Eichmann Show - Il processo del secolo (The) - Eichmann Show (The)
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Regia: | Williams Paul Andrew |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Simon Block; fotografia: Carlos Catalán; musiche: Laura Rossi; montaggio: James Taylor; scenografia: Grenville Horner; arredamento: Asta Urbonaite; costumi: Daiva Petrulyté; effetti: Linas Kuzminskas, Technicolor Creative Services, DnegTV; interpreti: Martin Freeman (Milton Fruchtman), Anthony LaPaglia (Leo Hurwitz), Rebecca Front (Sig.ra Landau), Zora Bishop (Eva Fruchtman), Andy Nyman (David Landor), Nicholas Woodeson (Yaakov Jonilowicz), Ben Lloyd-Hughes (Alan Rosenthal), Ben Addis (Ron Huntsman), Dylan Edwards (Roy Sedwell), Justin Salinger (David Arad), Solomon Mousley (Perry Rudolph), Caroline Bartlett (Judy Gold), Ed Birch (Millek Knebel), Anna-Louise Plowman (Jane Hurwitz), Nathaniel Gleed (Tommy Hurwitz), Vaidotas Martinaitis (Adolf Eichmann), Justas Vanagas (Rolf Kneller), Maksim Tuchvatulin (Fred Csasznik), Yitzchak Averbuch (Giudice Landau), Zenonas Masiulis (Stan), Dziugas Siaurusaitis (Comandante Koppel); produzione: Feelgood Fiction-British Broadcasting Corporation (BBC); distribuzione: Lucky Red; origine: Gran Bretagna, 2015; durata: 90'. |
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Trama: | Gerusalemme, 1961. Per filmare il processo a uno dei uno dei più feroci criminali nazisti, il produttore televisivo Milton Fruchtman assume Leo Hurwitz, acclamato regista pioniere nell'utilizzo della multi-camera, ma inserito per oltre un decennio nella famigerata lista nera di McCarthy. Giunti a Gerusalemme, Hurwitz e Milton devono superare varie difficoltà tra cui quella di organizzare rapidamente una troupe composta da personale inesperto e soprattutto convincere i giudici a dare loro il permesso di filmare il processo. La pressione è tanta, ma il consenso alle riprese viene accordato e la squadra può piazzare in aula alcune telecamere appositamente nascoste. Nel corso di quattro mesi, i momenti salienti del processo vengono montati velocemente giorno per giorno e inviati tramite corriere in tutto il mondo, dando vita a un incredibile evento mediatico. Gli spettatori delle emittenti televisive internazionali vengono infatti messi a parte per la prima volta delle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti all'Olocausto osservando, allo stesso tempo, l'imputato Adolf Eichmann rimanere impassibile e non mostrare alcun pentimento per quanto compiuto dichiarandosi «non colpevole» e di «avere solo eseguito degli ordini» ai quali non poteva sottrarsi. |
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Critica (1): | "Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l'Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull'ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell'evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva. Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro 'La banalità del male') dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati. Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell'elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). (...) Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina...) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti. I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un'aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere. Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento – reale, simbolico o meramente retorico – dei fatti storici, che non possono sottrarsi all'occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d'ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza. La tv diventa «agente di storia». The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l'etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l'estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell'imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l'evidente mancanza di rimorso del colpevole.
Aldo Grasso, Corriere della Sera, 23/1/2016 |
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Critica (2): | Rigoroso, puntuale e a tratti emozionante, il film ripercorre tutte le tappe produttive dello “Show” il cui backstage diventa il luogo protagonista della messa in scena. Se il genere è decisamente drammatico, il filone di appartenenza dell’opera diretta da Paul Andrew Williams è quello del meta-cinema, o più esattamente “il cinema che osserva lo sguardo televisivo”. È naturale quindi che l’operazione cinematografica sia “a servizio” del suo importante ed imponente argomento, caratteristica che non ne sminuisce affatto il valore, benché non si tratti di un film di memorabile fattura. La narrazione dell’osservazione del “mostro” Eichmann da parte delle videocamere nascoste e preposte a videoriprendere il processo è il nodo principale dell’intero film: al punto di vista incarnato dal regista Leo Hurwitz (un ottimo Anthony LaPaglia) – un ebreo americano – importa più di (rac)cogliere le eventuali reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze rilasciate da alcuni sopravvissuti dei campi di sterminio che non i “fatti” o “le parole” che prendevano forma nell’aula del tribunale di Gerusalemme. Questo è un elemento chiave, perché è lì che il cinema si fa indagatore dello sguardo televisivo operato dal soggetto enunciatore, sia dello “Show” sia del film che ne fa il suo oggetto.
L’equivalenza audio-visiva contribuisce al processo di identificazione dello spettatore che – soprattutto nella seconda parte dell’opera – non può non farsi coinvolgere. La caccia ai sentimenti del criminale sembra il cuore di tutto, specie perché Eichmann dichiarò testualmente: “Non rivelerò mai i miei sentimenti più profondi”. Il vero stupore risiede non tanto nella mancata rivelazione, quanto nel fatto che il nazista conoscesse il termine sentimenti. La dichiarazione fece assumere la natura umana a chi perpetrò gesti decisamente disumani: non è un caso che questo straordinario evento giudiziario sortì la genesi di uno dei più importanti testi di filosofia morale che porta il titolo de La banalità del male, scritto dalla filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt. Il film non crea alcuna retorica nonostante la tentazione fosse inevitabile di fronte a un tale soggetto, che poco si distanzia dall’evocazione “mediata” del Male assoluto.
Anna Maria Pasetti, ilfattoquotidiano.it, 26/1/2016 |
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Critica (3): | |
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