Fata Morgana - Fata Morgana
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Regia: | Herzog Werner |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Jorg Reitwein-Schmidt; musiche: The Third Ear Band, Blind Faith, brani tratti dalle opere di Haendel e Mozart, canzoni di Leonard Cohen ("Hey, That's No Way to Say Goodbye", "Suzanne", "So Long Marianne"); montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus;interpreti: Lotte H. Eisner, Eugen Des Montagnes, James William Gledhill, Wolfgang von Ungern-Sternberg, Wolfgang Bächler, Manfred Eigendorf, Günther Welpert, Gunter Freyse, Hans-Dieter Sauer; produzione: Werner Herzog Filmproduktion, Monaco; distribuzione: Ventana; origine: Germania, 1968; durata: 78’. |
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Trama: | Werner Herzog in viaggio nell'Africa sahariana, Kenia, Tanzania, Guinea e Canarie, cattura con la cinepresa le immagini di un mondo che può essere considerato come metafora dello sviluppo della vita (e della morte) sulla crosta terrestre. Il regista tedesco, per girare questo singolare documentario, si ispira al testo sacro di alcuni indios del Guatemala, il ""Popul Vuh"", dividendolo, come quello, in tre sezioni: "La creazione", "Il paradiso" e "L'età dell'oro". |
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Critica (1): | Fata Morgana nasce (…) da " pellegrinaggi " alla ricerca di immagini attraverso tutto il continente, durante più di un anno, con momenti drammatici e disperati di tracollo fisico. Herzog e Schmidt-Reitwein all'inizio girano in Kenia e in Tanzania. Una volta in Uganda, sono arrestati per breve tempo, dapprima perché interessati alla figura di John Okello, il dittatore visionario (che sarà alla base del personaggio di Aguirre) all'ora caduto in disgrazia. Quindi, nell'estate del '69, l'avventura del Sahara: dall'Algeria al Niger nel periodo più ostile, quello delle tempeste di sabbia e, appunto, dei miraggi. Infine altri paesi dell'Africa centrale: la Costa d'Avorio, il Mali, il Camerun. Qui sono ancora fermati in quanto sospettati di essere mercenari e gettati in una prigione comune dove assistono a violenze di ogni tipo. Le ultime riprese sono completate solo l'anno successivo, alle Canarie (…).
È un'odissea sofferta, ma fortemente voluta e quanto mai decisiva e rivelatrice. Il film - girato " ad ogni costo " in condizioni così rischiose e a prezzo di patimenti addirittura annichilenti - non può che diventare in ogni sua fase il più estremo: quello che più di tutti gli altri mette a nudo e al tempo stesso amplifica, assolutizza, le componenti primarie del cinema di Herzog. Il paesaggio, in primo luogo. Ma anche il montaggio, le associazioni tra immagini, testo e musica, i movimenti interni all'inquadratura, l'apparizione improvvisa di personaggi singolari, ai margini di tutto. Più in generale, la ricerca della stabilizzazione di livelli percettivi più profondi. Se Fata Morgana infatti è un film estremo, allo stesso modo richiede una fruizione " totale ", sbilanciata, perfino ardua e coraggiosa. Lo spettatore deve farsi coinvolgere in una doppia lettura: una che si realizzi nei modi e nei tempi del sogno, dell'abbandono senza riserve, e l'altra che al contrario si accentri sulla complessa e costruita armonia che il testo istituisce tra le sue parti (per tutte, queste " singolarità " di concezione, crediamo, l'autore si rifiutò per qualche tempo di far uscire il film, fino a che Lotte Eisner e Langlois riuscirono a " strapparglielo " per mostrarlo a Cannes nel '71).
