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Prigioniera del deserto (La) - La captive du dèsert


Regia:Depardon Raymond

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Raymond Depardon; fotografia: Raymond Depardor., Laurent Machuel; montaggio: Roger Ikhelf, Camille Cotte, Pascale Charolais; musica: Jean-Jacques Lemètre; costumi: Fran
çoise Clavel; suono: Claudine Nougaret, Sophie Chiabaut; interpreti: Sandrine Bonnaire (la prigioniera), Koré, Dobi Wachinké, Atchi Wahili, Fadi Taha, Badei Barka, Daki Koré, Isai Koré, Brahim Barai, Barkama Hadji, Mohamed Ixa, Hadji Azouma, Sidi Hadji Maman; produzione: Pascale Dauman e Jean-Luc Ormières, per La Sept/Roger Diamantis/Films SaintAndré-des-Arts/Jean Bernard Fetouxl SGGGC/Jean-Luc Larguier/Titane; distribuzione: BN; durata: 98'; origine: Francia; anno: 1990.

Trama:Per attirare l'attenzione sulle condizioni di vita del loro popolo, i guerriglieri Tubu tengono in ostaggio Catherine Lemercier, una maestra francese, Giorno dopo giorno, una tappa dopo l'altra, la marcia nel deserto del Niger si fa estenuante e l'attesa senza speranza. Dopo un inutile tentativo di fuga di Catherine, inaspettato, l'ordine del "responsabile delle montagne" di liberarla. Un aereo militare francese atterra nel deserto.


