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Padre (Il) - Cut (The)


Regia:Akin Fatih

Cast e credits:
Sceneggiatura: Fatih Akin, Mardik Martin; fotografia: Rainer Klausmann; musiche: Alexander Hacke; montaggio: Andrew Bird; scenografia: Allan Starski; arredamento: Amber Humphries, Nasser Zoubi; costumi: Katrin Aschendorf; effetti: ScanlineVFX; interpreti: Tahar Rahim (Nazaret Manoogian), Sevan Stephan (Barone Boghos), Shubham Saraf (Levon), Dina Fakhoury (Lucinée Manoogian), Zein Fakhoury (Arsinée Manoogian), Hindi Zahra (Rakel), George Georgiou (Vahan), Akin Gazi (Hrant), Arévik Martirossian (Ani), Hatun Kazci (Delal), Bartu Küçükçaglayan (Mehmet), Feridun Koç (Dursun), Makram Khoury (Omar Nasreddin), Kevork Umezian (Ali), Kiram Umezian (Riza), Simon Abkarian (Krikor); produzione: Bombero International, in coproduzione con Pyramide Productions-Pandora Filmproduktion-Corazón International-Ndr-Ard Degeto-France 3 Cinéma-Dorje Film-Bim Distribuzione-Mars Media Entertainment-Opus Film-Jordan Films-Anadolu Kültür-Panfilm; distribuzione: Bim; origine: Germania-Francia-Italia-Russia-Polonia-Turchia, 2014; durata: 138’.

Trama:Nel 1915, a Mardin, la polizia turca rastrella i giovani armeni. Tra loro c'è anche il fabbro Nazareth Manoogian, che viene separato così dalla sua famiglia. Il fabbro riesce a sopravvivere al genocidio e, dopo aver scoperto che le sue figlie gemelle sono ancora vive, decide di mettersi sulle loro tracce. La sua ricerca lo porterà nei deserti della Mesopotamia, dall'Havana al Nord Dakota. Lungo il suo cammino conoscerà diverse persone, sia figure angeliche sia incarnazioni demoniache.

Critica (1):La parola, tremenda, è soykirimi e quel secolo-fiera di mostri e di atrocità che è stato il Novecento, l'ha coniugata, e non brevemente lungo la scansione del numero impressionante di vittime, in più di una lingua. Significa, in turco, "genocidio" e identificala strage di un popolo, l'armeno, ordita dall'Impero Ottomano, con la connivenza dell'omologo germanico suo alleato durante la prima macelleria mondiale, nelle convulsioni del tramonto feroce della sua storia enella dissoluzione delle regole di civiltà.
Con Il padre, da giovedì nelle sale, è proprio un regista turco, anche se solo d'origine e di nascita tedesca, Fatih Akin, a rappresentare l'Olocausto (più di un milione di cadaveri) che una nazione ha sempre nascosto e negato alla memoria. Le tribolazioni disperate di un'etnia filtrate attraverso l'allucinante calvario di un giovane fabbro cristiano, Nazaret, che, nel 1915, improvvisamente si vede staccato dalla famiglia perché il Sultano ha deciso che chiunque abbia superato i 15 anni debba vestire la divisa. In realtà, gli armeni sono praticamente condannati sia ai lavori forzati sia alla deportazione. Con eliminazioni di massa. Nazaret rifiuta di convertirsi all'Islam e per lui si appresta un destino da sgozzato. Ma l'ex galeotto che dovrebbe ucciderlo come un capretto lo ferisce soltanto e nella notte tornerà dove giace il suo corpo per soccorrerlo. Nazaret, reso muto dal colpo di coltello alla gola, si aggrega ad un banda di disertori per poi abbandonarla a causa delle loro gesta sanguinarie. Aiutato da un fabbricante turco di sapone, Nazaret aspetta, dolente, incupito e rabbiosamente trasformato in ateo, la fine della guerra. Solo allora saprà che tra i suoi parenti le uniche sopravvissute sono le due figlie gemelle. Inizia una ricerca inesausta attraverso gli anni e i Paesi, dal Libano a Cuba, sino al 1922 nella prateria del Nord Dakota.
Il padre è un'opera d'avventura con il cuore che palpita di ossessione e di passione: un cinema di sguardo, nella larghezza epica dello "scope", tra carrellate, panoramiche e molta macchina a mano, che possiede nel non parlare dell'eroe lacero la chiave di un'ispirazione forte e sincera che lo stacca nettamente sia dai pigolii colossali e stentati di The Search sia dal melò elegante, a tratti goffamente lirico e amoreggiante, di Water Diviner. Un film coraggioso che non fa sconti, che evoca la sorte degli uomini e delle donne armene senza se e senza ma. Genocidio è stato e genocidio resta. Il padre affronta la questione religiosa: l'eterno duello tra il Bene e il Male e non basta. Quelle pietre che Nazaret scaglia contro il cielo racchiudono non soltanto il problema del lavorio subdolo del Diavolo, ma anche l'interrogativo lancinante che, dopo la Shoah, gli ebrei si sono posti sulla giustificazione dei disegni dell'Onnipotente, come il filosofo Hans Jonas nel suo fondamentale saggio "Il concetto di Dio dopo Auschwitz".
Fatih Akin, aiutato anche dall'interpretazione soggiogante di Tahar Rahim, costruisce un romanzo d'ammirevole drammaturgia, priva di eccessi e trapunta della speranza chiamata solidarietà, folgorata almeno da una sequenza magnifica quando Nazaret riesce a trovare qualche minuto di pace e di sorriso guardando una comica di quel Charlot anche lui ancora orbato della favella.E Il padre attraversa i generi, western compreso, innervandosi di citazioni e di omaggi, ma senza mai dimenticare che la Via Crucis di Nazaret non è unicamente il parto della finzione, ma un lacerto di quanto gli armeni hanno subito e di quando il ricordo del soykirimi sia stato insabbiato, disperso e offerto alla vergogna del negazionismo. Non è affatto un caso che l'incipit sia apra con la scritta "c'era una volta e non c'era una volta": favola e verità si intrecciano e si confondono quasi come una barriera per impedire che la Storia si riveli e non venga oltraggiosamente mascherata, per rimembrare come il genocidio non sia stata un'arma che il Novecento abbia definitivamente esaurito nelle sue apocalittiche e ripetute pulizie etniche.
Il padre è la testimonianza che la classicità della messa in scena non è un retaggio d'antiquariato, ma una delle soluzioni possibili dell'affabulazione cinematografica, altrettanto possente che lo sperimentalismo e certamente di una diversa pasta rispetto alla moda dell'autorialità fine a se stessa devota a scrutare non il mondo ma l'ombelico del regista. Fatih Akin vola più alto anche con la carica di una preziosa commozione morale e culturale.
Natalino Bruzzone, Il Secolo XIX, 7/04/2015

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