Herzog introduce fin dall'inizio, con una successione quasi regolare, una serie di avvertimenti affascinanti per costringere chi guarda a rendersi conto di penetrare in una dimensione sensoriale ignota, in un racconto che procede secondo ritmi propri e inusitati, nel tempo in cui il reale si fa illusorio e il sogno precipita bruscamente nello squallore della materia. Nella prima sequenza un aereo atterra otto volte di seguito e ogni volta è sempre più avvolto da un mare indistinto, sfumato di luce e calore. Le tre parti del film (La Creazione, Il Paradiso, L'Età dell'Oro) sono chiuse dall'autentica ripresa di effetti ottici ingannevoli, la « fata morgana » appunto; immagini per definizione incerte, irreali, dove le figure che si percepiscono sullo sfondo perdono ogni contorno, sfumano nel bagliore del deserto. Poi, per il resto del film, è il paesaggio che continua ad esplodere in tutte le sue forme. Ciò che lo fa apparire realmente inedito, solenne o misterioso, è prima di tutto la serie reiterata dei movimenti che lo presentano allo sguardo. Lunghi piani-sequenza fatti di percorsi orizzontali, da sinistra a destra (riprese aeree o radenti, da un'auto), su dune, montagne, terreni vulcanici, carcasse di animali o di veicoli, e poi su villaggi bianchi, squallide teorie di case mobili, file di bambini curiosi. Questi movimenti - lo avvertiamo progressivamente - hanno in sé un dato essenziale che ci risulta angoscioso: sono percorsi assoluti, privi in realtà di una direzione precisa (non fanno scoprire il paesaggio, ma lo celano, lo sospendono, proprio perché lo aprono all'infinito). La macchina procede continuamente verso il vuoto, lo smarrimento, annullando ogni residua cognizione di spazio e tempo, e soprattutto delineando lentamente il senso di un'estasi o di una perfezione impossibile, di una caduta vertiginosa verso la sofferenza che il testo fuori campo evoca con suggestione. In questo senso le immagini di paesaggi naturali senza traccia di civiltà, e quelle successive di miseri insediamenti umani, sembrano caricate dello stesso peso doloroso ed estenuato.
Fata Morgana rivela così i termini dell'approccio di Herzog (anche nei film successivi) alla rappresentazione della " natura ". Non espressione di una mistica fusione con essa, come per i romantici, ma individuazione di un elemento totalmente estraneo alle figure umane che vi si confrontano e quindi non più automaticamente riconoscibile nemmeno per chi guarda. In alcuni casi, come all'inizio di Fata Morgana, può risultare ancora un luogo arcaico, incontaminato - a volte solo sognato - che precede la caduta o, al contrario, segna l'apparire dell'apocalisse (…). Più spesso è, proprio nel suo fascino incomparabile, spazio che esprime una inconciliabilità, una minaccia tanto più incombente quanto più chi l'affronta è impotente nel decifrarne la potenza (da Stroszek ad Aguirre, al Jonathan Harker di Nosf eratu). Non si tratta con tutto ciò dell'esemplificazione di una negatività assoluta: c'è in essa anche la concretizzazione visiva del rimpianto per una possibilità di vivere e comunicare con ciò che ci circonda, perduta dalla nostra cultura (per questo solo gli emarginati lontani dalla nostra condizione sociale, gli indios di Aguirre, i due contadini che non lasciano il vulcano La Soufrière, gli zingari di Nosferatu, possono coabitare " naturalmente " con l'ambiente; per gli altri, anche per Kaspar Hauser o per Bruno Stroszek, non c'è più speranza, se non nel sogno).
