l’alternativa è falsa: i suoi due termini sono ugualmente a buon diritto i poli dominanti della pellicola, sesso e azione, sensualità e violenza si intersecano inestricabilmente facendo del cinema meyeriano il prodotto personale e irriducibile a qualunque altro che esso è.
E proprio per questo – intendo dire per questa sua qualità singolare, non ascrivibile ad alcun altro ambito cinematografico – esso è un magnifico terreno d’investigazione, non soltanto nella direzione del costume sessuale ma soprattutto nell’organizzazione dell’immaginario del periodo cui appartiene. Per far questo è ovviamente necessario liberarsi dalle ossessioni personali del regista o quantomeno focalizzare quel che di esse non serve all’uopo. Ad esempio l’insistenza, almeno da Motorpsycho! in poi, sulla radio portatile ci dice degli anni Sessanta molto meno dell’ossessione che Meyer mostra per la violenza non di rado concepita ed eseguita in forma rituale, o del modo con cui egli connette sesso, razza e politica (soprattutto in Vixen, 1969, opera straordinaria, non foss’altro che per l’audacia incestuosa e interrazziale). Lo stesso Finders Keepers, pur minore, denuncia nel 1968 un atteggiamento metacinematografico che la produzione dei circuiti regolari doveva ancora adottare e sfruttare. Personalmente ritengo che l’esperienza sul set di un grande studio come la Fox, in Beyond the Valley of the Dolls, abbia contribuito non poco al giro di boa che inaugurò il terzo periodo del regista (The Seven Minutes, infatti, pur essendo un’opera tutt’altro che spregevole, va considerata – del resto in linea con l’opinione di Meyer stesso – come un film dimostrativo, una presa di posizione contro Charles Keating, della lega dei Cittadini per la Letteratura per bene, al fine di ingraziarsi un pubblico che a tale discussione era ben poco interessato. Meyer si ritrovò con una pellicola che gli era piaciuta (e che aveva amato girare), ma anche con un’opera che in pratica gli bruciava ogni esperienza narrativa di tipo “tradizionale”. Voglio dire che dopo Beyond the Valley of the Dolls non sarebbe più stato possibile tornare alla commedia ironica d’intrigo di Cherry, Harry and Raquel (1969), per non dire delle folgorazioni pop in B&N squisitamente sessantesche di Motorpsycho! e Faster, Pussycat!
L’esperienza alla Fox consumava una volta per tutte la forte componente melodrammatica del cinema meyeriano con un filmone supremamente parodistico nei confronti non solo del best-seller della Susann (e del film che Mark Robson ne aveva tratto tre anni prima; ma ne esiste una versione girata nel 1981 per la TV americana, che non ho visto), ma anche dell’intera tradizione sessantesca del mélo di estrazione letteraria e sensazionalistica (a volte anche ben fatto come Dalla terrazza, ancora di Robson). Il film che alcuni critici definirono uno dei dieci migliori del decennio 1968-1978 era diventato per il suo autore alquanto ingombrante. Ma con la sua intelligenza consueta Meyer rielaborerà gli spunti che gli erano stati forniti dagli anni Sessanta, seguendo del resto la linea maestra della cultura di quegli anni, quel postmoderno di cui, forse senza nemmeno saperlo, egli è uno dei maggiori esponenti cinematografici. Con Supervixens il regista apre un nuovo capitolo del suo lavoro, questa volta segnato non soltanto dalla costante fumettistica di tante sue opere, ma soprattutto da una serie di ammiccamenti verso il suo stesso cinema (si vedano i nomi delle donne del film: SuperEula, SuperLorna, SuperVixens) nella costruzione di un universo chiuso organizzato su perfette rispondenze interne che in qualche misura ricorda le pratiche metafictional di eroi della narrativa