Critica (1):C'è un piccolo naviglio che non ha mai navigato, Marinaio, conducilo in mezzo alle onde. Sulla nave della canzone che Sandrine Bonnaire insegna ai piccoli Tubu c'è l'uomo del villaggio globale e dell'immagine ad alta definizione, che il deserto dove vivono i popoli più poveri della terra non l'ha mai visto. Esso ha proiettato su miliardi di granelli di luce (niente altro che questo per alcuni secondi nella prima inquadratura di La prigioniera del deserto) volontà di supremazia, allegorie di autodistruzione, smania di solitudine e perdita di coscienza. Ma non ha mai guardato. Depardon fotografo e documentarista dall'occhio umano e con un interesse niente affatto morboso per l'assoluto naturale ci costringe a percorrere in 100 minuti, prigionieri, inesorabili vastità vuote, invischiati in una uniformità compatta, torrida e nello stesso tempo impalpabile. La fiction (avallata dall'esistenza di una sceneggiatura e dalla performance di una attrice molto nota e di grande professionalità) rimane al di sotto del livello minimo di quella che si può chiamare storia e la contropartita documentaristica esclude ogni sensazionalismo nè segue le linee didascalico-illustrative del reportage classico. Eppure Sandrine Bonnaire, la donna bianca che segue prigioniera senza catene, non odiata nè amata, la carovana dei nomadi è una apparizione forte: conturbante e esotica.
L'interminabile fila dei Tubu, i cammelli, il rumore dei loro passi fanno parte dello schermo "deserto' che attraversano. Lei no. La sua presenza introduce di colpo un punto di vista e un'attesa. Più tardi, nella memoria, tutti i movimenti del film si compongono come una magica coreografia intorno alla sua figura ora abbandonata, ora indifferente ora sdegnosa, ora inspiegabilmente serena. Di lei non si sanno che due o tre cose: che insegnava ad una scolaresca di bambini di colore, che qualcuno le ha scritto una cartolina da Lisbona, che forse a casa c'è un uomo che l'aspetta. Poi il suo nome, Catherine Lemercier, appena leggibile sull'indirizzo di una lettera un attimo prima che questa venga bruciata insieme alle fotografie. E le motivazioni della prigionia, scorciatoia verso una lettura direttamente politica del film, sono fornite alla stessa protagonista, con una dichiarazione lapidaria del capo dei Tubu, al momento della sua liberazione. Gli indizi, le informazioni "utili" sono fornite col contagocce, al limite della leggibilità, in ritardo. Ma, come per un fenomeno di abiogenesi, la materia vive. Lei, Catherine, di' quel" quotidiano ripetitivo, incerto e senza avventura (l'unica tentata e fallita, la fuga, non influisce sul decorso delle cose). Loro, i Tubu prigionieri del mondo, della dignità con cui mostrano le armi dei soldati, i vestiti colorati delle donne, lo sguardo intenso dei bambini, il cibo poverissimo e l'acqua che scarseggia nelle otri di pelle di capra. La sorda e muta resistenza che Catherine oppone, pure senza odiarli, ai carcerieri è un muro che si erge tra loro e la civiltà occidentale. Per questo Depardon la assume totalmente a punto di focalizzazione. Poi rinuncia alla passione di reporter (nessun discorso metafilmico sul regista e la sua troupe) impegnati a lavorare a 50° all'ombra), oblitera il suo stesso passato (non si leggono espliciti riferimenti alla vicenda per molti versi analoga di Françore Claustre, tenuta in ostaggio dai guerriglieri del Ciad nel '74/75, alla cui liberazione contribuì proprio un'intervista di Depardon), ricusa ogni intervento onnisciente (dialoghi esplicativi, musiche o rumori aggiunta. Sandrine rimane equidistante dai soldati e dalla mdp, sotto stretta sorveglianza, prigioniera anche delle inquadrature che non a caso evidenziano sempre la centralità della sua figura. Piccola, mentre si lava in mezzo al deserto volgendo le spalle nude, come divorata dall'immensità: oppure in piedi, con le gambe in primissimo piano nel disperato tentativo di controllarla e dominarla, di sapere "dov'è il confine"; oppure invisibile di notte, nella sua tenda. Il centro da lei occupato diventa pulsante e dinamico nonostante (o meglio, proprio grazie a) l'inazione e silenzio. Messo a tacere e tenuto alla giusta distanza, l'animale metropolitano è in grado di accogliere la diversità nel suo cono visuale. Il realismo di Depardon è perciò radicale, estremo, proprio per la semplicità quasi lapalissiana ella formula che lo sostiene: l'attesa diegeticamente non motivata di Sandrine è la semplice attesa del trascorrere del tempo su una situazione di fatto. E potrebbe durare molto di più magari otto ore come Empire se non fosse proprio lo stato di cose a contenere in sè l'urgenza di una risposta e ad imporre una percezione stratificata dei ritmi naturali. Il tempo dei Tubu è in perfetta sintonia con l'ordine immutabile della terra: camminano in lunghe file diritte come l'orizzonte al nascere del giorno e sostano in ordine sparso come le rocce che a tratti invadono il deserto al cadere della notte. Le canzoni e i balli replicano una cadenza millenaria, metafisica, che nemmeno il grande uccello d'acciaio osa violare con il suo rombo. Inconciliabile se non nell'oblio, il ritmo di Catherine porta l'imprinting di una cultura decisionalista ed in perpetuo antagonismo con il sorgere ed il tramonto del sole e con il susseguirsi delle stagioni e degli anni. C'è poi il tempo della visione che trova lo spettatore scoperto, subito privato delle difese dell'immaginario. Senza vezzeggiativi. L'incipit con la carovana di nomadi che entra da sinistra e attraversalo schermo in tempo reale contro l'orizzonte immobile mentre solo il rumore dei passi scandisce il passare dei minuti, pone un imperativo: bisogna avere occhi per vedere e orecchie per sentire. Per questo Depardon comprime immagini e suoni in serie compiute di inquadrature già di per se perfettamente autonome, che portano il particolare a perdersi nella perenne immanenza delle architetture dell'infinito, alla elementarità dell'orizzontale e del verticale, della luce e dell'ombra.
Nonostante la suddivisione in quadri che ne deriva, non siamo di fronte all'album di un fotoreporter magari malato d'Africa e il personaggio di Catherine non appare mai pretestuoso. Non esiste la scappatoia del giudizio estetico. Semmai proprio la manifesta mediazione della macchina da presa, tutto il peso del suo produrre inquadrature, la puntualità ed il rigore di queste, la nostra totale sudditanza nei confronti dell'immagine, possono dare la misura della distanza incolmabile che ci separa dalle realtà altre e lontane.

Adelina Preziosi Segno Cinema n. 50 agosto 1991

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