Fata Morgana è dunque il lento, disperato attraversamento di questa " perdita ", realizzato attraverso immagini che (di nuovo) provocano un singolare affondamento del nostro rapporto col visibile. In questo senso anche gli elementi della colonna sonora, testo e musica, non servono a rassicurare, a ritrovare ipotesi predeterminate di lettura, ma assumono anzi una funzione antitetica a quella tradizionale del " commento ". La voce fuori campo, grave e monocorde, di Lotte Eisner - che racconta il fallimento della creazione (dal libro sacro dei Quiché guatemaltechi, Popol Vuh, scritto nel XVI secolo; ed. it. Einaudi 1960) - e le voci maschili che leggono le frasi allucinate di Herzog sul Paradiso e l'Età dell'Oro, non hanno mai un ruolo integrativo o di " interpretazione " del campo visivo. Si crea piuttosto un contatto ingannevole, straniante; si evoca un'atmosfera arcana che dà alle immagini lo spessore e l'inafferrabilità del mito, moltiplicandone nel contempo la desolazione nei momenti più disperati. Allo stesso modo la musica (Händel, Couperin, Mozart, e poi i Blind Faith e Leonard Cohen) non " commenta ", ma introduce contrasti o associazioni imprevedibili, " rivelando " la componente erotica di un movimento, o scaricando nella dolcezza un'apparizione improvvisa di abbandono e sfacelo. Fata Morgana, si diceva prima, si fonda comunque su più livelli di lettura. Non è solo, quindi una " libera " esperienza sensoriale sul modello di certo cinema sperimentale (alla Snow, per esempio). Bisogna pensare al film come a un'opera in fondo estremamente costruita, almeno durante il montaggio. In esso esiste di fatto un percorso interno coerente con le proprie premesse, sia pure derivato dalla progressiva dissoluzione di un'idea narrativa. Herzog afferma di essere partito da un soggetto di fantascienza (extraterrestri sbarcati su un pianeta ignoto, che si rivela essere il nostro) e il film rimane in fondo strutturato su questi segni di finzione " fantastica ", ma cambiati di segno e ricondotti alla loro materialità.
La prima parte, La Creazione, è la storia di un fallimento divino. All'inizio, l'universo naviga in una calma perfetta: solo il cielo, solo il mare esistono. Cominciano i movimenti laterali, dall'alto, su dune, alture bianche, montagne imponenti. A rompere il dominio assoluto della natura, qua e là sullo sfondo, pochi elementi di " civiltà ": pozzi di petrolio da cui si alzano fiamme; resti di un velivolo sulla sabbia. Sul paesaggio irreale si innesta una musica sospesa, sognante (i Blind Faith). Gli dei si riuniscono e decidono di creare la vita: prima la luce, poi la terra, la vegetazione, le montagne nate dall'acqua che si è ritirata. Ancora, il mondo è silenzioso. Vengono plasmati i cervi e gli uccelli, ma essi non sanno comunicare, pronunciare il nome dei loro creatori. Questa volta sono lunghi carrelli in camera-car, sempre laterali, su villaggi di paglia e su tracce desolanti del lavoro 'umano: attrezzi, tubi, montagne di bidoni di petrolio. Ai lati della strada comincia ad apparire qualche bambino. La musica è di Mozart (Messa d'Incoronazione) e Hàndel. Infine, vengono modellati l'uomo e la donna. Ma sono fantocci senza ragione e anch'essi restano muti di fronte ai loro creatori. Allora il diluvio li stermina, gli stessi oggetti si ribellano ai loro effimeri padroni. Così l'annientamento dei primi esseri umani è totale. Ancora inquadrature in carrello di miseri insediamenti ai margini del deserto. Auto rovesciate davanti a un'oasi, tende, baracche, e primi accenni di vegetazione, una cascatella, un villaggio scavato nella roccia, per poi tornare alle dune del Sahara, a sagome avvolte nel miraggio.
La Creazione si fonda su un segno dominante: la fluidità, il movimento erratico dello sguardo che contempla il fallimento cosmico della perfezione, accumulando nel suo percorso le raffigurazioni allucinate, eppure così spesso tangibili, della distruzione e del dolore.