americana contemporanea come John Barth (Letters). Naturalmente non è soltanto il gioco di richiami che rimbalza di film in film a rendere il cinema meyeriano di questo periodo un campione cinematografico rappresentativo di una tendenza postmoderna. L'abilità dell’autore ad usare in modo scanzonato e irriverente tutte le pratiche basse della cultura di massa odierna, l’ironizzazione nei confronti dello stesso erotismo (anche qui viene subito alla mente un romanzo esemplare, Alp di William Hjortsberg, forse non a caso anch’esso condito di pastorellerie, yodel, picchi montani e altri manierismi), la formidabile capacità di giustapposizione di elementi incongrui; tutto contribuisce a costruire un cinema che a buon diritto può definirsi fra i più sperimentali dell’intera produzione americana di carattere narrativo (anche se a questo punto l’aggettivo è forse improprio: lo uso soltanto per distinguere l’opera di Meyer da quella dell’avanguardia underground e informale). Tentare di raccontare l’ultima produzione meyeriana è come provarsi a riassumere Trout Fishing in America di Richard Brautigan o Another Roadside Attraction di Toni Robbins (ma di questo romanziere forse si dovrebbe citare piuttosto Even Cowgirls Get the Blues: davvero varrebbe la pena di vedere la riduzione per lo schermo che Meyer potrebbe farne): non è possibile, la storia procede per accumulazione, o meglio, per giustapposizione di quadri, di immagini, di fantasticherie delle quali invano si cercherebbe il filo conduttore. L’inverosimile è la discriminante del caleidoscopio vorticoso che funge da metronomo per l’intera cultura americana innovativa degli anni Settanta. In quest’ambito i limiti di Meyer sono nel fatto che il ritmo delle sue ultime pellicole è affidato autonomamente ad ogni singola sequenza. Meyer, cioè, non cura con particolare attenzione i raccordi sceneggiativi, per cui mentre ogni specifico quadro dei suoi ultimissimi film è ben sostenuto nei tempi delle singole angolazioni, la struttura globale dell’impianto narrativo non è sempre soddisfacente. Davvero, non è necessario un impianto narrativo tradizionale per far sentire al pubblico eventuali cadute di ritmo sulla base di un’istintiva comparazione con i modelli fornitici dal cinema hollywoodiano classico; anche in affreschi ampi e inusitati come quelli proposti da queste pellicole si coglie subito il gusto autoriale per il dettaglio (la microstruttura che è la singola sequenza) e la trascuratezza nei confronti del quadro globale (la macrostruttura che è ogni singolo film).
Forse sta proprio in questo non solo il limite attuale del lavoro di Meyer, ma anche ciò che ne caratterizza la concezione stessa del cinema: una pratica che si fa nel momento in cui avviene, che non intende fornire una teoria del mondo in termini di approccio (cioè attraverso una programmatica distanziazione), ma che anzi intende equipararsi al tipo di pratica e di critica che è di un altro settore visuale, quei fumetti erotici e/o alternativi che così spesso l’hanno ispirata e che nei confronti del reale si pongono su un piano che non è di piatta mimesi né di fantasiosa anticipazione di marca surrealista (appannaggio, questo, più dei francesi come Moebius, Francis Mass, ecc.), ma di contaminazione fra la critica dei modelli culturali di massa e il consumo dei miti creati e/o alimentati da quella stessa cultura (il sesso in primo luogo). La distanziazione è dunque nello scarto fra la prima e il secondo, o meglio nella loro giustapposizione. È da questa che sortisce, oltretutto, l’umorismo di questo cinema (e di quei fumetti). Con la differenza che Meyer elimina la caricaturalità del segno - nei fumetti molto più semplice da attingere - per ricostruirla attraverso espedienti più consoni a un’arte di performance come il cinema: il fisico degli attori, la caratterizzazione, la voce stessa, ecc. Ancora una volta il corpo è la chiave della sua opera. Sia detto senza alcuna ironia.
Franco La Polla, Cineforum n. 299, novembre 1990 |
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