Nella seconda parte, il Paradiso, il ritmo accenna a contrarsi. Appaiono figure umane ad attirare da vicino lo sguardo della camera in alternanza ai viaggi verso " ciò che rimane " della creazione sbagliata. Il testo o ff , scritto da Herzog, parla della vita nelle terre " paradisiache " con una serie di frasi sconnesse, più disperatamente rivelatorie e stupefatte che volutamente surreali (« ... In Paradiso si attraversa la sabbia senza vedere la propria ombra. Lì ci sono anche paesaggi senza un senso profondo. 'In Paradiso le rovine sono sinonimi di felicità ... In Paradiso si grida " salve! " senza vedere nessuno. Si litiga con gli sconosciuti per non farsi degli amici ... Respiri dolcemente come se fossi già morto ... »). Questo testo e la voce ipnotica di Leonard Cohen calano su immagini in cui non c'è ormai più traccia di natura isolata, trionfante: ancora accampamenti su terreni aridi, uomini al lavoro sulla pietra, escrescenze artificiali che emergono dalla sabbia. Ma questa volta c'è spazio anche per apparizioni di personaggi, più fantastici delle stesse conformazioni del paesaggio, che in qualche modo si esibiscono davanti alla m.d.p. Tra questi un improbabile scienziato ripreso in piani ravvicinati da un obbiettivo deformante mentre tiene in braccio l'oggetto delle sue ricerche, un rettile (il varano) che vive nel deserto, e ne racconta le abitudini insistendo con folle ostinazione sul mistero inesplicabile della vitalità di questo essere in un ambiente così ostile. Poi un uomo legge una banale lettera- dei genitori accanto a un altro individuo con occhiali neri (come tutti gli altri " interpreti " del film) che tiene una pallina in equilibrio sulla bocca; una giovane insegnante tedesca fa ripetere di continuo ad alcuni bambini negri la frase « la guerra-lampo è una follia ». Sono tutti personaggi incontrati " per caso " da Herzog nel suo cammino, ma qui in particolare diventano gli ideali sopravvissuti della catastrofe, gli esponenti tragici o grotteschi di un mondo in cui affiora la consapevolezza della perdita originaria dell'armonia e dove si vive ormai in un totale individualismo senza più nemmeno porsi il problema della comunicazione. L'utopia è già svanita, il paesaggio si chiude su immagini di oppressione e fatica atavica che non lasciano speranza, per poi spalancarsi di nuovo nella fantasmatica apertura del miraggio conclusivo.
Nel terzo " movimento ", L'età dell'Oro, ogni residua istanza narrativa sembra dissolversi in un caos profondo, segno della completa degradazione finale. La natura è diventata solo un concetto di cui si è perduto il senso. Il leitmotiv è l'inquadratura di un ridicolo complessino di infimo ordine, formato da un improvvisato cantante in occhiali neri, che suona anche la batteria, e da una matrona al pianoforte. A questi personaggi, più desolanti che comici, si alternano altre presenze singolari: una folla in processione nei pressi di un'enorme chiesa (« Nell'Età dell'Oro, l'uomo non dimentica di pregare: altrimenti dio finirebbe male »); quattro assurdi " turisti " che sbucano dalle cavità di un terreno vulcanico; un uomo in tuta subacquea che mostra alla camera le parti di una tartaruga e poi si tuffa con essa nell'acqua di una piscina. Infine l'ultimo volo su territori di nuovo completamente deserti, luoghi in cui forme e colori di una bellezza quasi angosciosa assumono un aspetto sempre più " infernale ".
Alla fine del viaggio di Fata Morgana, resta il senso di una sconvolgente progressione, in negativo, verso la perdita luttuosa di ogni referente assoluto. È una discesa vertiginosa: dalla illusoria contemplazione di un riflesso d'estasi all'attraversamento implacabile di residui di materia, brandelli di umanità in rovina, frammenti di quotidianità " impazzita ". Tutto questo, però, visto da uno stato febbrile che non fissa un centro d'orientamento, evita una definizione delle cose, permette la coesistenza di ironia e disperazione, moltiplicando il disagio indefinito dello spettatore. La caduta travolge miti, speranze. Nega perfino la possibilità di comunicare in profondità attraverso immagini totali, affascinanti, come si poteva credere all'inizio. La disgregazione successiva blocca ogni abbandono ipnotico. In pratica, il film diventa una sorta di allucinata requisitoria contro la fiducia in qualsiasi perfezione divina o finalizzazione mistica. Il mito paradisiaco è percorso solo per conservarne l'attimo negativo della scoperta del dolore, e prolungarlo così all'infinito. La distruzione dell'armonia continuamente verificata testimonia l'irreparabile miseria di una creazione fallita.(…)
Fabrizio Grosoli, Werner Herzog, Il Castoro Cinema, 1/1981 |
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